Saggi musicali italiani

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Author: Ritorni, Carlo
Title: Ammaestramenti alla composizione d' ogni poema e d' ogni opera appartenente alla musica
Source: Carlo Ritorni, Ammaestramenti alla composizione d' ogni poema e d' ogni opera appartenente alla musica (Milan: Pirola, 1841)

[-V-] ANALISI DELL' OPERA

I. Introduzione. II. Esordio. III. Tre qualità cui dee avere ogni bell' arte, e prima: ragionevolezza. IV. Definizione, origine del canto; V. dell' istrumentazione; VI. della poesia. VII. Del canto nel dramma. VIII. Viene chiamato dal verso; IX. nonchè dalla declamazione; X. ma dee assumerne la natura. XI. Seconda qualità: utilità nel melodramma; XII. considerata a termini d' arte, e come si ottenga; XIII. e con quali condizioni. XIV. Sue facoltà relativamente a quelle della drammatica in generale. XV. Sue facoltà a vicenda superiori. XVI. Terza qualità: beltà nel melodramma. XVII. Istoria del melodramma; sua origine; rinascimento della tragedia musicale. XVIII. Prima epoca: il melodramma del Rinuccini. XIX. Invenzione del recitativo. XX. Invenzione dell' aria. XXI. Il melodramma in Francia per opera di Quinault. XXII. Aberrazione dal metodo tragico al mitologico. XXIII. Progredimenti dell' opera in Italia. XXIV. Trova però nelle sue stesse ricchezze novell' inciampi. XXV. Seconda epoca: il melodramma dello Zeno; XXVI. e quale ne fia il valore. XXVII. Il melodramma del Metastasio. XXVIII. Quale ne fia la tessitura. XXIX. Quale lo stile. XXX. Quale l' attitudine alla musica. XXXI. Digressione: Paradosso curioso. XXXII. Aurea età della musica. XXXIII. I successori del Metastasio altri se ne fanno plagiarj, altri retrocedono all' antica scuola. XXXIV. La musica dispone il melodramma ad un cambiamento. XXXV. Danni e vantaggi di questo rivolgimento. XXXVI. Terza epoca: la musica del Rossini. XXXVII. Suoi componimenti principali serj; XXXVIII. e buffi. XXXIX. Come si componga il melodramma della musica moderna. XL. Sceglimento del soggetto. XLI. Esposizione del medesimo. XLII. Stile. XLIII. Caratteri. XLIV. Armonia complessiva del quadro melodrammatico. XLV. Elementi, e parti del melodramma. XLVI. Recitativo. XLVII. Aria. XLVIII. Cavatina. XLIX. Rondò. L. Cori. LI. Canti dialogati. LII. Canti moltiplicemente concertati. LIII. Tessitura complessiva dell' opera; introduzione. LIV. Altre parti del prim' atto. LV. Parti del second' atto, e scena finale. LVI. Critica del dramma descritto, e ragione della critica. LVII. Esame: della introduzione. LVIII. Sovvertimento nell' ordine del canto. LIX. Sconnessione nelle parti. LX. Manierosità antidrammatica. LXI. Uniformità di tutte le opere. LXII. Che non può esser questo il vero moderno sentire. LXIII. Presagi d' un cambiamento. LXIV. Apparizione improvvisa del Bellini. LXV. Sue opere. LXVI. Seconda parte della terza epoca: il Romani ed il Bellini. LXVII. Metodo belliniano. LXVIII. Critiche al Bellini. LXIX. Risposte alle medesime. LXX. Vero giudizio che si dee fare del Bellini. LXXI. Il Rossini, ed il Bellini. LXXII. Paragone negativo fra questi due autori. LXXIII. Paragone fralle loro scuole. LXXIV. Come il Bellini sentiva intorno la musica. LXXV. Stato della musica drammatica dopo la morte del Bellini. LXXVI. Epilogo delle accennat' epoche.

I. Delle qualità generali ad ogni drammatica, e come si rendano particolari nel melodramma. D' un novello metodo melodrammatico, conforme [-VI-] all' idee di ragionevolezza. II. Della drammatica in genere. III. Della melodrammatica in particolare. IV. Definizione del dramma; e del melodramma. V. Vero titolo dell' opera. VI. Soggetto della melotragedia. VII. Non dalle tragedie, dai romanzi, dall' istorie materialmente si dee ricavare. VIII. Utilità del suo particolar carattere. IX. L' argomento sia eroico. X. Il romanticismo non convenir al melodramma particolarmente; XI. del quale contrasta colle forme. XII. Quale poetico genere convengasi al suo bello musicale? XIII. Gli conviene la sublimità del bello ideale. XIV. Non esclude però l' unità e semplicità drammatica. XV. Se potrebbesi cantare la tragedia? e qual differenza da una tragedia cantata al melodramma? XVI. Delle qualità che acquista il dramma mercè l' applicazione della musica. La musica dividesi come la poesia. XVII. La poesia e la musica lirica. XVIII. Carattere, uffizio ad entrambe comune. XIX. Perchè finqui non si scrivesse questa divisione. XX. Quinci nacque l' equivoco fecondo di vana contesa. XXI. È tolta però di mezzo dalla regola suddetta, XXII. che stabilisce la musica drammatica di tutt' i tempi, XXIII. e di tutte le nazioni; XXIV. la musica insomma inalterabile nella poesia. XXV. Così sarebbe sempre stata, se le due arti non si fossero divise giammai. XXVI. Come seguisse siffatta separazione; XXVII. particolarmente nel risorgimento della musica. XXVIII. Riflessioni sovra questa divisione. XXIX. La perfezione d' entrambe nel melodramma sarebbe nell' unirsi esse in un solo autore. XXX. La più plausibile loro cooperazione procederà dal più possibile ravvicinamento d' entrambe. XXXI. Delle parti elementari onde si tesse la melodrammatica versificazione. I piedi della poesia e della musica. XXXII. Quali fossero fragli antichi. XXXIII. Quali fra noi. XXXIV. Versi parissillabi e imparissillabi; tempi musicali pari e dispari. XXXV. Tavola d' ogni sorta di versi, segnati co' loro accenti, e paragonati colla musica. XXXVI. Quale sia il risultamento di questi accenti? XXXVII. Le forme musicali oggidì si ricavano non identicamente dalle poetiche, ma per imitazione. XXXVIII. Se si possa coltivare una più stretta fedeltà col metro poetico? XXXIX. Delle forme onde si compone l' andamento del melodramma. Della canora locuzione drammatica. XL. Come se ne giustifichi la ragione. XLI. Della poetica locuzione, e come se ne giustifichi l' usanza. XLII. Primo grado della canora declamazione: il recitativo. XLIII. Istrumentale accompagnamento. XLIV. Come debba essere trattato. XLV. Secondo grado: il recitativ' obbligato. XLVI. Sua strumentazione. XLVII. Potrebbe la melotragedia restarsi a questo secondo grado? XLVIII. È chi opina, potersi applicar l' istrumentazione anche alla prosa. XLIX. Altra opinione vorrebbe a' recitativi sostituita la prosa. L. Terzo grado: il cantabile. LI. Istrumentazione eco del cantabile. LII. Idea d' un melodramma tutto in metro cantabile. LIII. Fusione dei tre gradi nel quadro musicale. LIV. Passaggio dal recitativo al cantabile. LV. Viceversa, ritorno al recitativo. LVI. Cautele da osservare nella melodica e armonica locuzione. LVII. Mescolanza ben' intesa d' entrambe. Metodo manieroso ne' cantabili da sfuggirsi. LVIII. Naturalezza ne' cantabili. LIX. Verace maniera di lavorar i metri poetici ai periodi musicali. LX. Dei tre stili ne' cantabili. LXI. Come si applichino all' espressione drammatica. LXII. Versificazioni corrispondenti a questi stili. LXIII. Del cantabile in dialogo. LXIV. Si lavori con artifizio dissimulato. LXV. De' cantabili del Coro in particolare. LXVI. Delle ripetizioni. LXVII. De' riempitivi. [-VII-] LXVIII. Delle repliche. LXIX. Dell' amplificazione musicale. LXX. Dei vocali ornamenti. LXXI. Obbjezioni contro la semplice verità drammatica. LXXII. Musica veramente lirica; come può inserirsi nella melotragedia. LXXIII. Come la suppellettile musicale dee da paro cooperare ov' è il maggiore effetto drammatico. LXXIV. Deesi trar profitto dall' arte degli esecutori. LXXV. Fino a qual segno si può contar sulla loro arrendevolezza agli autori. LXXVI. Della complessiva formazione del melodramma: Divisione, parti ed intervalli onde distinguesi in generale. LXXVII. Quale division appartengasi al melodramma. LXXVIII. Quale intermezzo si convenga fra gli atti. LXXIX. Se meglio convenga la scena mobile o stabile alla melotragedia. LXXX. Esempio d' una melotragedia completa; e prima della sinfonia. LXXXI. Norma; osservazioni sul suo totale. LXXXII. Sua prima esecuzione. LXXXIII. Rivista di questa melotragedia. LXXXIV. Suo semplice, severo stile; tuttavia gradito universalmente; LXXXV. sebbene non piacesse subitamente. LXXXVI. Altro esempio di melotragedia ideato appositamente. LXXXVII. Del genere istrionico che conviensi a rappresentar melotragedie; esemplare che se 'n propone. LXXXVIII. Particolare legamento dell' istrionica colla musica. LXXXIX. Celebri attori melodrammatici. XC. Relazione delle voci coi caratteri drammatici. XCI. Orchestra XCII. Imitazione strumentale. XCIII. Dovrebb' essere di due sorta. XCIV. Del musicografo. XCV. Se l' arte sua fia scienza ad un tempo. XCVI. Digressione sulla critica ed i critici. XCVII. Unità necessaria della critica e della pratica. XCVIII. Professionisti ed esecutori della musica. XCIX. Come talor' antepongano il materiale al virtuale della loro professione. C. Musica sociale. CI. Musica che sola ha dignità di bell' arte. CII. Come debbasi astenere dall' aride difficoltà. CIII. Come abbiasi a governare la musica con profondo sapere. CIV. In qual maniera consista la vera scienza nel celarla sotto bell' apparenza d' imitativa semplicità.

I. Dell' opera buffa. II. Inabile a giungere il fine della commedia. III. È un genere secondario alla melotragedia. IV. Deesi chiamare buffa non comica. V. In chè consista il suo carattere? VI. Negligenza de' poeti per questo genere drammatico. VII. Prima epoca dell' opera buffa. VIII. Seconda epoca che chiamasi volgarmente antica. IX. Nella musica moderna il carattere buffo si perde nel serio. X. Tentativi per richiamarlo a vita. XI. Quali mezzi unicamente potrebbero ottenere l' intento. XII. Veri temi agli argomenti del dramma buffo. XIII. Quale stile di musica gli s' addica. XIV. Un più libero patto tacito, di quellochè nel dramma serio. XV. Dell' introduzione. XVI. Recitativo e canto. XVII. Duetti. XVIII. Canti concertati; finali; cori; orchestra. XIX. Attori che particolarmente si segnalarono nel buffo. XX. Farse. XXI. L' opera urbana, genere da rigettarsi. XXII. Opera eroicomica. XXIII. Del Vaudeville degli stranieri. XXIV. Dell' Oratorio; XXV. e d' un associamento della musica coll' eloquenza. XXVI. Della musica epica, ovvero del poema melodrammatico. XXVII. Della musica dell' odeone o accademica, XXVIII. e della musica lirica. Canzonetta. Cantata. XXIX. La musica lirica povera di metri. XXX. Pure non li riceve ma prestali alla melodrammatica. XXXI. Alcune maniere di poetiche canzoni atte alla musica. XXXII. Dell' inno. Del salmo. Del cantico. XXXIII. Della musica istrumentale. XXXIV. Considerata [-VIII-] in sestessa, o relativa. XXXV. Come se ne poss' abusare nel primo caso. XXXVI. Della musica sacra. XXXVII. Carattere della musica ecclesiastica. XXXVIII. Difficoltà di comporre sulla prosa nella musica sacra. XXIX. Sua istrumentazione. XL. Musica militare. La sua espressione dee venir dalla forza istrumentale, non farsi parodia di musiche vocali. XLI. La musica del teatro pedestre. Cori delle tragedie. XLII. Sinfonie, tramezzi strumentali. XLIII. I tramezzi cantati e pantomimici disusati oggidì. XLIV. Della corepeja. Suo stato relativamente all' altre arti drammatiche. XLV. Esame sulla ragionevolezza, utilità, beltà sua. Della ragionevolezza. XLVI. Della utilità. XLVII. Della beltà. XLVIII. Fusione di queste tre qualità nella corepeja. XLIX. Esser un genere riservato a particolari casi L. Carattere, titolo di quest' arte. LI. Difficoltà del rappresentar muto. LII. Come si possa giustificarne lo sceglimento. LIII. Con qual mente, con quali cautele porlo in opera. LIV. Due parti della muta esposizione, e prima: espressione delle passioni. LV. Quando possa farsi più opportuna ed efficace della parola. LVI. Seconda: indicazione delle cose. LVII. Il Viganò inventore del coredramma e della pantomima figurata. LVIII. Pittoresco muovimento de' personaggi accessorj, ossia dei coristi. LIX. Acquistano importanza d' attori principali. LX. D' onde il corepeo debb' attingere i modelli di quest' arte. LXI. È pittoresca e in un musicale. LXII. In qual conto abbiasi a tenere l' opposto genere del semplice pantomimodramma. LXIII. Azione sorprendente del tema coregrafico. LXIV. Colpi di scena. LXV. Condotta semplice, intelligibile, di fatto; LXVI. Temi storici; mitologici; misti. LXVII. La coretragedia non dee abbisognare della protasi. LXVIII. Composizione del coredramma dimostrata sopra eletto esemplare. LXIX. Distribuzione dello sceneggiamento. LXX. Quale fia l' associazione, quale la relazione del coredramma cogli altri generi drammatici. LXXI. Della musica che accompagna il dramma corepeo. LXXII. Dee avere i suoi spartiti come il melodramma. LXXIII. Della pantomima e dei pantomimi. LXXIV. Di alcuni celebri pantomimi. LXXV. Delle danze che debbono essere intrinseche alla corepeja. LXXVI. Della corepeja comica. LXXVII. Quali ne sieno le forze, quali i limiti. LXXVIII. Dee aver un carattere a sè. LXXIX. Sua musica. LXXX. Sua pittoresca coregrafia. LXXXI. Esempi di coredrammatica buffa. LXXXII. Della danza in sestessa. LXXXIII. Come debbasi estimar l' arte della danza. LXXXIV. Digressione sul vestire dei danzatori. LXXXV. La danza non può soverchiare l' arti drammatiche fuori del caso di sommo decadimento in queste. LXXXVI. Stato de' teatri musicali al presente. LXXXVII. Delle paghe. LXXXVIII. Delle fastose decorazioni LXXXIX. Pensamenti per promuovere l' educazione drammatica. XC. Come con questo mezzo si avrebbero economici, buoni, quotidiani spettacoli.

[-1-] PROEMIO

Io credo lode non ultima da colti uomini meritare chi s' affatica di togliere pienamente questi difetti, o ridurli alla picciolezza e scarsità delle macchie delle quali non si offendeva Orazio in un bel corpo.

REZZONICO

Osservazioni intorno al dramma Alessandro e Timoteo.

Frutti d' un lungo assistere a' musicali spettacoli, e meditare su quei difetti che ne' loro componimenti han messe purtroppo profonde le radici, sono questi Ammaestramenti, de' quali alcune memorie andai per più anni abbozzando, e quasi in un taccuino registrando ne' miei Annali del teatro di Reggio, operetta pel suo provinciale scopo non nota generalmente.

Occasione a doverne compire la compilazione mi offerirono testè due Giovani esordienti, uno nella poesia, l' altro nella musica drammatica, il primo de' quali sul libretto che dovea lavorare pel secondo a me richiese consigli. Chi entra in tal guisa nell' arringo, incerto delle sue non esperimentate forze, non può che seguire quella scuola ch' è comunemente invalsa, quand' anche si sentisse internamente l' animo di dare in più maturi tempi con novello esempio leggi e freno agli abusi altrui. Perciò a questo consulente bastava porgere quelle [-2-] regole che al melodramma comune si appartengono, quindi la prima parte dell' opera mia era sufficiente.

Ma io aveva unitamente dissegnata l' altra maggiore porzione; onde di quella, dissi, e di questa affrettando la maturazione, mi sono trovato in grado di darle a luce, per comodità di molti altri più provetti, che se ne volessero giovare.

In quale conto sieno per avere la mia fatica que' dell' arte, in quale i semplici dilettanti, a me non tocca indagare. Il mondo oggidì distratto parte in gravissime proficue imprese, parte in un ozio totalmente opposto, non suole occuparsi molto delle erudizioni di amena letteratura puramente, che in altri tempi erano i più comuni e prediletti studj. Se questo mondo meglio la intenda dell' antico non mi arresterò ad osservare. Tantopiù che le cose particolarmente di teatro tuttavia durano a formare un impegno di molta lettura, di molte disputazioni, forse tanto maggiormente, quanto la materia isterilisce, e sembra inclinare al suo decadimento.

Qui perciò non dispiacerà, spero, vedere, come in un serbatojo, epilogato quanto in molti libri variamente si favella; acciocchè le moltiplici opinioni, le garrule controversie, i puntigli quasi di partiti, ridotti a certi capi, e con teorie e regole prevenuti, possano por fine al diverso opinare, o almeno dar le traccie, l' ordine, i principj per ridurre le incerte quistioni ad una idea stabile e principale.

[-3-] ARGOMENTO

DEL LIBRO PRIMO

I . Introduzione. Il. Esordio. III. Tre qualità cui dee avere ogni bell' arte, e prima: ragionevolezza. IV. Definizione, origine del canto; V. dell' istrumentazione; VI. della poesia. VII. Del canto nel dramma. VIII. Viene chiamato dal verso; IX. nonchè dalla declamazione; X. ma dee [-4-] assumerne la natura. XI. Seconda qualità: utilità nel melodramma; XII. considerata a termini d' arte, e come si ottenga; XIII. e con quali condizioni. XIV. Sue facoltà relativamente a quelle della drammatica in generale. XV. Sue facoltà a vicenda superiori. XVI. Terza qualità: beltà nel melodramma. XVII. Istoria del melodramma; sua origine; rinascimento della tragedia musicale. XVIII. Prima epoca: il melodramma del Rinuccini. XIX. Invenzione del recitativo. XX. Invenzione dell' aria. XXI. Il melodramma in Francia per opera di Quinault. XXII. Aberrazione dal metodo tragico al mitologico. XXIII. Progredimenti dell' opera in Italia. XXIV. Trova però nelle sue stesse ricchezze novell' inciampi. XXV. Seconda epoca: il melodramma dello Zeno; XXVI. e quale ne fia il valore. XXVII. Il melodramma del Metastasio. XXVIII. Quale ne fia la tessitura. XXIX. Quale lo stile. XXX. Quale l' attitudine alla musica. XXXI. Digressione: Paradosso curioso. XXXII. Aurea età della musica. XXXIII. I successori del Metastasio altri se ne fanno plagiarj, altri retrocedono all' antica scuola. XXXIV. La musica dispone il melodramma ad un cambiamento. XXXV. Danni e vantaggi di questo rivolgimento. XXXVI. Terza epoca: la musica del Rossini. XXXVII. Suoi componimenti principali serj; XXXVIII. e buffi. XXXIX. Come si componga il melodramma della musica moderna. XL. Sceglimento del soggetto. XLI. Esposizione del medesimo. XLII. Stile. XLIII. Caratteri. XLIV. Armonia complessiva del quadro melodrammatico. XLV. Elementi, e parti del melodramma. XLVI. Recitativo. XLVII. Aria. XLVIII. Cavatina. XLIX. Rondò. L. Cori. LI. Canti dialogati. LII. Canti moltiplicemente concertati. LIII. Tessitura complessiva dell' opera; introduzione. LIV. Altre parti del prim' atto. LV. Parti del second' atto, e scena finale. LVI. Critica del dramma descritto, e ragione della critica. LVII. Esame: della introduzione. LVIII. Sovvertimento nell' ordine del canto. LIX. Sconnessione nelle parti. LX. Manierosità antidrammatica. LXI. Uniformità di tutte le opere. LXII. Che non può esser questo il vero moderno sentire. LXIII. Presagi d' un cambiamento. LXIV. Apparizione improvvisa del Bellini. LXV. Sue opere. LXVI. Seconda parte della terza epoca: il Romani ed il Bellini. LXVII. Metodo belliniano. LXVIII. Critiche al Bellini. LXIX. Risposte alle medesime. LXX. Vero giudizio che si dee fare del Bellini. LXXI. Il Rossini, ed il Bellini. LXXII. Paragone negativo fra questi due autori. LXXIII. Paragone fralle loro scuole. LXXIV. Come il Bellini sentiva intorno la musica. LXXV. Stato della musica drammatica dopo la morte del Bellini. LXXVI. Epilogo delle accennat' epoche.

[-5-] LIBRO PRIMO

I. Que' componimenti ove la poesia e la musica dànnosi mano nell' opera comune, a' tempi antichi e primi delle bell' arti erano una cosa sola; nè avevasi allora poesia senza musica, nè questa viveva fuorchè nella poesia. Oggigiorno sono distinte le arti, divise le professioni, separati gli ammaestramenti. Quei della musica, lunghi, laboriosi, riservati, formano uno studio a sestessi: le regole della poesia musicale vengono quasi commesse al caso, e all' arbitrio della pratica, o piuttosto dipendono da servilità de' riti e de' bisogni musicali; sebbene la poesia, come fu prima maestra della musica quando divenne bell' arte, così oggigiorno ancora le dia corpo ed essenza, indirettamente in quella parte ancora, che meno si crederebbe, cioè nella musica strumentale. Non è musica veramente senza idee, nè sono idee senza concetti, ov' esse possano acquistar corpo e realtà.

In questo associamento dell' arte sola, diventata due, molti valenti uomini scrissero della minore, che indispensabilmente deesi però studiare in apposite scuole. Ma i lor trattati della musica suppongono un altro libro almeno, laddove passa a farsi ministra de' lirici poemi, e delle drammatiche rappresentanze: la qual opera, fra noi almeno, sembra mancar ed essere tuttavia desiderata. Più facile, il confesso, è questa parte, che, non richiedendo riservate facoltà, si può co' principj generali de' poetici studj ed intender e trattare; ma è la fatale facilità d'un troppo libero campo, nel quale l' umano ingegno, non trovando limiti materialmente segnati che lo contengano, facilmente imbaldanzisce e si perde. Oltrechè dal punto dove le due facoltà si toccano, compenetrandosi e necessariamente fondendosi, nascer veggo uno stato intermedio, da non dirsi bene se sia maggiormente [-6-] musica poetica, o poesia musicale. Così nelle lettere, frallo studio della grammatica, e quello dell' eloquenza sta l' umanità, e direi quasi la rettoric' ancora; egualmente la duplice arte melo-poetica congiunge alla grammatica sua, ch' è la musica, l' eloquenza ch' è la poesia, mediante un anello, cui ad annodare si richiede un istitutore professante le due troppo spesso disgiunte facoltà. E qui è dove vacilla il mio coraggio, perchè nemmeno questa umanità della melo-poesia non fu insegnata per altri, a guisa ch' io poss' ascendere al terzo arringo, senza lasciarmi addietro un gradino non sormontato. Nè capace assolutamente mi tengo di spiegar quella parte, ove dovendosi trattare per metà della musica, convien pure perciò categoricamente parlarne. E che far dunque? Mi sarà forza, in favellando della poesia musicale, discorrere di musica piucchè non vorrei; ma il farò con tale cautela, che si vegga l' uomo il quale, camminando tentone, difendesi dagl' inciampi solo col temerli. Il dirò pure: pel cammino ritroverò i presidj; e ne sia frattanto anticipato pegno accorciar i proemj, ed impiegare meglio il tempo e le parole laddove sulla via de' fatti si guadagni ad ogni passo una qualche parte del sentiero.

II. Non è cosa che più nobilmente debba divertire delle drammatiche rappresentazioni, nelle quali lo spirito è dilettato da un' imitazione che al tempo stesso istruisce. I musicali spettacoli poi sembran oggidì riserbati alle più solenni circostanze, forse perchè l' armonia che li accompagna presta loro un artificiale splendore, da cui deriva maraviglia ed esquisito dilettamento. Ma insorgon alcuni: che ciò fassi a danno della ragionevolezza, e chiamano l' opera, come ognun sa, bel mostro, di cui potrebbesi dir colla volpe di Fedro: Quanta species cerebrum non habet! Quindi quella satiretta del Poeta:

    "Fatto musico Ettor, musico Achille,
       Fra di battaglia e d' armonia duello
       E cantando s' azzuffa, e muor cantando."
Tutti però ricantano l' epigramma del verso e non il savio commento della prosa che ne fa l' Algarotti: "Nè quella critica fatta già contro l' opera in musica, che le persone se ne vanno alla morte e cantano, non ha origine da altro, se non se dal non ci essere tra le parole ed il [-7-] canto quell' armonia, che si richiede. Imperocchè se tacessero i trilli dove parlano le passioni, e la musica fosse scritta come si conviene, non vi sarebbe maggior disconvenienza, che uno morisse cantando, che recitando dei versi". E invero per chi goda maggiormente riflettere che dir vivezze, non è il morir cantando, ma il viver ossia il parlar cantando, che fa il carattere dell' opera. Se durante la tragedia l' interlocutore avrà parlato accento di cantare con persuasione dello spettatore, ne verranno di conseguenza l' ultime sue parole in morte dello stesso stile. Se poi tutta l' azione sarà stata espressa menchè verosimilmente in musica, tarda, per non dire inetta, è la critica riserbatasi all' ultime parole. Ma una vivace sentenza in versi mal può avere autorità entro un trattato, ove non proceda dalle precedentemente discusse e provate teorie. Molto si declamò sull' opera in critica forma solamente; indirettamente furono i materiali additati della sempre invano desiderata riformazione. Tempo è omai che se 'n parli didascalicamente. Le critiche, ancorchè fondate sopra sensato raziocinare, involvono sempre quel rimprovero: Oh tu che mettesti in brani l' arte e l' opera degli artisti, ci conforta ora e ci ricompensa, insegnando come si possano, giusta le regole di tua critica vittoriosa, ricomporre e riprodurre perfette e non men belle. Farommi prima di tutto a indagare se nei drammi musicali sia quella ragione che può assoggettarli alle regole dell' arte, o si abbiano ad abbandonare a sestessi, e all' indotta beltà che appunto può accozzarsi ancora in un leggiadro mostro.

III. Bell' arte, a mio credere, è titolo che significa più di quanto sembri accennare nel suo senso materiale. Certamente poi sarà tale esquisitamente, allorchè congiunga queste tre qualità: ragione; utilità; bellezza: Stimando noi, come dice il Santucci (Dissertazioni sulla musica, Lucca 1828), ben meschina quell' arte che del solo dilettar si compiace.

La ragionevolezza direbbesi a prima vista mancar affatto nel melodramma, perchè, come si possono introdurre uomini che invece di favellare famigliarmente parlan cantando al suono dell' orchestra? Ma d' altra parte, il dramma qualunque non è poesia? E la poesia non è figlia della musica? E il verso non è canto per sestesso, qual sia l' uso che se ne faccia?

[-8-] IV. Fu il canto un impulso dell' anima, che sospinse la voce quasi fuor di sestessa, onde sonora rimbombò poi dilettevolmente nell' orecchio. Il primo vivente, forse nel giorno di sua creazione, fu il primo musico, innalzando cantico di lode, di ringraziamento al Creatore, e, penso, inspirato con infusa scienza di canto, datagli in dono, a riempire, e render più beati gli ozj di quella vita innocente. L' istinto al cantare deesi supporre innato nell' animale ragionevole. Come potrebbe mai esser di sotto degli uccelli, che al caso gli sarebbero stati essi primi maestri?

V. Nacque dunque il canto cogli uomini, e dal canto la poesia, e l' istrumentazione: la prima, modificatrice, la seconda, emanazione del cantare; ma in quello solo sta il germe, sta l' origine del triplice nodo musicale: verso, canto, suono. Riconoscendo l'uomo suoni consimili a quelli della sua bocca uscir anche da inanimati corpi, accordò ad essi la voce per sostenerla ed animarla coll' emulazione.

VI. Quella espansione, quello slanciamento della voce richiedette corrispondenti pause, riposi che ridussero il canoro discorso in una serie di membri e cesure, cui apparossi dar eguale misura e artificial melodia, la quale, del canto effetto, fosse poi maestra di canto novello. Or dunque la lirica poesia, sacra o profana, altro non è che musical canzone, e per altra cosa non può considerarsi nel suo componimento, quand' anche non ne sèguiti poi l' applicazione. L' epica non è che una lirica continuata; e ben si sa che presso alcuni popoli consisteva in una serie di cantici guerrieri, e nelle cantate imprese d' eroi. Ma il dramma? Non deesi emancipar da questa regola generale, per seguire quella maggiormente necessaria d' una più vera imitazione?

VII. Non sembra che i Greci, padri dell' arte drammatica, quell' almeno dalla qual ebbe origine la nostra, sieno stati di tale opinione. La poesia in sua fresca giovinezza portò sulle scene il canto, da cui non avev' ancora imparato a scompagnarsi. Senz' addurre l' opinione di coloro, che sostennero, la tragedia greca essere stata una specie d' opera propriamente, mi atterrò all' universale comprovato parer degli eruditi, che un qualche genere di canto la accompagnasse. Certamente canto sfogato eran i cori, e col canto propriamente avran dovuto dialogare quegl' interlocutori che così frequentemente mettonsi a parlar mutuamente al [-9-] coro. Ben si vede dai versi a parte destinati a questi dialoghi musicali. Che se porzione della tragedia era canora, poteva esserlo, almeno mercè un recitativo cantato, il restante; altrimenti, senza toglierne il fatto, verrebbesi a supporre una maggior incoerenza. Dice Engel (Lettere intorno alla mimica): che la tragedia greca è visibilmente intrecciata di lirica. La nostra opera, benchè tutta lirica, non lo sarebbe in pratica, mentre il canto non vi è adoperato come canto. I più contrarj poi a concedere ciò, convengono, che i Greci declamavano con certo accento musicale, a cui accordavasi il suono degli strumenti. Con ciò ancora si vien sempre ad ammettere l'introduzione d'una musica nella tragedia.

VIII. Ma senza l' autorità dell' esempio de' Greci, basta il verso a giustificare il canto, perchè se non supponesi questo, cosa vuol dir' quello? Perciò parlando sottilmente, pecca maggiormente contro la ragionevolezza una tragedia in versi, recitata, che cantata. Si dirà che i versi servono a sostener lo stile, e dargli poetica sublimità. E il fraseggiare poetico stesso così fuor dell' ordin comune, e del metodo di parlar conversando, non abbisogna quasi anch' esso del canto, che ne giustifichi l' esagerazione, o ne sia giustificato a vicenda? perchè, poetica immaginativa, verso e canto son tre cose d' un grado alpari sollevato sull' ordin naturale, e come vanno unissonamente volentieri assieme, non possono star che imperfettamente scompagnate.

Non sarebbe per lo meglio lasciar l' usanza di cantare drammatici poemi a' Greci, che così adoperarono, perchè l' arte poetica, novell' allora, non aveva imparato emanciparsi dalla compagnia della musica, o perchè a quella lor lingua, ed alle consuetudini loro poteva non sembrare strano ciocchè sembra in questi tempi? E non sarebbe buono ancora, se questo sagrificio richiedesse la ragione, far le tragedie in prosa, anzichè l' esempio de' versi di passo in passo ci costringesse non poter negare l' altra supposizione, che si parli cantando perchè si parla poetando? Veramente nel secondo caso non varrebbe dir che i versi (cui niuno potrà provar essere naturali a verun genere di rappresentativo dialogare, peggio poi se rimati, e cui tanti si sforzano con mal ripiego di giunger e ridurre a prosa declamando), non varrebbe dir che i versi sono necessarj a sostener sublime, o poetico lo stile; che allora si risponderebbe: Dunque l' eccesso di poetica esagerazione [-10-] oltre il naturale in un fatto rappresentato come accadesse, incomincia dai concetti, se richieggon essi l' analogia d' una locuzione cotanto fuor del comune, cotanto musicale, qual è la versificazione! Ma si abbia pur diritto la tragedia di favellar poetiche frasi, e declamar versi, purchè lamelo-tragedia quello di dir tutto ciò cantando. Le ragioni ne vedemmo fin da principio.

Una prova viene indirettamente al melodramma dall' odierno proso-dramma. Nella commedia che strettamente imita personaggi de' quai gli originali hanno gl' identici modelli negli spettatori, si adopera la prosa. So che alcuni si sforzano ancora sostenere la ragione del verso, mentre va bandito dall' uso universale; ed Engel, che applaudisce alla sua Nazione per aver dato sepolcro alla tragedia verseggiata, confessa altrove d'essere messo in sacco dagli argomenti d' un Autore in pro della comica versificazione, concedendo che ogni arte imitatrice dee non ispogliarsi di quel bello menchè verisimile, senza il quale correrebbe pericolo di confondersi col vero. Sofisma! perchè ciò non può mai accadere, mentre ci ammonisce anche troppo della finzione il perfezionamento che dà l' arte imitatrice alla verità, il ritornar a noi stessi fra gli atti e al fin dell' azione, il riguardare i compagni spettatori dell' esterior teatro, l' imperfezione dell' imitata angusta natura nella scena materiale; nè siam già fanciulli condotti la prima volta agli ignoti teatri. Che se anco l' imitazione venisse a confendersi colla verità, non difetto, ma sarebbe il più perfetto scopo dell' arte, impossibile però a raggiungersi per sestesso. Ma la ragione ch' esclude il verso dalla commedia si è, che molto nuoce alla verità, non potendosi adattarlo ad un vero favellar nostrale, nè giova darsene alcuna briga, mentre la commedia, perfetta in prosa, non può diventare con ciò nè migliore, nè più bella. E infatti l' arte dell' attore, oggidì massimamente, si fa un dovere di contraffar il vero, com' è il vero assoluto, e vivere propriamente nella sua parte; quindi non altro farebbe l' incauto poeta verseggiatore, che incepparlo e guastargli quanto si studia far bene.

Il dramma dall' un estremo si serve della prosa, dall' altro si abbella colla musica, rimanendo nel mezzo la semplice poesia. Nella tragedia giova ricordare che la drammatica [-11-] è poesia, e spogliandone solo i fiori non naturali al dialogato favellare, gustarne la veramente poetica sublimità della locuzione, supposto sempre eroico, e remoto il fatto. Son d'avviso che una Tragedia di Luigi XIV, di Carlo XII, di Federico il Grande si possa, ed anzi debbasi far prosaica, nè mai poi musicale, perchè entriamo in un evo ed in una società che sembra continuare ancora con affinità a' nostri costumi.

Dissi poeta verseggiatore, perchè non perde titolo di poeta, se colla libertà di assumere ogni stile più acconcio, quello sceglie or della prosa, or del verso musicale, perfino del linguaggio muto, come vedrem a suo tempo, parlando del coredramma, qualora, come mezzo in qualche caso più imitativo, gli giovi al meglio dell' arte; ed egli è sempre poeta nell' invenzione, nell' imitazione, nel perfezionamento, nella sostanza della favola sua, nello stesso maneggiamento delle qualunque forze d' esecuzione. Come la prosa può giovare all' assoluta verità della commedia, così la canora versificazione alla bella idealità del melodramma, per trasportarne in un mondo figurato , dove ogni favellare risveglia fisiche sensazioni corrispondenti ad ogni sentimento.

IX. E quella declamazione con cui recitasi ogni dramma poetico non esclude il canto dalla scena, tenendone le veci, ma prova, me giudice, che un linguaggio sonoro fuor del consueto richiedesi ad accompagnar la versificazione. Che se questa declamazione, benchè non abbia originale, od uso in natura, tuttavia si ammette, dovrà passo passo permettersi la canora declamazione, quindi il canto. Dunque la poesia richiede, o per lo meno ammette il canto, perch' è verseggiata, e il melodramma altresì perch' è poesia. E chi si offendesse del veder interlocutori sostenere un' azion vera cantando, dovrebbe offendersi poco più poco meno nell' udirli parlar in versi, esprimendoli colla declamazione di convenzione ammessa dall' arte istrionica.

X. Egli è vero bensì che questo canto non dee servir solo a solletticamento dell' orecchie, ma ricevendo leggi dalla ragione, contribuir anzi all' effetto drammatico, come verrò a suo luogo dimostrando. E non sarebbe per avventura cotal regola la condannazione del nostro melodramma? Non precipitiamo le sentenze. Veggiam prima le cose teoricamente, quindi passiamo a giudicar della pratica.

[-12-] XI. Intanto il mio discorso intreccia naturalmente colla ragione del canto drammatico la sua utilità. E s' intenda sanamente utilità d' arte relativamente ad arte, perchè non è luogo qui a dimostrare quanta e quale sia nella poesia e nella drammatica in genere, ma come maggiore possa derivarle a vicenda dalla musica, in alcuni casi ed aspetti, ove a tempo e luogo adoperata venga.

XII. Accordato al dramma pedestre commuovere maggiormente, perchè favella come noi (e nulla più diletta illudendo della schietta verità), bisogna concedere ancora che il canto, dice l' Artenga, men vero della recitazione, s' insinua maggiormente nell' anima. Impiegando con arte propria i fisici mezzi per via degli organi nostri variamente toccati, fa maggior impressione sullo spirito. E che l' uditore si presti a questo metodo è prova l' essersi già usato ad ascoltar la tragica declamazione delle verseggiate poetiche frasi, senza il chè avvilita sembrerebbe un' eroica favola.

XIII. Due condizioni però debbonsi osservare in questo patto tacito cui fa l' autore del melodramma cogli uditori suoi. Prima: che come nella tragedia il verso, così per egual natura di cosa nella melo-tragedia il canto si adoperi solamente in argomenti che accennino tempi eroici, antichi, e da' nostri rimoti, ne' quali una generazione d' uomini, per la virtù quasi più grandi di noi; favellasse magniloquio di sublimi concetti, ed un certo fantastico bello ideale rendesse melliflui, e sonoramente espressivi i suoi concetti, e le voci stesse con cui li proferisse. Seconda: che conseguentemente a questa nonmai esclusa circostanza, l' uditore s' immedesimi nella supposizione del canto per favella in quegl' eroi, come l' osservatore d' una statua ha già persuaso a sè che il duro smorto marmo sia molle polpa colorata di vivo sangue, cosicchè assorto in questa idea, già la vede con suo grande commuovimento palpitare, e per premio del suo sforzo, e della fatta concessione ne riporta la dolcezza di particolari sensazioni, cui una gli può far provare una maggiore verità. Varj son i mezzi co' quali le bell' arti imitano il vero, e non tutti possono al vero accostarsi egualmente, anzi talvolta se ne allontanano volontariamente, [-13-] perchè da poco verisimile con arte sacrificato, nasca centuplicato il dilettamento, ch' è loro scopo principale. Suppongasi una macchina a guisa d' ottico teatro di quadri e di vedute, in cui sulla superficie delle rappresentate forme arda luce brillantissima, e ne' contorni sfavilli il tesoro dell' iride variodipinta: questo quadro non sarà naturale, essendo piucchè naturale, ma colpirà di dolce maraviglia chi l' osserva, mercè la supposizione d' una natura più viva che quella cui conosciamo, la quale però in tutte le sue parti conserva le graduazioni stesse, sebben tutte in un molto maggiore aumentamento. E senza questa fittizia similitudine, non basta forse guardar entro lo specchio una veduta della natura, a guisa di quadro, o qualche quadro ancora, per ammirarne nel primo caso l' aumentata bellezza naturale, e nel secondo la corretta e perfezionata arte? Si ravvisi in questo primo caso la tragedia, la melotragedia nel secondo. Non è evidente la relazione che passa fra il bello ideale cui rappresenta all' occhio un quadro dipinto dalla riflessione che ne fa lo specchio, e la sensazione che prova permezzo dell' orecchie l' anima all' udir la favella modulata dal canto?

XIV. Chi niegherà che una cosa proferita col canto s' insinui maggiormente all' anima e muova gli affetti, che colla semplice voce parlante? La sensazione che produce questo a paragon di quella è come inghiottire un boccone e masticarlo posatamente. Il modular la favella or lenta lenta, or velocissimamente, ed il suono diverso della voce cantante che per sestessa esprime le cose, toccandoci materialmente le fibre, e dirò così gli organi del cuore, cagiona nell' anima le corrispondenti sensazioni, ed a lei raddoppia la commozione, mercè le fisiche facoltà congiunte alle morali.

La poesia col canto s' accende, s' illumina, e quanto è in essa di nobili concetti prende sublimità quasi pindarica. Un verso, un motto, una parola, un monosillabo riceveranno sulla bocca del cantore un' evidenza, che non potrebbesi ottenere per opera di un recitante quanto vuolsi eccellente. Chi saprebbe dar più vita a quell' apostrofe: Oh non tremare, o perfido, eccetera, diquellochè faceva la Malibran cantante? Furono poetiche ispirazioni, ma proprie dell' arte melodrammatica, e il terribilmente profondo: [-14-] Guardami e trema, ed il languido e velato: Ah! m' abbraccia, di Colei; l'alto sonante: Oh gioja! della Lalande, nonchè l' È desso! con voce ritenuta per tutta la lunga corsa verso il reduce amante; e l' Io prepotente della Pasta Medea, ed il suo entusiastico: Tutti! nella Norma. Si provi a recitare que' versi: Se cerca se dice, e veggasi se ne verrà mai l' effetto, che il canto del Pacchierotti, col presidio dell' armonia, ne traeva flebilissimo. Questa distinzione non fece Alembert allorchè scrisse: "L' Opéra est le spectacle des sens..... ce n' est pas que je veuille renouveller l' objection triviale contre les tragédies en musique, que les Héros y meurent en chantant; laissons au vulgaire ce préjugé ridicule de croire que la musique ne soit propre qu' à exprimer la gaieté; . . . . mais si la musique toucante fait couler nos pleurs, c' est toujours en allant au coeur par les sens; elle diffère en ce la de la tragédie declamée qui va au coeur per la peinture des passions. L' Opéra est donc le spectacle des sens, et ne sauroit être autre chose". Come l' uomo s' infatua in una sua carezzata idea, a divider l'indivisibile! Dunque il monologo di Tito, uno de' più sublimi squarci ch' abbia la tragedia, recitato da tragico attore favella al cuore; cantato da melo-tragico attore parlerà ai sensi? E non sono mica più gli stessi sublimi concetti, che ode l' orecchio, e la mente intende? E non sono mica una cosa seconda ed accessoria le note, che mercè l' intensità, varietà, lentezza loro toccano, dirò così, con un dito invisibile le relative fibre, avvertendoci di sentire ad uno ad uno que' diversi sentimenti con maggiori proporzionate sensazioni?

XV. Nè credasi che in ciò solo consista l'utilità del melodramma. La pittura rinfaccia alla scoltura mancanza de' colori, e questa vantasi al paragon di lei non priva di rilievamento, e non nulla quando manchi il favor della luce. Così anche l' opera osa incolpar la favola pedestre d' una imperfezione intrinseca: chè nell' imitazion sua più persone non possan mai parlar al tempo stesso, pena una deforme confusione, con dispiacimento di chi ascolta, talchè a qualunque costo esclusa rimane dallo scenico dialogare. Quinci grande rallentamento e raffreddamento alla marcia dell' azione, ma nonsenza inverosimiglianza pella sofferenza di chi dee frenar il proprio ardore e farsi d' attore ascoltator [-15-] paziente. Il parlar delle turbe poi si tratta molto meglio col melodramma; e infatti i Greci che tanto avevan caro il coro, trasformavano per esso, in questa parte almeno, la tragedia in una specie d' opera. E sono anco certi scenici temi ne' quali è più espediente e omogeneo il metodo del cantare che la stessa declamazione. Citerò per un esempio il Carattaco dell' inglese Mason, in cui han tanta parte que' Bardi che vivevan quasi di canto, che per metà n' è impastata la tragedia. Senonaltro per ragion d' esecuzione, come farebber gl' istrioni adempir a questa parte importantissima? Laddove bravi attori cantanti compirebber all' una e all' altra lodevolmente.

Necessaria è ancora l' opera pe' massimi teatri, da' quali va esclusa la semplice declamazione che non si sente, mentre la melodrammatica pello contrario fa risuonar alta, distaccata, espressiva variamente la voce, rafforzata dall' istrumentazione. Nella vasta arena della Scala quante volte fu provato non escludere i recitanti, altrettante ne risultò che i loro sforzi tendevano solo a guastar l' arte, e patir a lungo nella sanità, vani d' altronde al bramato intento.

XVI. Che l' opera poi ottenga il terzo fine, mercè del dilettamento, sarebbe quasi inutile dimostrare, perchè anzi la chiamano un bel mostro coloro che concedono esser troppo fastosa a spese della Ragione. E infatti senza possieder esquisitamente la bellezza non potrebbe, massimamente nell' Italia, aver ridotta quasi a spettacolo volgare la sua principale sorella la drammatic' arte pedestre, lasciandone miserabili i ministri, per arricchir esorbitantemente i cultori suoi. Essa chiamasi poi spettacolo per antonomasia, ed opera quasi per fastoso titolo, ed è l' emporio, dicesi, de' tesori di tutte l' arti belle che si son date il convegno in casa di quella ch' è più lusinghiera. Ma dovrebb' essere in altra guisa, per chè la musica in casa della tragedia ha ad entrar per prestarle anz' i presidj suoi senza dettarle leggi superbe. E quando, e quanto, e come ciò debb' accadere fia prezzo dell' opera presente ammaestrare. Ma prima vuolsi veder d' onde il dramma musicale traesse origine, come sia stato trattato in tempi diversi, e in quale maniera si possa condur a ragionevole perfezionamento.

XVII. Le primordiali teorie, accennate in questa particella del libro primo, svolte poi diffusamente, saranno la [-16-] materia del secondo, che formerà il corpo dell' opera. Or vuolsi proseguire in questo la narrazione di tre epoche del melodramma, inserendoci e le regole delle scuole che ne nacquero, e le critiche a cui sembrano esse dar luogo.

Lascio agl' istorici dell'arte (e il fecero) indagare quegl' informi preludj dello scenico canto, che cominciò a germogliare come accessorio, o come parte, o come un tutto drammatico, ma imperfetto ancora. Io prendo le mosse da' melodrammi d' Ottavio Rinuccini, ai quali diede occasione, dirò così, un' accademia di valent' uomini, che si proposero far rivivere la tragedia cantata, quale leggevano essere stata presso i Greci; tanto era ferma nelle menti quest' opinione! L' opera dunque, nell' intenzione di chi la inventò, chechè ne sia poi addivenuto, non è altra cosa: una tragedia canora, anzi la vera, e la più antica tragedia. Si sarebber unqua immaginati que' padri di lei, che dovesse diventar poi tutt' altro, e sembrare un mostro bastando della tragedia, e nello stesso tempo, strana contradizione! al dramma pedestre muover guerra, farsene tiranno, e ricco e nobile d' usurpato fasto, lasciarlo dietro a sè quasi nell' ordine plebeo? Ma per chi retto estima, fu quella la più bell' epoca sua, e più onorata, quando e mecenati (i nobili Giovanni Bardi e Jacopo Corsi) e musicografi (il Caccini e il Peri) e cantanti attori, e poeta sopra tutti arbitro e capo principale, non per guadagno, ma per la gloria di ritrovar quest' opera sublime, lavoravan concordemente, dottissimi ed istruiti eziandio in quella parte cui direttamente non appartenevano.

XVIII. Nè particolarmente i libretti del Rinuccini son rudi primizie, come accade perloppiù dell' opere d' antichi inventori, ned' egli è a' moderni com' Ennio a Virgilio, sebbene non conservi quella fama e quella notorietà che meriterebbe. Uno Spagnuolo a gran ragione se ne lagna, e in lui straniero questo zelo ben s' accorda con quello di Cicerone, ch' egli medesimo rammenta , aver a' Siracusani rimproverato l' oblìo della tomba del loro Archimede.

E soggiunge quest' Istorico dell' opera, valer maggiormente gli obbliati a gran torto rinucciniani drammi che parecchi celebrati canzonieri di quel secolo; i quali però, credo, e per argomenti e per istil d' autore soporiferi, non vengano in effetto d' alcuno letti. Vedete nel Teatro italiano antico. (Londra Masi e comune di Livorno 1788) la Dafne del Rinuccini [-17-] mista a quelle rinomate tragedie del cinquecento, prive di calor e di rintrecciamento nell' azione e nelle scene (come quadri del Giotto di figure rigide, isolate, stantesi in sestesse) scritte in un verso prosaico, stemperato, disarmonico, senza nemmeno lirico valor ne' cori che non richieggono valor drammatico. Fra tutte quelle tragedie antiche, dissi, da farsi legger intiere per penitenza a chi ne vanta per tradizione i titoli e gli autori, vedete come risplende la Dafne di quasi moderna disinvoltura, eleganza, ed armonia dello stile. Chepiù! Dovrebbesi collocar per analogia di pregi dopo l' Aminta e il Pastor fido, eppur giace generalmente dimenticata.

Ecco dunque il melodramma nel suo nascere già giganteggia, talchè non temette l' Artenga chiamar l' Euridice, che tenne dietro alla Dafne: "dramma il migliore scritto in Italia fino a' tempi del Metastasio". La Dafne era già stata esposta nel 1594 in casa al Corsi per esperimento del nuovo ritrovamento. La scena è stabile. Gli atti ritrovo non potersi contar più che quattro, seguìti d' altrettante belle canzoni del coro. Non hacci veramente arie, e così non può dolersene la Ragione, ma essendo i recitativi tutti di versi rimati, con perpetuo accordamento di rime e pause, ogni parlata, puossi considerare la favola un tessuto d' arie, sebben i settenarj, non emancipati mai dagli endecassillabi, poco tornin comodi alla musica moderna. Sembra però che sul finir dell' atto l' interlocutore canti una specie d' aria, cioè una strofa regolare. Ma tutto è sveltezza d' armonia e di frase; e non vuolsi tacer che l' opera comincia da un coro d' introduzione alla moderna, con alternative riprese d' uomini e donne, ed una preghiera, cui Apollo fa l' eco aldidentro, il che piacerebbe oggidì grandemente ad un cantore per apertura della sua cavatina d' uscita.

XIX. E per dir alcun che intorno alla musica, fu questa l' occasione, fu questa la fatica e l' opera dell' invenzione de' recitativi, pieni di vergine originalità. Che se per l' una parte non giunser subitamente a quella sicura spontaneità che toccaron col tempo, e se per l' altra non apparirono allora totalmente emancipati dal canto, cui prima conoscevasi solo, non manca perciò che quei melodrammi, i quali eran già quasi solamente recitativo, non fosser gli unici esenti dagli opposti difetti di raffinatezza, d' oziosità, [-18-] di assurdità, cui assunser poscia coll' incivilire, perchè in quell' epoca prima il maestro lavorava da letterato, e pel ben della letteratura, docile all' ammaestramento del poeta, per esecutori che non presumevano farsi di lui tiranni.

XX. In qual maniera poi il cantabile s' introdusse nell' opera, come cosa separata e distinta dal recitativo? L' aria fu forse, come accade sovente dell' invenzioni, più casuale, che volontario ritrovamento, che appoco appoco, e per opera di più persone riceve impensatamente esistenza. Già ne' melodrammi del Rinuccini d' arie è l' indizio. Ciò nella Dafne; e l' esempio poi se ne ritrova nell' Euridice, sebben di versi lunghi composte. D' arie in versi brevi, tessute come modernamente, un chiaro saggio offre quindi la Flora del Salvadori, in quella leggiadrissima

           l' era pargoletta
quantunque altri attribuisca l' introduzione dell' arie nell' opere al Cicognini, autore cui si oppone l' aver dato all' opera maggiore ricchezza, ma eziandio averla a un tempo condotta in sul sentiero del declinare dalla primiera verginità e sobria semplicità.

XXI. Ma i lenti accrescimenti che andavano ricevendo la musica ed il canto ecclesiastico e teatrale in Italia divenner fondamenti ad un grand' edificio, che innalzò sulla Senna un Italiano: non so se così chiamar mi debba il violinista e musicografo Lulli fiorentino, in età fanciullesca trasportato a Parigi. Pel poeta Quinault e per Lulli si vide finalmente un teatro veramente classico, d' una serie di opere composto. Tanto fu l' amor che Luigi XIV e Parigi portarono all' italo Filarmonico, che non conobbero, (veramente non vate in patria) il merito del loro gran Poeta, straziato con bizzarra critica dal Boileau, e dato dal Re come in ischiavo al maestro di cappella, perchè dovesse colla sua Musa servir ciecamente ai bisogni ed alle volontà del musicale accompagnamento, diventato traccia e tema della poesia. Ma la posterità fa ragione contro l' ingiustizia de' coetanei. Il Lulli va in ischiera con molti musicografi classici che venner poi, e sebben il suo violino preceda la lunga serie de' cembali de' maestri italiani e oltremontani posteriori, l' opere sue taccion oggidì pe' cambiati semplici tempi della musica in giorni copiosissimi, laddove Quinault, sommo poeta, di cui le rime pigiate sotto [-19-] il martoro delle cantilene talor create precedentemente dal suo despota Maestro, sepper tuttavia trovar modo di spesso fiorir felicemente, e olezzar delle fragranze di Pindo: Quinault, dico, sarà sempre un quasi unico poeta melodrammatico, colla gloria d' andarne secondo all' italiano Metastasio. Peccato che appartengano al genere mitologico l' opere sue, nel quale difficilmente si può sorger a virtù eguale di chi tratta istorici argomenti! Quinault, fosse sua elezione, o voler del Re, o condizione di que' tempi, andò più oltre in questo metodo degl' italiani inventori dell' opera. Il maraviglioso introduce sul suo teatro gli allegorici mitologici interlocutori, ed il variar di scena, per trasportarla nelle regioni ideali; assegnotalechè i compatrioti suoi, ed eziandio acutissimi ingegni, credettero questa una necessità, o la natura dell' arte, e immemori dell' Italia, ogni melodramma dover essere quello de' Francesi, cioè un mondo d' illusioni, creato solamente per allettare i sensi.

XXII. Fra noi però l' aver cominciato l' opera mitologicamente apparisce effetto di combinazione anzicchè di volontà. Fu da principio piuttosto pastorale che mitologica, come vedesi dalla Dafne e dall' altre del Rinuccini. Il quale venne a ciò indotto dal desiderio d' ir su pelle pedate del Tasso, che coll' Aminta avea messe in gran moda le favole boschereccie. Quindi lasciossi condur lunge dalla musicale tragedia, cui ad inventar è manifesto aver rivolte tante cure que' prelodati valentuomini Fiorentini. Ma i portenti della favola, modesti app' Ottavio egli altri primi, non ebber poi nè lunghi nè illustri cultori; e la stessa gloria del Francese questa volta non allettò a farsene imitatori gl' Italiani, i quali s' accorsero quanta varietà d' affetti, di caratteri, d' azioni offerisce l' istoria cogli argomenti del teatro tragico a' curiosi spettatori, ben presto annojati della vuota maraviglia cui ne può porgere un teatro mitologico.

XXIII. Dieder mano all' operazione i maestri di cappella, col perfezionare, come conveniva all' espressione d' un canto tragico, il recitativo e il canto dell' aria; segnalandosi in quello lo Scarlatti, il Vinci in questa. Si vide allora sorger il melodramma per lo Stampiglia e lo Zeno, a gradi a gradi fino all' altezza cui il Metastasio sollevollo, poeta teatrale a niun altro secondo. A' quali poeti porse occasione [-20-] e premio l' Austriaca Corte, ch' ebbe in costume tener un poeta Cesareo, a nostra gran gloria, italiano.

XXIV. Non ebbe Quinault (o il Lulli) leggi e legami particolari a mantener nella forma delle arie, nella distribuzione di queste e degli altri canti relativamente al recitativo. I drammi suoi constano di recitativi, arie, e cori, senza quella meccanica misura che vedremo aver gl' italiani poeti a sestessi prescritta, od essersi lasciata dettar da' cantori. E vuolsi osservar qui, che costoro diventarono sommamente possenti e padroni dell' opera stessa e de' suoi compositori, dacchè passò dalle solennità delle corti ai teatri venali. E a dir vero non fu ciò senza grande, sebben illegittimo, perchè. Nel canto, che cotanta ha forza e seducimento sull' anime nostre, eran molti d' essi straordinariamente valenti, ed alcuni eziandio attori pregievoli, o almeno nati con vocazione a divenir tali, ove fosse a lor toccato in sorte il teatro drammatico. Il quale d' altra parte nullo in Italia, prima pelle commedie servili, e le tragedie vuote imitazioni delle greche, poi più tardi per le burattinesche commedie dell' arte, e quasi nessuna tragedia, faceva correr al teatro dell' opera chiunque voleva dilettarsi non ignobilmente, e gustar almeno per illusione la grandezza del dramma eroico, e talor eziandio commuoversi con qualche idea di patetici affetti, renduti più teneri dal musicale prestigio.

Poco gioverebbe allo scopo di questo libro parlar davantaggio dell' età che trascorse fral Rinuccini e lo Zeno, la quale poi non offerisce altri due nomi così grandi.

XXV. Non mi fermerò a descrivere l' ordin tenuto da Apostolo Zeno ne' drammi del suo copiosissimo teatro. Tutto trovasi nel Metastasio: nulla in questi si desidera che sia nello Zeno. Parlerò bensì del valore di questo Poeta, così poco letto e conosciuto, mentre i più si contentano dire rinfusamente, ch' è un autor rispettabile ma languido e antiquato. Sulla gloria de' scrittori molto influisce talora la fortuna, molto certe circostanze ad essi esteriori. Lo Zeno sarebbe assaipiù grande e conosciuto se non nasceva il Metastasio. Il suo maggior difetto è aver composto troppo, e l' ottimo soffocato infra soverchia mediocrità; a ciò congiungesi una secca versificazione. Per anco maggior disproporzione fra pochissimo eccellente, moltissimo mediocre o [-21-] cattivo, e per le nojose rime martelliane hanno eguale la sorte al nostro melodrammatico il tragico Martelli, il comico Chiari. Invece di formarsi d' ognuno dei tre autori un solo volume co' loro drammi scelti, si lasciano tutti e tre in preda dell' obblivione nelle polverose biblioteche.

XXVI. Lo Zeno ha moltissima somiglianza a Corneille, colla distanza però che passa fra autor di prima e di seconda classe. Le passioni non sono la sua messe, sebben l' Autore dell' orazione funebre dica non saperlo unicamente difendere per la tenerezza troppa che spiran i suoi drammi. Egli versa fra magnanime imprese d' antichi eroi, fra' quali que' che scelse ne' bassi secoli, e nelle barbare regioni traggon con sestessi la condizione di que' tempi e di quelle contrade. Ma in alcuni melodrammi di greco o romano argomento si ravvisa il pennello di Corneille a donar bello ideale a quelle per sestesse sublimi sembianze. Nell' Andromaca veggasi la copia di tutte nuove fantasie d' invenzione in una favola conosciuta cotanto, e la ricchezza d' accidenti che ne derivan all' azione. Nel Fabrizio ammirisi la sublime dipintura degli eroici caratteri e magnanime cortesie. Parmi poi che si possano sceglier anche la Merope, la Nitocri, l' Ormisda , condotti non volgarmente, e tutti gl' Oratorj, fra' quali il Giuseppe ha vanto, che il Metastasio prendesse a rifarlo, nè però, caso unico! il superasse d' altro che di quel suo inimitabile stile.

XXVII. Cui non è noto il teatro del gran Poeta romano? D' un autore, così chiaro, e piucchè altri letto, anche i vulgari han formato da sestessi giudicio , servendo loro il cuore d' interprete e di critico. Vano sarebbe dunque numerarne i pregi. Esaminiam piuttosto i drammi suoi nella loro tessitura, che forma un' epoca segnalata, e un genere nell' istoria del teatro dell' opera.

XXVIII. I melodrammi del Metastasio hanno sempre argomenti eroici. I magnanimi caratteri, l' imprese, le generosità dell' antichità vi s' osservan colla lente del bello ideale, che alla foggia di Corneille, li adorna e ingrandisce. Ma nella tenerezza ci si trova superato Racine. Nè sembri troppo, perchè io sono quasi nell' opinione di quel audace Autore, che poco curante le cerimonie della corte di Pindo, scrisse: Da Omero al Metastasio non fu poeta intermedio maggiore di questi due estremi. Senonchè il Petrarca [-22-] almeno mi obbligherebbe ad arrestarmi ammezzo un così precipitoso corso Negli argomenti di raro accade che non prendesse a imitar qualche tragedia altrui, ma il fece con tal arte, e così fresche, nuove, tutte sue furon l' apparenze dell' imitazioni, che nessuno sembrò più originale, più inventor di lui. Talor unì più favole d' altri in una, o le separò, scegliendo il meglio, e animandolo di tutta nuova vita. L' azione è complicata. L' intrecciamento ingegnoso, e fecondo d' inaspettate combinazioni, e colpi di scena che fan maravigliare. L' amore, tragico quando conviene, è sempre un principalissimo e dominante ingrediente della favola; e ad una tenerezza, che non ha l' eguale appo altri scrittori, accoppia con raro accordamento l' opposta platonica sublimità. I severi caratteri de' noti eroi però non ne sono effeminati generalmente. Dice il Signorelli (tomo VI capitolo III) "Nel tempo stesso che si presta al duro impero dell' uso e del canto, introducendo amori subalterni, come pur fecero i migliori tragici francesi, c' interessa pel solo protagonista, mostrandolo in preda ad un amor forte, imperante, disperato, qual si richiede nella severa tragedia". Allato ai principali personaggi piacque a lui por de' minori, che colle subalterne loro azioni e amori diano certa graduazione a' quadri suoi, e da qui ricercò l' effetto, anzichè dalla nuda semplicità; però tali figure episodiche, non rivali delle principali, giammai rendon doppia l' azione. Gli scioglimenti sono, non però sempre, di lieto fine, e talora terminano sue favole colle agnizioni del teatro antico. L' eloquenza del dialogo è succinta, ma quindi l' azione ne rimane più viva, ed i sentimenti rappresentati come altrettante immagini parlanti. Gl' atti nominativamente son tre, ma in fatto riescono intorno a sette, cambiandosi la scena almen una volta ognuno, e ciò anche senza bisogno, per dar luogo a pittoresche invenzioni di scenarj.

XXIX. Parliam ancora dello stile, del verso, del canto. Il Metastasio può dirsi grande autor di lingua, per la dolcissima locuzione, se non per la purezza toscana. Il suo stil è oro forbitissimo, come poesia eminentemente fatta pel canto. Le sue maniere son le più semplici e delicate, bandita nonsol ogni triviale, ma perfin ogni troppo prosaicamente toscana, ed anche troppo liricamente poetica frase o parola. È noto che il suo vocabolario componevasi d' un [-23-] ristretto numero di voci, di comodissimo suono, passate, dirò così, pel filtro.

Nella versificazione distinguo; versi, rime, pause. Sentiva così finamente, che considerando non potersi l' endecassillabo senz' un riposo ammezzo cantare, il fè sempre di due parti , che formassero distintamente un settenario ed un quinario, o viceversa; e per ricavarne la quantità di sette e cinque dodici sillabe, termina il primo versicolo in una sillaba tronca, o il secondo incomincia per vocale, onde l' elisione fra l' uno e l' altro mangi una sillaba. Chi accostuma l' orecchio a questo metodo di verseggiare, che chiamerò di completo suono, e, dirò così, ridondante, troverà ne' versi fatti altrimenti certo vacuo per entro, che non lascia l' orecchio soddisfatto, il quale non sente in ambedue le parti, formate dalla necessaria pausa frammezzo, completo il suono di due versicoli, e crederà quasi udir endecassillabi sbagliati. Questa è perfin troppo vocale melodia, che a lungo sazia, ma lodevole nella poesia fatta per esser cantata. Così, esaminati i drammi metastasiani, diventano un tessuto di tutti versi brevi settenarj e quinarj, anzicchè d' endecassillabi e settenarj. Siffatta cura non fu imitata, ch' io mi rammenti, fuorchè dal miglior seguace del suo stile, Evasio Leone. E tanto è lo zelo del Metastasio in ciò, che perfin ove il dialogo rompe l' endecassillabo in parti ineguali, o in più di due, tutte assieme però costituiscono i due versetti. Talor anche costa d' un trinario e d' un novenario, ovvero l' una e l' altra cosa ad un tempo in qualunque modo ti piaccia dividerlo. Parco dei versi settenarj, li mescola co' versi lunghi, senza troppo lasciarli adunar insieme.

Le pause, o sien di punti, o d' interrumpimenti del dialogo, son fatte ad arte, rompendo eziandio i versi, ed allorchè finiscon col verso, son quelle ove il sentimento, o il discorso è più completo, e vengono coronate d' una birima.

Altre fiate lega questi due sentimenti, o la proposta d' un interlocutore alla risposta dell' altro. In tutt' altro ha poche rime, e non le concerta in modo lirico; ma dilettarsi spesso per entro al periodo della dolce birima in un verso breve dopo il lungo, cui tien dietro talvolta il terzo, che endecassillabo, ha l' accento della sesta in parola tronca, molto armoniosamente, Meditando attentamente l' artificio [-24-] di questi recitativi, è più facil capirne che descriverne l' ingegnosa melodia, e più paragonando ad essi que' dello Zeno, in cui versi e pause son gettati là senz' ordine, senz' armonia.

Mi sono esteso, parrà, più del bisogno, ma il Lettore ricordisi queste osservazioni, e ne riponga gli esempj fragli ammaestramenti che verranno a lor luogo.

XXX. Passiam a considerare l' opere del Metastasio nella loro parte cantabile; veggiamo quali sien l' arie, e quale l' uso del canto che per esse si fa nella drammatica favola. L' arie son quadretti di delicatissima miniatura, e preziosi poetici giojelli. Le rime in esse sembran accaso accozzate; e coloro che dicono la rima tormentar le poetiche idee, metter un freno alla fantasia, piglierebber moltopiù malagevole impresa ove tentassero ridurle a versi sciolti, che altri a por in rime versi sciolti. Ma queste arie, come madrigali di due parti, son poste per chiusura delle scene, e pressocchè ogn' interlocutore partendo, qualunque urgente occasione l' affretti, dee dirne, poi ripeterne una, con quel allargato, rallentato tempo ch' esige il canto. Quindi avvien anco che gl' interlocutori, sebben da violenti passioni agitati, debbansi far uditori gli uni degli altri, senza interrompersi, o parlar simultaneamente, come la passion loro richiederebbe, fin all' ultimo, che non ne va che dopo un soliloquio. Quindi grau numero uniforme di queste accoppiate strofe tien tutto il melodramma, senza incremento, e senzachè, dove l' azion è nel suo fermentamento, e dove ne scoppia la catastrofe, il cantabile, emulo di lei, accrescasi: che talvolta neppur ci ha parte. Perciocchè non udrassi senza maraviglia, che spesso l' ultima porzione ove sta lo scioglimento dell' azione, la quale, mercè del cambiamento di scena divien in fatto sennon in parole vero ultim' atto, non, abbia aria alcuna, e che talora perfin la parte precedente sia stata coronata dall' aria d' un secondario interlocutore. E perchè l' opera è spettacolo fatto ad esser recitato molte e molte sere di sèguito, come non supporre che accada necessariamente dopo le prime, allorchè lo scioglimento del nodo non riman più una curiosità, ogni uditore andarsene senza ascoltare l' ultima parte, ed anche avanticchè termini la penultima, onde il canto d' un secondo attore non amareggi il dilettamento che gli lasciò [-25-] l' ultim' aria d' un cantor principale? Quanto diversamente sentesi oggidì, e come son cambiati col genio i riti melodrammatici! Nè dicasi esser mutati per la depravazione del gusto; quand' anche così fosse, non si proverebbe con ciò che quel metodo non fosse per opposte ragioni anch' esso imperfetto. Scrive un Autore di que' tempi, che l' opera era giunta a quelle forme eleganti da non andar più oltre, per contentare il genio de' galanti della moda. La qual cosa farà ridere i ganimedi musicali d' oggidì, che nell' opera del secolo ravvisano la vera raffinatezza, e in quella la vera antica patriarcale semplicità. Ma temano per parità di casi fare rider eglino stessi i lor successori. E chi sa quali non prevedibili abbellimenti prepara l' umano ingegno! Un melodramma a buon conto, che senza essere men piacevole, sia ad un tempo come tragedia ragionevol e perfetto, è cosa cui tutti sanno co' voti almeno prevenire.

XXXI. Certa cosa è intanto che il melodramma metastasiano è diventato inutile alla musica, nonsol dell' uso moderno, ma di quella che possa modificarsi in tutt' i tempi, che non sieno que' tempi suoi, i quali più non torneranno. Nè credasi ciò ridondare in minor onore del Poeta sovrano, cheanzi a sua più eletta gloria diventa di melodrammatico, drammatico, ovvero tragico autore, checchè altri ne pensasse finquì. La qual cosa mi venne un giorno talento di mostrare con bizzarro paradosso, che non fia estraneo all' argomento qui come episodio inserito.

PARADOSSO Che il Metastasio non a' melodrammatici, ma ai tragici autori vuolsi annoverare.

I più devoti alla gloria del gran Trapasso andrebbero lenti a paragonarlo ai tragici autori; e generalmente parlando questo poeta a niun secondo, perchè lo si sa facitor di libretti d' opere per musica, sebben sia piucchaltri letto in Italia, e conosciuto di fuori, non ha forse quella venerazione che prodigano i Francesi a' loro Racini e Volterri, e quella specie di culto con cui l' Inglese idolatra il suo Shakespeare, quasicchè il divino poetico fuoco riceva qualità e misura non dall ingegno del poeta, ma dalle forme del poema. Se Raffaello venga costretto circoscrivere una sua [-26-] pittura sulla smaltata superficie d' alcuna tazza, non per questo sarà meno Raffaello, nè l' opera sua men cara, a fronte delle tele degli emuli suoi. Io però invece di toglier a difendere Pier Trapasso, volgo per lo contrario verso il tema del ragionamento, e sicuro della mia ragione, francamente asserisco: nonsolo meritare per l' eccellenza sua che l' opere ne siano messe in ischiera colle tragedie altrui, ma esser egli stesso piuttosto tragico scrittore, che autor di melodrammi.

Nè voglio dir già, intendasi bene, ch' egli sia un tragico quale astrattamente le scuole possano definire il poeta di questo genere, ma che lo si debba considerar tale relativamente, ed a fronte di que' rinomati, che appo diverse nazioni e lingue ottennero siffatto titolo, i quali però più o meno di lui s' allontanano, senza coglierlo intieramente, da quel carattere che del verace, rigoroso tragico autore ne dan le teorie dell' arte.

A questa immagine, che come perno del sistema, colloco inmezzo, va posto dentro, o almeno assai dappresso l' Alfieri, appunto come il Sole vicino al centro del comune muovimento. Nè qui lo paragono al Sole in senso di lode, perchè non trattasi d' ammirazione, ma d' ordine; nè intendo con ciò preferirlo o posporlo agli altri classici per valore, ma dimostrar soltanto che il suo metodo accostasi alla robusta semplicità che dee esser il carattere del tragico esquisitamente, seppur non va più oltre del necessario e nell' economia, e nella severità.

I Greci, de' quali avevasi per ordine di tempi a favellare primieramente, coltivarono una favola semplicissima d' azione, sfuggendo in essa l' incontrarsi degl' interlocutori in drammatiche situazioni, e facendoli piuttosto parlar ad uno ad uno col coro, quindi più eloquenti che agenti. Siffatto lor conversare con questo coro, ente d' incomprensibile creazione, ch' essendo una turba parla come individuo, e sempre in iscena, e il confidente, secreto, impassibile degli opposti interessi altrui: questo conversar loro col coro interlocutor cantante, costringe ad esserlo gli attori ancora. E siccome di ciò sembravan dilettarsi precipuamente i Greci, come se fosse il fine vero di lor tragedie, ne viene che anche a' dì nostri appariscano piuttosto fatte pel canto, quindi non adattate all' uso de' moderni teatri. [-27-] Nelle tragedie de' Classici francesi al contrario domina l' amore obbligato, che prevale all' uopo sulla ragione dell' eroico carattere d' antica istoria, e non è sempre degno del coturno; talor è duplice, o secondario, in guisa da renderne doppia l' azione. La funesta catastrofe parecchie volte non è cavata dalle viscere dell' argomento; anche lieta affatto. Gli attori han un confidente ciascheduno, com' ombra indivisibile del lor corpo, col quale ne' prim' atti ricordan l' antefatto, e dop' ogni scena d' azione gli spiegan poi gl' interni loro tacciuti sentimenti; quindi la metà delle scene son commenti dell' altra metà. Lo stile del dialogo è protratto perlomeno con pompa oratoria, contro l' economia, che dee lasciare trionfar l' azione sopra le parole.

Appo l' altre oltramontane nazioni i tragici principali son di quelli che chiamansi romantici; inventori colossali! Shakespeare fra gl' Inglesi, Vega o Calderon de' Spagnuoli, Schiller fra' Tedeschi ed Hugo ne' Francesi, i quali tutti, date le debite differenze, eguali sono nel tener quel metodo, che alla regolarità delle unitadi antepone la copia d' una specie d' intiera istoria messa in dialogo, quindi non accade farne particolare definizione. Nè però in tanta licenza da molti condannata, alcuno contende a que' grand' ingegni titolo di tragici autori.

Il Metastasio, eroico maisempre ne' suoi temi, qualche volta è tragico nella catastrofe, talor risparmia un affettato spargimento di sangue, e se ha lieti scioglimenti, non è solo fra' tragici poeti nell' adoperarli. L' amore per lui trionfa, ma quasisempre amor tragico, nè suole, come dissi, effeminarne i più severi caratteri dell' antichità. Con buona pace dell' Artenga (volume I capitolo II), Temistocle non è innamorato come quel dello Zeno, nè Attilio come il Regolo di Luciano Arnault, famoso campo di gloria per Talmà; e se nel Catone son quattro amanti, di carattere, d' importanza diversa, è bagatella in confronto di quattro coppie d' innamorati triviali, onde impastansi quattro atti del Catone di Adisson, che pur è tragedia, cui gl' Inglesi anzi antepongono alle principali della Francia. Gli amori secondarj, almeno son veramente tali. La varietà dell' intrecciamento, e la scena che si cambia, non appartengono all' irregolarità de' romantici. La brevità delle parlate, preferibile, al dir dell' Artenga, all' opposto eccesso di una prolissa declamazione [-28-] alla francese. I versi lunghi e brevi si adoperarono dai tragici italiani antichi, e le rime qualche volta ancora; ed obbligate, e continue negli alessandrini, dai Francesi ed appo il tragico Martelli. Le arie sono ciocchè essenzialmente rende melodrammatiche le metastasiane tragedia, ma più superficiali de' dialoganti cori delle greche; perchè parecchie di queste arie rimangon come indifferente prolungazione delle parlate, e quelle che contengono una similitudine, se si ommettano, vien meno al mutuo favellare un ornamento irregolare; per altre che fan parte del sentimento può mentalmente considerarsi, che cinque o sei versi di protratto recitativo ne avrebbero facilmente vestito il concetto colla solita versificazione.

Suppongasi ora che il Metastasio adoperasse in tal guisa, e nel restante lasciando le favole sue come sono, le avesse intitolate tragedie, o drammi per la declamazione, niente accennando essere destinati alla musica: sarebber tragedia, brevi: succinte nello sceneggiamento: di lieta catastrofe la più parte: condite d' intrecci e d' amori: con confidenti innamorati: in tre atti, e scena mobile: tessuti di versi dispari, in rime: sarebber tragedie insomma d' un autore che volle architettarle ed abbellirle così. Di eloquenza e di canto piucchè d' azione i Greci composer le loro: di lunghi amori galanti e lunghe conversazioni co' confidenti i Francesi le frammezzarono: Calderon d' intrecciamento dilettevole maraviglioso le condì; fuor d' ogni limite dell' arte i prefati romantici poeti accattarono il bello per renderne fantastiche quelle dialogate istorie: eppure tutti, adoperando mezzi così diversi, dicesi egualmente, aver fatte tragedie. Quelle de' Romantici hanno ben altra libera varietà che le metastasiane: le francesi fu perfin detto esser drammi sentimentali eroici, ed alcune da Cornelio vennero intitolate commedie eroiche, sebbene non so perchè a distinzione dell' altre: a riprodur le greche all' uso del nostro teatro, sarebbe maggior carnificina toglierne quanto accenna canto, ed i cori (che il Metastasio non ha), e più difficil opera che dissimulare, i drammi di Pietro essere stati creati pella musica. E figurisi finalmente che opera non fosse mai esistita: chi ne indovinerebbe la necessità dalla benchè deliziosa orditura delle tragedie del Trapasso? E solamente farebbero caso, nè se 'n intenderebbe però il perchè, quelle [-29-] a capriccio binate strofette onde van caudate madrigalescamente le scene.

Ecco le cinque suole di tragedie più conosciute, che distano le une dall' altre quanto dal vero teorico centro il più d' esse s' allontanano. Dissi, che come Febo appresso il centro dell' elittica danza planetaria, siede l' Astigiano superbamente adonta delle rudi macchie cui vetri indagatori notarono sul suo corpo. Lungi più o meno dall' accennato punto medio s'aggirano gli altri globi; e il vicino Mercurio, e Giove dall' ampio disco, e Saturno per immensa orbita divagante. Fra' quali sarà il Matastasio l' astro di Venere, che si compiace farsi chiamare la stella d' amore. Che s' egli sembrerà tuttavia fra' tragici fiorito e sdulcinato, lo si accoppii a compensazione coll' Alfieri, e ne risplenderà la potenza italiana nel produrre nongià solamente opere d' ingegno tutte soavi come il suo clima, bensì ingegni classici nell' estremità caratteristiche d' ogni genere. Alcontrario per altri classici stranieri vedesi uno stile uniforme che corrisponde ala media tinta fra 'l Metastasio e l' Alfieri: ch' è quanto dire una timida sublimità che non osa starsi senza certo temperamento di dolcezza menchè virile.

Senonchè un' altra diversa autorità per prova di fatto al mio Paradosso offeriscono i commedianti, che al quondam melodrammatico Principe, scacciato per opera de' musicali riformatori dal regno dell' armonia, distesero caritatevolmente le braccia, ed il ricoverarono ne' lor repertorj pedesti. Ivi coll' Alfieri divide il principato oggidì dell' italica tragedia. Che se co' novelli ospiti suoi divide ancora i lor magri pasti, non è questo dal lato della fama un esser disceso dalla primiera altezza. Cheanzi mentre è poca perdita per un drammatico non poter più servire alla schiavitù de' musici, e non essere annoverato ai melodrammatici, diventa per esso più eccelso vanto sollevarsi al seggio di tragico autore. Intanto per prova di quanto dissi, una schiera d' Istrioni recitanti ha preso recentemente il titolo di Compagnia Metastasio.

Nè dica qui il Giraud (in un suo discorso: Sulla poesia per musica) "gli stessi drammi del Metastasio si renderebbero insoffribili sentendoli semplicemente declamati." E soggiunge, esserne cagione lo stile lirico e fiorito, che [-30-] l' Artenga chiama, vedi bizzarri contrapposti di giudizj! stile sempre liscio, dicendo pur altrove, che i drammi dello Zeno (quando non sieno di quei dilavati) e del Metastasio sono egualmente acconci per recitarsi che per cantarsi. Infatti non è vero che il metodo del Metastasio sia lirico nella sua generalità. N' ha qualche fiore in alcune arie, ma è sostenuto piuttosto dalla sceltezza del verso che dalla frase poetica; simile in ciò: chi' l crederebbe! all' Alfieri, inquantochè temperando entrambi il dialogo loro da poetiche figure, lo distinguono in cambio eminentemente dalla prosa, l' uno con nobile soavità, l' altro con sublime asprezza, tuttiedue con un ristrettissimo vocabolario, scelto apposta adattatamente alla provincia loro. Così sostituendo alla frase lirica la gravità dello stile, si formarono un linguaggio tutto drammatico, medio fra prosa e poesia. Gli stessi autori tragici francesi spargono maggiormente la lor prosa rimata di liriche frasi, sebbene consistano in poche affettate figure, troppo spesso ripetute. Quasi tutti poi i metastasiani drammi vidi rappresentar da' comici, e la Compagnia Reale, che a' tempi del napoleonico regno d' Italia ebbe la più completa schiera di tragici istrioni che si vedesse nella Penisola, vantava, fralle principalissime più felici sue rappresentazioni, il Temistocle e la Clemenza di Tito. E più di sovente ancora si reciterebbero, se scritti in tutte le memorie non se 'n precorresse colla mente la sposizione, ilchè scema cotanto alla teatrale illusione il dilettamento. Così mentre le tragedie di classici, e capiscuola, eziandio non antichissimi, sono, per l' arte cambiata in più ricca, od anche per ingiust' obblìo degli attori, dalle scene sbanditi, le opere di Pietro Trapasso occupan le declamatorie scene, escluse rimanendo intanto alle musicali, appunto come quelle tragedie, oziose pe' teatri, son divenute poemi di librerie.

Ma soprattutto (parlo collo scherzo del paradosso) la magistrale autorità de' maestri di cappella moderni sentenzia: il Metastasio non essere, non potere diventar, e forse non poter essere mai stato autor di drammi che sieno musicabili. Come saprebbero essi mai a que' lunghi dialoghi d' azion' e di recitativo, senza cavatine, senza rondò, senza la grande scena, senza cori, applicare il loro sistema di musica scientifica? E dove attaccar una introduzione ed un [-31-] finale a più reali? dove mostrar la scienza dell' arte, senza di che non si può in coscienza da loro comporre le note d' un' opera? Sarebbe lo stesso per essi, che aver a mettere in musica una tragedia qualunque, più o men lunghe che ne fosser le scene. Nè il terminar esse senza due liriche strofe indurrebbe differenza: chè poco male sarebbe all' uopo ridurre colla musica in forma d' aria gli ultimi versi d' ogni scena. Viceversa non han che fare colla moderna scientifica musica i lunghi recitativi, e quelle uniformi arie monologhe, che con non adequato compensamento, stanno per giunta alle tragedie del ex musicale poeta Metastasio. Ma noi torniamo a parlare sul serio.

XXXII. Quel torpore nel quale stette la poesia sin allo Zeno e al Metastasio non durò certamente meno a lungo pella musica. Solamente ne' più bei momenti metastasiani fioriva quella copia di musicografi settecentisti, che fu corrispondente al secol d' oro de' pittori nel cinquecento. In capo alla lista vuolsi mettere il Pergolese, il Jomelli: quegli specialmente per avere dato al canto il vero carattere drammatico, nonchè venustà e tenerezza, dirò così metastasiana: ed in Jomelli perchè pieno di musicale potenza, condusse a perfezionamento, e scenica efficacia il recitativo; inguisa però, che tanto il Pergolese nel recitativo ancora, quanto il Jomelli nel canto furono eccellenti. Prima di questi due sommi, sebbene fiorissero eccellenti compositori, come il Carissimi, il Cesti, il Marcello, e poscia il Vinci, ed altri, la musica de' tempi loro non erasi ancora spogliata delle forme procedenti dallo stil ecclesiastico, perchè aver si potesse un carattere intieramente drammatico.

Dopo si succedettero i classici Autori così rapidamente, che contemporanei si possono considerare. Fra' quali noto particolarmente, e il Paesiello, successore al Jomelli nel dar viemaggiore artificio e maestria all' armonico lavoro, e varietà ai recitativi; ed il Cimarosa pure successor al Pergolese nell' ornar più ricca ed elegante l' aria; senzacchè però queste glorie sieno esclusive nell' un maestro relativamente all' altro.

XXXIII. Allorchè un autore ricco di straordinario ingegno ha esaurite tutte le fonti di bellezza, trattando un genere specialmente ond' egli fu solo inventore, e di cui l' idea non poteva cader ad altri in mente, cosa essendo peregrina [-32-] e singolare come la stessa sua mente creatrice, alto non rimane a' seguaci che di farsi plagiarj, o volgersi disperatamente all' opposto calle, che spesso conduce alle stranezze. Il notissimo Merlin Coccajo, disperando aggiunger la gravità del verso virgiliano, inventò lo stil maccheronico, e non vuolsi condannarlo, se si pensi ch' era morta coll' originale Autore la lingua stessa.

Mentre ovunque risuonava Metastasio, il Calsabigi pensò esser più facile impresa far rivivere la scuola del Rinuccini, e di Quinault. Eccoci dunque di nuovo all' Orfeo, all' Alceste. Ne' suoi melodrammi son bei versi, e più largo campo alla fantasia d' un musicografo, ed alla magnifica musica di Gluk in imitar maggiormente le cose, ch' esprimere le passioni. Alcuni tenner cammino eguale al Calsabigi, altri cercarono ir sulle pedate del Metastasio, ma le opere di questi ricomparivan pur sempre a preferenza, rendute novelle da celebri autori musicali, ond' era ricca quell' età.

XXXIV. Non avev' appena il gran Pietro col Ruggero coronata la sua carriera, in cui non cambiò d' un punto il solito metodo, che cominciava il melodramma sentire il bisogno di mutar forme. Una prova di quanto dissi intorno all' ordine tenuto dal Melodrammatico sovrano vien dai fatti successivi. Arricchiva la musica, e convenne scemar il numero dell' arie, quanto il lor accompagnamento andava aumentando. Cominciò bastar a' principali cantori averne una per atto; quelle delle seconde parti si tolser via, e ne rimaser alcune a ripieno. Questi secondi interlocutori diventarono infimi, dispiacendone la mediocrità non collocata al suo posto triviale. I primi voller una situazione ampiamente musicale nel momento più drammatico; quind' i rondò; poscia le così dette grandi scene. I cori, che il Calsabigi fece rivivere colla maniera antica, piacquer all' ambizione de' musici, vaghi di cantar fra un corteggiamento di seguaci regalmente. I duetti de' quali Metastasio fece uno ogni due opere, diventarono frequenti; i così detti pezzi concertati a molte più voci, ond' esso diede il saggio, posero gl' interlocutori a dialogo cantando. I libretti metastasiani, che si andavan riproducendo con novelle musiche, come può vedersi' nell' edizioni di que' tempi, venner abbreviati; accorciati i recitativi, alcune arie ommesse, altre accresciute di strofe, di riprese; quelli e queste decomposti, [-33-] per fare duetti ed altri canti a più voci. Talvolta l' ultima parte del terz' atto vedesi ridotta a poche parole indispensabili allo scioglimento, la quale è da credersi fosse poi recitata alle panche, mentre tutta l' importanza era finita all' arione cantato dal musico principale nella penultima precedente parte. A questi guasti presiedevano poetastri ristauratori dell' opere antiche in forma moderna, uno de' quali non temette scrivere nella nota di sue venali fatiche: Per aver accomodato il Metastasio lire...

XXXV. Ove si eccettui la colpevole carnificina degl' inviolabili poemi metastasiani, alcune di queste innuovazioni potevano condurre il melodramma a ricevere forma più adattata alla varietà e all' incremento musicale, come dissi pur dianzi. Così l' accennato bando d' interlocutori secondarj rendeva all' opera l' unità della tragedia, e quello delle arie finali perpetue, nonchè delle similitudini, veniva far sì che il canto servisse, come mezzo allo scenico dialogare, e se 'n facesse dipendente. Che se ciò accadeva per opera d' uomini indotti, senza l' intenzione di giovar all' arte, senza nemmen saperselo, il caso dirigeva per essi, e felice inparte ne poteva esser il risultamento. Ma la cosa non istette in questi termini. Gli attori pretesero che al lor canto tacesse, dirò così, l' azione. Il maestro, fiero d' oltremontana scienza armonica, volle a sua volta che prevalesse questa al canto nella difficile diramazione degli accordamenti, e nella potenza dell' orchestra. La favola così rimase abbreviata, inguisachè da tre atti si fece di due, e brevi sul libro, benchè prolungati assai nella musica.

XXXVI. In tal maniera la ricercatezza delle melodie, il dilettamento che nasceva dall' udire l' ingegnose combinazioni di più voci simultanee, secondate e sostenute dalla forza e varietà istrumentale, introdussero quell' opera che chiamerò per antonomasia rossiniana: perciocchè se non nacque veramente pel Rossini, nè senz' esso sarebbesi rimasta dal fiorire la moderna copia musicale, egli fu che la condusse all' ultimo culmine della raffinatezza, e d' una leggiadria tutta propria di quel suo unico ingegno. La musica teatrale però aveva cominciato a crescere in tutta nuova foggia intorno al nascere del secolo corrente, e forse primo il Mayr, o avanti a lui ancor altri oltremontani, e gl' imitatori loro, fecero conoscere, introdussero fra noi i così [-34-] detti grandi pezzi concertati. Il Generali precursor del Rossini mostrò poscia i saggi de' novelli voluttuosi fiori d' uno stile, che però non sentiva di straniero, giacchè lo aveva esso attinto a sincere patrie fonti. Il Pesarese superollo di gran lunga nella copia delle invenzioni, nel numero delle produzioni, ma eziandio nell' ardire delle fantasie, nella libertà delle forme. Allora fu che la Musica si trasfuse in lui (leggemmo perfino in fronte ad un libretto il titolo d' iperbolica sovversione: Rossini e la Musica), e si disse non potere andar più oltre, nè più variare questo ch' era per essere necessariamente il bello di tutt' i tempi, come il gusto vero dell' età nostra. Arrestiamoci dunque, senza confonder l' ordine cronologico indagando più oltre, ed esaminiamo non brevemente quest' epoca.

Accennai già l' epoca prima del melodramma mitologico rinucciniano, o se più piace, dell' oltremontano Quinault. Descrissi la seconda dell' opera istorica, illustrata dall' immortale Poeta col suo cesareo Predecessore, e secondato da uno stuolo di aurei musicografi. Or mi conviene far conoscere le norme, dar le regole di questa terza tutta musicale, cui non saprei come meglio intitolare che dal nome dell' immenso Compositore, a' tempi del quale nulla esser doveva, e nulla fu la poesia. Nè faccia caso ch' io abbracci in una la musica che cominciò col secolo, quindi quella di Mayr e del Rossini; le quali al filarmonico potranno sembrar cose diversissime, non al poeta, che drammaticamente fa un sol genere di quelle musiche onde più o meno la scenica verità vien sacrificata all' ambizione degli accordamenti da cantoria.

XXXVII. Prima però delle opere rossiniane dovrebbesi far parola: malagevole impresa, perchè molte, e troppo conosciute. Pur siccome il tacerne intieramente sarebbe colpa, ne darò qualche cenno. Col Tancredi si fece il Rossini conoscere ingegno non ordinario. Veggonsi le virginee grazie d' una musa giovanile, vispa alcun poco, ma col carattere impresso della natìa naturalezza italiana. Nel Mosè la virtù musicale è al maggior colmo; pure l' antidrammatica e sciocchissima poetica favola è fondamento su cui quell' architettura sublime, senza propria colpa, non può ritrovare adequata base. Vuolsi dunque considerar il componimento del musicografo in sestesso una serie di [-35-] quadri d' epica dipintura, piuttostochè tragiche scene; mentre mal si può far tragedia dove non ne presta occasione il ridicolo dramma. Tragico invece l' Otello, che, malgrado i parecchi difetti di quella melotragedia, offre qualche valor poetico, e l' innato patetico argomento. Si unisce a maraviglia co' melodrammi del Bellini, de' quali è precursore, vincendoli eziandio, se vuolsi, nella tempera sua fine. Il terz' atto specialmente scorre per un semplice tutto tragico stile; il pregio del quale non estimossi sennonsè quando la novella scuola rendette attenti gli uditori a questo genere, nonchè capaci gli attori a degnamente rappresentarlo. Così esprimesi uno scrittore: "Sembra veramente che Rossini stesso non abbia mai pensato che il terzo atto del suo Otello dovesse destare un tal fanatismo, e ciò tanto più se l' uso era in Napoli per lo innanzi di ommettere questo terz' atto, terminando l' opera coll' atto secondo." (Vedi presso il Censore dei teatri 1830 pagina 369.) Volle però il Rossini scherzar con semedesimo per una volta almeno, laddove nel tragichissimo duetto finale esce con una frase ricordevole l' aria buffa della calunnia. Dico una volta, perchè non attribuirò a sua colpa quella del Poeta, mercè la risibile cavatina, cui canta Otello a' Padri Coscritti nella piazzetta sedenti sui seggioloni della Comunità di Montefosco, e della quale sono faceti que' versi:

     Amor rischiara il nembo
        Cagion di tanti affanni;
        Comincia co' tuoi vanni
        La speme a ravvivar.
Narrommi un Bolognese aver udito dal Rossini: Perchè molti andavano dicendo che nel mio Tancredi ed altre opere ho adoperata una troppo facile semplicità, ho voluto mostrar nell' Aureliano, come saprei sfoggiar anch' io scientifiche difficoltà: non piacque; ned io rinuncierò più per queste dicerie al mio metodo. Come mantenesse il proposito vedesi specialmente nella Zelmira, ammirata da alcuni, da altri ammirata e chiamata tuttavia satiricamente l' opera tedesca rossiniana. Alla raffinatissima elaborazione della musica cozza a maraviglia l' ignorantissima sordidezza della poesia.

È la Semiramide delle rossiniane melopee la più brillante. La poesia non è certamente buona, ma le belle [-36-] situazioni vengono innate dalla tragedia francese. Fin nelle cabalette, tuttochè ridenti di melodica voluttà, trovasi nonsochè di drammatico. Il più geniale, il più divertente, il più ripetuto è questi de' rossiniani componimenti. Melodico il Tancredi, armonica la Zelmira, epico il Mosè, drammatica la Semiramide, tragico l' Otello. A questi si riferiscono gli altri componimenti, se dir lice, secondarj, ne' quali vedesi ora qualche original parte, or il più, or quasi l' intiero, ed ora eziandio la troppo facile riproduzione delle precedenti creazioni.

Il Tello congiunse assieme la rossiniana colla tragica maniera, l' italica colla straniera scuola, in un campo d' ogni altro più vasto di variatissimi tesori e bellezze.

XXXVIII. Dicesi che l' Autor nostro, nell' uno e nell' altro stile compositor supremo, pure nel serio tiene scettro principale. Io non penso così; e basterebbe il Barbiere di Siviglia a contraddire. Minor numero d' opere buffe gli fu data occasione di comporre; pur mancano le secondarie, non le principali da contrapporre alle serie sullodate.

Nell' Italiana in Algeri, di tutte più pregievole, lo stile è veracemente comico, cioè veramente buffo. Con carattere costante vien renduta una poesia buffamente capricciosa. La poesia è capricciosa; la musica è poetica nella poesia.

La Pietra del Paragone, senz' avere il capriccio dell' opera mattaccina, nè l' importanza della commedia imitativa, tiene uno stile famigliare fra il comico ed il bernesco, che molto conviensi all' opera buffa più nobile.

La Cenerentola è più leggera; la sua melopea ripiegasi maggiormente in sestessa; pur la complessiva espressione è la complessiva espressione della poetica favola.

Il Barbiere, più ancora elaborato, sembra trionfare per virtù delle forze musicali solamente; ed il trionfo val veramente quel decies, anzi quel centrum repetitus placebit. Pure una tal musica se non è poesia, è poetica, e se non è la semplice musica buffa, ne ha il carattere.

La Gazza ladra per lo contrario, arca d' ogni non risparmiato musicale tesoro, è l' opera seria delle buffe, l' opera buffa delle serie. Buona la poesia, ma non drammaticamente. Non contenta d' un argomento che non è buffo, nè comico, ma patetico, vuol renderlo sentimentale e semiserio. Di qui cominciò l' esempio puerile di dar [-37-] all' opera buffa le suppellettili della seria, e le forme musicali del gran genere. Offerte le situazioni, s' avvolse per quelle il Musicografo, mercè una non parca profusione d' ogni melodica ed armonica potenza; quindi mentre il filarmonico con ammirazione religiosa si bea entro quell' emporio, il critico severo non niega le bellezze, ma le condanna fuor di luogo; nè potendo nemmeno riconoscer in quegli umili contadineschi interlocutori il mal genere semiserio, trova in un' opera buffa i materiali per comporne tre serie.

XXXIX. Lieve opera s' estima il libretto d' un melodramma moderno, ma aspre sembrano al poeta quelle leggi che gl' impone l' odierna musica, le quali restringono il suo estro, l' azione, le passioni entro angusto cerchio, e certe misurate forme.

La tragedia, come ogn' altro dramma pedestre, è un' azione in dialogo rappresentata quale se accadesse, semplice intrinsecamente, e varia sol negli abbellimenti, la quale procede con incremento di vigore ad un necessario scioglimento. Il melodramma concilia queste leggi generali coi bisogni della musica, che gli prescrive certi particolari limiti nel subietto, e configurazioni nelle parti dell' esposizione. Cominciamo dalla scelta del tema.

XL. Il soggetto del melodramma dee esser quanto semplice, altrettanto, suscettivo per natura sua della leggera e vivace pittura, dirò così, musicale, e dee prestarle occasione alla moltiplice serie de' quadri suoi. Il poeta ritrovi modo di accordare con tuttociò la propria gloria, e le bellezze di sua poesia, che saranno quelle risultanti da ben immaginate situazioni e colpi di scena, anzichè da dialoghi svolti mercè l' eloquenza delle mutue scene. Ma in ogni modo, dicasi pure, l' oggetto che dee preferire gli è lo scopo musicodrammatico. Perciò accadde di raro che in libretti fatti pella musica in questione sia fior di poesia, mentre pochi buoni poeti ci dieder opera, non isperandone fama, ch' è tutta del musicografo, nè gran mercede, perchè ad una poesia così regolare si può giungere per arte piucchè per natura; quind' in più copioso numero di scrittori trovasi a minor prezzo l' autore del libretto. Pure da un buon poeta si possono immaginare di questi melodrammi, tuttochè compendiosi, brillantissimi per fantastiche invenzioni de' vivi colpi di scena. La bellissima [-38-] Francesca da Rimini poi, scritta dal Romani ai tempi rossiniani, dimostra che non è disperato il caso di farsi conoscere in qualche modo poeta fra queste strette ancora.

XLI. Il carattere d' un subbietto veramente melodrammatico è quello il quale offre incidenti che portano secoloro un facile sviluppamento e spontaneo, più col mezzo dell' azione in poche parole, che con quello d' intralciate controversie, simile a que' fiori che posti entro un vaso d' acqua subitamente spiegano il lor calice olezzante: ma vuolsi ascrivere però a virtù della pianta, da cui furono pur allora divisi, quella maturità, che poi necessariamente si palesa soltanto in apparenza. Nè so come si facciano coloro che ogni libretto musicale ricavano da una rinomata tragedia, genere, che richiedendo materiali totalmente diversi, dee nel suo disegno repugnare all' adattamento d' un uso affatto opposto. Ma son poi que' libretti che sono!

Esser non potrebbe altrimenti d' un melodramma nelle parti dell' azion sua, ove il tutto deesi trattare con parsimonia somma nei recitativi, acciocchè quando si arrivi sollecitamente ai canti, esaurita sia ogni narrazione, ed ogni trattar d' affari, e rimangano solo que' concetti leggeri e vivaci, che aggirandosi intorno alle passioni, sieno sensi d' un deliberato animo, atti ad esprimersi con facili, vive, armoniose frasi e parole, e con certe maniere già rendute comuni dalle convenzioni dell' arte poetica musicale.

XLII. Da ciò si vede che il carattere della poesia musicale deesi dall' intelligente poeta osservare nelle parti maggiori come nelle minori, nella versificazione, ne' pensieri. I versi esser debbono pianissimi, di suono regolare uniformemente musicale, non inceppato da difficili elisioni che ne rendano equivoca la misura. Altrettanto dicasi delle parole incerte a scandersi, o lunghe così, che non sappia dividerle, nè dove riposarsi la voce del cantante. Gli accenti hanno a trovarsi dove il maestro di musica debbe incontrarli, giusta gli accenti de' ritmi suoi, che non saranno ignoti al poeta, come la quantità armonica de' versi al musicografo. È necessaria all' autore delle parole una tintura di musica, per sapere con quai vocali debbono terminare i periodi, e le cesure de' versi, onde sovr' esse fermar la voce e vocalizzare. Altrimenti accade, che le carte di [-39-] musica son piene di contraddizioni col testo, perchè nel cantabile molti versi conviene al maestro rifare (o guastare) sendo di suono menchè atto alla canora pronunciazione, e parecchie desinenze ne' recitativi alterare, onde alcun verso ne va poi stemperato in prosa. E qui non intendo parlare delle gratuite aggiunte, sottrazioni, e falsificazioni che, andando tropp' oltre, fan essi alla poesia, pe' bisogni pretesi, e vezzi di lor note, ma di quelle che l' inesperienza del poeta rende scusevoli; mentre il musicografo, e talvolta lo stesso cantore, colla semplice pratica e coll' orecchio musicale sentono meglio la delicatezza del verso melico che lo stesso inesperto poeta.

I concetti siano finamente, ed eziandio facilmente poetici, assai brevi e vibrati, e chiamino alla mente idee nobili, ma non fuori del comune.

XLIII. Colla medesim' avvedutezza saranno scelti i caratteri fra' più animati, e d' una decisa impronta, onde non richieggano molte parole a far conoscere gli occulti loro sentimenti, ma favellino piuttosto coll' opere. Abbiano poi tuttiquanti un particolar colore, che si distacchi da quello degli altri, onde assieme compongano i contrappositi, e le graduazioni del quadro armonico. Que' medesimi, che per fiera lor natura, ne formeranno l' ombre, non lo sieno brutalmente o bassamente, perchè la musica, che col suo bello vuol addolcire ogn' asprezza, rifugge da tuttociò che si oppone a questo bello ideale. Esclude perciò essa dall' opera ogni personaggio freddamente senile, impassibile, triviale, indifferente alla parte patetica dell' azione.

XLIV. Ma, piucchè in queste parziali pratiche, consiste il carattere del melodramma nell' armonico quadro dell' insieme, e nel dissegno che dee offerire e preparare al compositore della musica. Perocchè conviene le parti con particolare avvedimento si corrispondano fra loro in relazione del pari che in opposizione, onde l' armonia de' musicali colori si distenda graduatamente, e tutte le loro specie possano ad una ad una venir impiegate, risplendere, e coll' artificiale loro disposizione e successione viemaggiormente brillare. Conciossiacchè l' intiero armonico componimento sia un tutto di membra, nonsolo successivo, ma corrispondentisi, le seconde colle prime, le ultime colle seconde e le prime, quasi ravvolgentisi tutte attorno ad un centro comune.

[-40-] E perchè non sembri altrui, che queste regole generali, piuttosto colorate collo stile pomposo dell' oratoria, nulla insegnino di particolare con vera teorica precisione, dire intendo, che i diversi pezzi cantabili, ond' è tessuto un libretto, debbono procedere da situazioni, ognuna suscettiva d' armonica espressione, acciocchè dalle tinte de' colori che le rispettive passioni richieggano, risultino altrettanti quadretti, che fermino la serie de' diversi stili, e dalla lor varietà si costituisca l' intiero complessivo, ed in certa maniera la completa unità della galleria, cioè dell' unione loro, ch' è l' opera. Ma la reciproca varietà di tutt' in genere trovisi precedentemente in ispecie dentro cadauno, cosicchè nelle sue parti la passione trascorra per tutt' i gradi ond' è suscettiva.

XLV. I materiali onde si formano queste parti del melodramma, giusta la moderna scuola, sono: recitativi, cavatine, rondò, duetti, pezzi a grande concertamento. Le parti che ne risultano sono: introduzione, arie d' uscita, scene di duetti, e a più di due voci, finale del prim' atto, grandi arie nel secondo. Notisi bene che in queste carte con tali nomi non intendo significare musicali componimenti, ma di quelli piuttosto le relative poesie.

XLVI. Sono come gemme legate in un gran giojello, ed il metallo che le connette è il recitativo. Si considera esso come la via per cui marcia l' azione; il cantabile è campo dove fermasi, ed insiste la perorazione delle passioni. Grand' economia di versi, chiari ed attivi, comanda quest' ultima parte alla prima. Sono poi così diverse per loro natura, che bisogna badar bene, non vestir l' una colle spoglie dell' altra, ma che una linea ponderata le divida. Conciossiachè prima di tirarla fia buono terminare col recitativo l' azione, nè cos' alcuna di pacato ragionamento partecipi del successivo lirico metro, destinato ai sentimenti patetici, su' quali solamente si dee lavorare un vero cantabile. Chi può sentire il Coro, allorchè porge cantando questi freddi consigli con linguaggio di conversazione?

     Perchè piangi? In tal maniera,
        E fors' anco più infelici,
        Cominciammo la carriera
        Di cantanti e cantatrici....
[-41-] E così sèguita sopra materie quasi narrative a ragionarsela per ventiquattro versi. Si dirà, che alcun maestro ha composte tuttavia di belle cantilene. Sì, ma disegnate in aria, mentre, chi doveva non gli preparò le basi, onde fondarle non ideali sull' azione.

I recitativi servono ancora a frapporre ai pezzi del canto riposi opportuni e contrapposizioni modeste. Soglionsi far oggiddì tutti concertati. Esempio di renderli esclusivi diede il Rossini. Molti biasimarono la nuovità; ma questa, come accade, divenne usanza generale, che produsse l' abitudine. Io penso, il Pesarese adoperasse così relativamente al dramma moderno, perchè sendo brevissimo, torna inutil cura farlo di due stili; e ad una cosa corta sembra una appartenga la maniera negletta e disadorna; e maggiormente perchè all' elaboratissimo odierno canto non par che si addica un recitativo che troppo se ne distacca e gli rimane aldissotto.

Agli accordamenti continui convengono rime più obbligate. Ho veduto un libretto di esperto scrittore in tal materia, tutto a versi rimati con artificiali consonanze. Anche questo è un tornar a' principj del recitativo rinucciniano.

XLVII. L' aria è un canto in due parti, l' una più grave, l' altra più allegra. Quella si suoleva replicare, ma poi presto s' incominciò a ripetere entrambe. In alcuni libretti assai antichi ho notate le arie d' una parte sola, e l' indicazione, che si replichi. Forse da questa replicazione, che d' una strofa faceva due, nacque il costume di farla in due parti, e si vennero poi entrambe replicando. Per la poesia l' aria non ha differenza di carattere fra prima e seconda parte; cheanzi il Metastasio le tesseva eguali: il quale die' pur col suo esempio la legge, che si avessero a legar assieme con una rima tronca nell' ultimo verso, se nonsè alcune volte che la vicenda giva opposta. Ma dell' arie propriamente poco uso fa l' opera oggidì Sono ad esse sostituite le cavatine nel primo atto, i rondò nel secondo.

XLVIII. Sembra che la cavatina, dal suo collocamento più comune, o exabrupto nell' uscir che fa un attore, o almeno nella sua prima scena, richiegga un semplice andamento, una sola parte, ovvero una divisione subalterna del pensier principale. Ma i precettori danno invece questa qualità all' aria, cui sottopongono alla cavatina. In ogni modo sarebbe question di parole, e di mutarsi scambievolmente [-42-] il nome. La cavatina, permezzo della musica moderna, è spessevolte un quadro musicale suscettivo di varietà e ornamenti quant' altro, diviso in parti, e corredato di cabaletta, nè si distingue forse dal rondò che per la sua situazione nel prim' atto, e per qualche comparativa maggior semplicità subalterna. Generalmente però la cavatina non ha quel lento adagio e figurato che riserbasi al rondò, e si passa da un grave ad una cabaletta, o con qualche altro tempo subalterno.

XLIX. Il rondò è un aggregamento di varj periodi gravi ed allegri, se piace con riprese, altri periodi subalterni, ed il più delle volte con interlocuzione ed accompagnamento di cori. Inoltre vuolsi per alcuni che questo assieme sia relativamente all' aria un completo quadro di melodie, con esordio, disposizione, progressione variata, risolvimento, conclusione. Nella poesia le strofe che debbono dar occasione a queste parti non han regola particolare, ma prenderanno corpo dalla conoscenza ch' abbia il poeta delle potenze musicali, ed anche dalla stessa situazione drammatica, che qualora sia scelta veramente patetica, porterà con sè queste diverse parti, naturali graduazioni d' ogni passione.

L' allegro oggi si è cambiato in una cabaletta, sebbene alcuni condannino quest' uso continuo. Dirò la cabaletta: un periodo deciso di frasi unite con estrema vivacità, il quale colpisce dilettevolmente l' orecchie, e facilmente si imprime nella memoria. Prima la cabaletta era una breve strofa, quasi coda del pezzo; or è fatta di due parti come un' aria veramente; il perchè direi quasi: l' andante nella sua semplicità, ed il grave colle lente sue e spezzate frasi tener luogo, in effetto, di recitativi, invero solennissimi, e la cabaletta esser a quelli l' aria vera: così tornano le cose in parte a' lor principj!

Coi rondò va unito il coro, nè perciò quelli si dicono meno esser pezzi assoli. Alcune volte il coro ne intona il proemio; altre volte, dopo una parte sentesi cantare di dentro (anche un semplice suon d' istrumenti fa lo stesso uffizio), quindi, arrivando sulla scena, da quanto annunzia, prendesi occasione di cambiare la situazione, variar lo stile musicale, porre secolui a dialogo l' attore soliloquente, e terminar col gradito secondo delle simultanee voci corali. Qualche volta un altro interlocutore, specialmente secondario, [-43-] nelle cavatine piucchè nei rondò, fa, invece del coro, ciocchè dicesi pertichino, accompagnando subalternamente.

L. Anche il coro canta solo, come non secondario interlocutore: dove vedremo in appresso. Allora il suo canto è aria, che, detta da più voci, diviene suscettiva di particolare contrappunto. Nè mancano esempj di duetti fra due cori distinti.

LI. Le scene cantate a più voci non distano essenzialmente dalle monologhe. Infatti eguale n' è il musicale dissegno, e solamente quanto nell' une dice un cantore vien nell' altre distribuito fra più voci, o da esse con certe modificazioni ripetuto, o cantato simultaneamente. Ciò intendasi però detto inquanto al pensiero ed alla fantasia dell' inventore; ma inquanto all' esecuzione, molta opera da maestro gli rimane per mettere in accordamento le diverse voci dialoganti. A me non s' appartiene che di mostrar come il poeta debba, dirò così, preparargli la tela, onde i periodi musicali abbian fra loro proporzionato numero e quantità. Ned è già che siffatto ordine non sia bene una volta variare, perchè risulti più gradito nell' altre. Talor anco si mantiene la quantità del metro nella poesia e nella musica, e la parola passa da interlocutore a interlocutore per quantità ineguali, continuando eguale nelle sue metriche parti il complessivo dialogar cantato. Ma ciocchè forma il particolare carattere, peresempio, del duetto è il rispondersi l' uno coll' altro in eguale misura di parole, il chè succede nelle seguenti maniere: Sentimenti diversi in quantità eguale e in tempo successivo: Sentimenti diversi, in egual quantità, contemporaneamente: sentimenti eguali contemporaneamente a più voci. Queste tre maniere poi si possono duplicare dal musicografo, facendo musica eguale a ciò che in poesia è diverso, e viceversa. Vuolsi anche notar il vezzo nella poesia, d' un più stretto rispondersi, or mercè le stesse desinenze o rime, or maggiormente in fare colla risposta la parodia, variando chi risponde ciò solamente che nelle sue circostanze diverso diviene o contrario, e nel restante rimanendo eguale la forma del sentimento. Ho dimandato a chi è dell' arte, fin a quanto questi giuochi di parole giovino al maestro della musica, e n' ho avuto in risposta non essergli intrinsecamente necessarj. [-44-] Certa cosa è però, che fomenteranno indirettamente almeno l' estro imitativo del musicografo, se perciò il poeta sfida sì ingrate a sestesso difficoltà.

Un duetto, verbigrazia, comincierà da due strofe pari di quantità, nelle quali, con proposta e risposta, si dice un libero sentimento, tanto più degli altri importante nel senso poetico, quanto meno complicato nell' accompagnamento musicale, qualunque sia il tempo d' arte, che piaccia al maestro applicarci, e del quale non è qui luogo a parlare. Verrà talora dopo l' adagio, in cui si risponderanno perfettamente co' sentimenti e desinenze loro i versi de' due contendenti. Terrà dietro un dialogo di canto dissimulato aguisa de' recitativi. Finalmente nella cabaletta si combineranno a cantar assieme forse le stesse parole. Il coro interviene in questi pezzi dialoganti non altrimenti che nei monologici.

Darò qui un esempio di queste scene, o pezzi cantabili, scegliendo a tal uopo il rinomato terzetto nella Zoraide, cui compose la musica il Rossini, e basterà per dar idea di quelli che sono a maggiore o minor numero di voci, nonchè ad una voce sola.

ZORAIDE, AGORANTE, ZOMIRA.
ZOR.  Cruda sorte!
AGOR.             Oh amor tiranno!
ZOM.    Io sprezzata!
AGOR.                Ahi qual momento!
ZOM.    Più non reggo.
(A 3)              In tal cimento
        L' alma mia fremendo sta.
AGOR. M' amerà?
ZOM.           Crudel!
ZOR.                  Che affanno!
AGOR.   Che mai dici?
ZOM.                 Indegna!
ZOR.                         E ardisci?
        Giusto Cielo, in lor punisci
        La più nera crudeltà.
ZOM.    Giusto cielo, in lui punisci
        La più nera infedeltà.
AGOR.   Ciel, perchè così punisci
        Chi s' accese a tal beltà?
[-45-] CORO DI DONZELLE (di dentro).
             Scendi propizio,
               Nume de' cori;
               Fa che Zoraide,
               Fra puri ardori,
               D' immenso giubilo
               Sparga il suo cor.
AGOR.      Quai dolci palpiti!
ZOR.         Quai tristi accenti!
ZOM.         Vaneggio e smanio.
AGOR.        E amor non senti?
ZOR.         Che dici? Ahi misera!
ZOM.         Che sento! Ahi perfido!
AGOR.        Barbaro amor!
         Dunque, ingrata?
ZOR.                     T' accheta, ti calma.
AGOR.      Sperar posso?
ZOM.                     Che smania crudele!
AGOR.      Per te vive, respira quest' alma.
ZOM.       Oh che rabbia!
ZOR.                     Che acerbo martir!
ZOM.     Osi, iniquo?
AGOR.                Gl' insulti disprezzo.
ZOR.       Per Zomira, deh! placa quell' ira.
ZOM.       Taci, trema; non voglio a tal prezzo....
AGOR. ZOR. Che baldanza!
ZOM.                    Neppure un sospir!
AGOR.    Sarà l' alma delusa, schernita
           Al mio bene per sempre riunita,
           O Ricciardo qui deve perir.
Altre due simili strofe di parodia dette dalle donne. Questa certamente non è bella poesia; ha però armoniche cesure che suggeriscono i periodi e gli accordamenti musicali spontaneamente. Sulla prima parte, cioè fin al coro, sebbene divisa in minute riprese del dialogo, formò Rossini il grave con un motivo maestosissimo, che di sèguito tutte le abbraccia. L' intrecciamento del coro è di non comune felice fantasia, e verso per verso fan da secondo gl' interlocutori, passando, dirò così, sovr' essi l' ufficio di coristi al coro. Questa è una parte quasi straniera. Si valse della susseguente, che è seconda parte, per [-46-] l' andante, cui lavorò pianamente aguisa d' un recitativo. Qui non serve, come altre volte, di preparazione in principio ai due tempi più elaborati, ma di riposo e chiaroscuro fra il grave e l' allegro. Consiste quest' ultimo nella cabaletta cantata da tre in diverse parole, non simultaneamente, ma successivamente, con una melodia ritenuta agitata, e all' orecchio gratissima. E siccome le tre strofe conveniva ripetere, n' è aggiunta un' altra tutta istromentata, da dirsi a tre voci prima della ripetizione, e dopo, per coda del pezzo. Può servir di saggio d' un tempo di più, posto per ripieno. Eccola:
(A 3)    Che contrasto d' affetti è mai questo!
            Sdegno, amore, ritegno, furore
            Sento in petto. Mai giorno funesto
            Più di questo non vidi apparir.
LII. La prova però di maggiore maestria pel musicografo, e di più briga pel poeta è una grande scena per più parti reali, cioè pelle quattro voci diverse, coi coristi, anzi spesso con tutta la compagnia cantante. Questa grande scena è un moltiplice quadro, di cui stan nel libretto i dissegnati contorni, con tale graduazion nell' azione, incremento nelle passioni, diramazion ne' simultanei contrastamenti, che il compositore delle note, versando sovr' essa il tesoro de' suoi mezzi, possa lavorare una musical pittura, la quale passi per ogni stile fino al pieno scoppiare di tutta l' armonica potenza. Insomma come l' opera è una completa musical galleria, così una grande scena è un intiero quadro, saggio e figura del melodramma stesso. Formano parte di questa grande scena i recitativi, molto elaborati, che preparino la situazione, dispongano al canto. Alle volte invece la preparazione si tratterà con una serie di strofe liriche correnti, che verranno rendute dalla musica con un canto declamante, quasi recitato.

Popolato bene il palco da interlocutori condotti ad un grave avvenimento, allorchè fia fra di essi al colmo una situazione, qualunque il genere, suscettiva di drammatico muovimento e di musicale dipintura, comincierà il poeta tessere il suo panno colla ricchezza delle liriche fila. La prima parte conterrà probabilmente un mutuo dialogare, in misurati periodi, od in più brevi riprese, accompagnati d' armonie andanti o gravi, giusta le circostanze. Anche un [-47-] lento, lene, soave principio, un' esultanza de' cori, o che so io, faranno felice opposizione allo scioglimento successivo della scena, come mare prima tranquillo e piano, vien poi increspato, mosso, fragorosamente agitato dall' urtarsi de' venti.

Una qualche grande cagione, sospendendo il corso dello sceneggiamento, renderà come attoniti i dialoganti, e li chiamerà sopra sestessi ad un certo bisogno di ponderazione, ond' abbia luogo la vicenda del largo e dell' adagio, ed ove molto i maestri, e forse troppo, spaziano colla varietà de' loro lenti accordamenti.

Tornerà risvegliarsi il muovimento degli avvenimenti, e un nuovo tempo musicale, spesso andante allorchè il primo fu grave, o grave se il primo fu andante, servirà di legame e di passaggio ad evitare il troppo rapido e non armonico balzar dal largo alla stretta.

La quale, ultimo pezzo, cantata da tutte le voci simultaneamente, avrà nel momento drammatico, nel deciso concetto poetico, nella volubilità del metro il fondamento dell' impetuosa armonia, ed universale rumoreggiante istrumentazione, necessarj caratteri di quest' estrema parte. Quindi o vive cose accennate dalle parole, o fragorose azioni rappresentate sulla scena vogliono perlopiù i compositori per ricavarne un tumultuoso finale. Pochi esempj si trovano del contrario, cioè d' un fine ameno e soave; nel qual genere mi ricordo il Rivale di sestesso di Weigl, ove termina l' atto, dopo gagliarda lite, in un prudente zittire, riparando tutti alle quinte, con un sommesso, più volte smorzatamente ripetuto: buona notte.

LIII. Ho indicati così gli elementi delle opere; veggiamo come si applichino alle diverse parti di esse, il chè sarà brevissimo a dire.

Forse la magnifica moderna introduzione persuase che si potesse far senza della sinfonia. Datone dal Rossini l' autorevole, o se vuolsi, seducent' esempio, ebbe poi troppi seguaci, e diventò usanza comoda a molti, nonsenza lagnanze de' critici. E infatti quella solennità dell' introduzione appunto richiede maggiormente un preambolo, che regolando i piaceri dell' udito, disponga l' animo colla semplice musica istrumentale all' armonia vocale.

Di due sorta è l' introduzione. L' una consiste ne' cori, [-48-] senza cui non s' incomincian opere moderne; a' quali s' intreccia il canto d' uno o più interlocutori subalterni, e sene forma un completo pezzo, sebben secondario ne' suoi esecutori, che fa come prologo al dramma. L' altra, ed è l' introduzione squisita, ammettendo ancora qualche primario personaggio, è un composto quadro musicale che nella graduazione delle parti tien il carattere della grande scena, e solo nella maggior semplicità de' materiali, nell' andamento, e nella sua collocazione relativamente le cede. Quanto dunque si disse de' pezzi concertati a più parti abbraccia la composizione ancora d' una introduzione.

LIV. Dopo l' introduzione bisogna pensare alle così dette sortite de' primarj personaggi, le quali sogliono dar luogo ordinariamente a tre cavatine, precedute da breve recitativo, e più spesso exabrupto. Codesto loro trionfale primo arrivare, che provoca ne' spettatori anticipati applausi, e che li fa subitamente sentire quanti e quali sono, è così per essi indispensabile, che si veggono in alcuni spartiti perfino rinunciare al rondò del second' atto, alla cavatina quasi mai. Un grave ostacolo sembrerebbe offerire il contrastamento che fanno una coll' altra queste cavatine, ma a questo difetto, forse perchè intrinseco alla cosa, non si pon mente gran fatto. Solo s' introduce qualche distaccamento col cambiar luogo, variando scena (e le scene si sogliono rinnuovare circa quattro volte ogni atto). Così si disgiungono due, o fors' anche tutte tre le cavatine. Talora però escono due assieme con un duetto exabrupto tessuto col carattere scorrevole di cavatina. Ambo i personaggi poi hanno un' aria, ossia loro cavatina nel decorso del' atto.

La narrazione dell' antefatto e l' esposizione indispensabile dell' azione s' accenna coll' introduzione, poscia alcun poco più si spiega co' recitativi che seguono l' introduzione e le cavatine.

Per finale intendesi nè più nè meno la grande scena, della quale favellai, e che ha sua stabil sede nel melodramma in fine, ed a corona del primo atto.

È tanto cresciuta la copia di composizione, che calando proporzionatamente il numero de' pezzi, il primo atto, fra introduzione e finale consta solamente d' un duetto, o d' un pajo di pezzi dialogati, oltre le dette cavatine. Qualche [-49-] volta si concerta un duetto fra due primi, avantichè esca il terzo personaggio colla cavatina.

Il Metastasio non compose mai duetti che per donna e musico d' amoroso argomento. In questi legami non arrestossi la musica moderna, e ne fece gustare fra due voci diverse, e due personaggi del medesimo sesso; e piacquero assaissimo duetti di marziale argomento, contenenti non amorosi accordamenti ma opposte più gravi contenzioni.

Credono alcuni moltiplicare il dilettamento e l' armonia introducendo un quarto principale attore, che necessariamente porta da tre a quattro le cavatine, i rondò e moltiplica i duetti: ripetizioni sazievoli, e lunghezza insopportabile, che produce poi la necessità d' accorciarsi, e guastarsi l' opera. Quattro prime parti si abbattono a vicenda. Bensì, ove l' azione il richiegga, gioverà una seconda parte. Il basso specialmente, che un giorno era fra gli ultimi, e serviva solamente all' ufficio di compir ne' pezzi concertati il quartetto delle voci principali, il basso suol esser oggi almeno una seconda parte. Quelle che dicevansi seconde son diventate terze, non servendo che con pochi recitativi ne' lor caratteri di confidenti, a necessità d' azione.

LV. Il second' atto comincia talvolta da una specie d' introduzione, che fa il coro, e qualche attor subalterno, de' quali le parole in certa maniera riannodano l' azione per l' intervallo dimenticata, e musicalmente dispongono l' uditore a ricomporsi all' attenzione. Formasi poi quest' atto de' rondò delle tre prime parti, ove alcuna non ci rinunci spontanea; d' un duetto, di situazione, composizion, esecuzione principalissimo, e spesso d' un pezzo a più voci ancora, nell' accordare le quali trionfar possa la maestria del musicografo.

Contuttociò non può impedirsi che spesso due rondò si succedano, o che un de' musici debba passare dall' aria al pezzo concertato senza pausa. Una volta si frapponevano altrettante arie di seconde parti, che vennero a noja, e in dispregio. Or più saviamente s' introduce un' aria almeno del coro. Meglio in essa trionfa il compositore; e molte voci triviali in coro possono piacere grandemente.

Terminavano le opere (ed eran di lieto fine) nella polacca: una cabaletta cantata dai primi ad uno ad uno, o con analogia, o con parodia, ed anche con semplice [-50-] ripetizione. Ma poscia si avvisò la prima donna, o chi si teneva principale cantore, di appropriarsi gli applausi estremi, chiudendo il dramma col proprio rondò, e questo colle variazioni, che sono una cabaletta di musicale agilità e solfeggiamenti, cui un solo personaggio ripetesi in più analoghe guise. La strofa, o strofe, o riprese per variazioni debbono esser dal poeta composte d' un o più facili, limpidi e sonori concetti, che abbiano in sestessi l' attitudine ad esser detti e ridetti senza noja, e colle vocali loro prestino la facilità al trillo, al gorgheggiamento, ed alla volata, che dovrà appoggiarci il compositore della musica, a tenore delle facoltà vocali del cantante.

Ma nelle recenti opere, trattane la materia da più tragiche fonti, si suole combinar col patetico scioglimento un rondò di non ozioso prolungamento dell' azione, o quella che chiamasi grande scena del protagonista, di cui l' invenzione non è modernissima; ma collocata in fine, ed applicata alla catastrofe, non riesce, come in parecchie opere per lo addietro, vana pompa musicale, inutile all' azione, che sarebbesi rimasta talquale senza così fastosi episodj. È per un solo ciocchè per molti la massima scena indietro descritta, cioè: una situazione piucchè drammatica (vale a dire sulla quale s' arresti quanto occorre con predilezione la copia della drammatica potenza) è, dissi, una situazione nelle quale l' eroe trovandosi in circostanze non comuni, passi per tutti i gradi d' un periodo o sommamente infelice o sommamente beato, o che incominci dall' una e termini nell' opposta passione, e con ciò la poesia, la musica, il canto, e la scenic' azione abbiano campo di esaurire i lor tesori in un quadro solenne. Il coro, o sia continuo, o intervenga con arguto effetto, è il necessario fondo di tai quadri, a' quali possono concorrere secondariamente altri subalterni attori, e puossene divider anco l' importanza fra due primarj; ma sopratutto niun prestigio teatrale, moral o fisico, che render possa piena d' immaginativa la musica, e mettere in pieno lume il protagonista dee essere risparmiato per siffatte grandi scene.

LVI. Qualunque sia quest' odierno metodo di melodrammi, poich' è arte in fatto, ed il più comunemente ricevuto, e riputato teoricamente conforme ai riti musicali moderni, ho voluto scriverne le regole, senza lasciar libera la penna [-51-] a precoce critica, cui sembrava naturalmente voler trascorrere. Compiuto il primo dovere, si passi al secondo.

Hanno le bell' arti certe norme del ragionevole, del bello, a tuttequante comune. Ove i maestri d' alcuna fra esse vogliano ribellarsene, tanto sarà diritto a chichessia il tacciarli di peccar contro le leggi generali, quanto que' maestri stessi avranno ragione di chiamar temerarj coloro, che alle regole particolari all' arte loro osino presuntuosamente contraddire, senz' averne fatta collo studio professione.

Premesse queste cose: come un dramma, musicale o no ch' egli sia, dee avere metodo manieroso? e come fingendo un naturale avvenimento, constar poi di parti artificiali, e nelle sue forme figurare l' esordio, la chiusa, e l' altre intermedie forme, a guisa d' un' orazione? ed anzi, direi quasi, a guisa di corpo, comporsi del capo, e dell' altre membra, con istrettissim' ordine regolari e dipendenti da certi a loro assegnati uffizj?

LVII. Comincia nel melodramma l' azione non coll' azione, ma con una proemiale cerimonia. Così richiede la musica (però solamente da qualche tempo). La musica dunque richiede il sovvertimento delle leggi drammatiche, che impongono un modesto principio, e vogliono, subitamente il poeta soddisfaccia al dovere di far pianamente narrare di chè si tratta! Ma non è questo il voto della musica, tradit' anch' essa colla poesia da chi la professa, mentre particolare l' è il bisogno generale d' un lento spiegar i suoi tesori onde servire all' artificiale incremento.

Coloro che vantano essere oggimai diventate di necessità nell' opere le introduzioni, vorrebbero anche privarci del buon senno col fingere in noi una sì capricciosa esigenza. Non ristarommi però dall' alzare il velo, e indagando, richiederli: Chi è che comanda in ogni opera l' introduzione, onde non se ne possa far senza? Ne addimando l' impresario, e stringendosi nelle spalle, mi dice: che tutto è buon per lui ciocchè gli porta denari. Ne interrogo il poeta, ed abbassando il docile capo, mi risponde: che suo destino è servir a tutti, ed esser di tutti men pagato. Il compositor della musica si scusa, protestando che' egli fa quello che comandano i cantanti e piace al pubblico. I cantanti principali insorgono: che questa parte dell' opera è a loro straniera [-52-] e indifferente. Il pubblico dà risposta in coro, della quale interpretando il senso, è questo: Quand' è che io dimandassi le introduzioni? Appena me n' avvidi, allorchè incominciarono a introdursi. Spenda l' impresario cinquantamila lire in una qualche fanatizzante Malibran: sarà questa la introduzione, fondamento a sostener l' opera; ma parlando ancora della musica solamente, chi mi crede così sciocco d' abbagliarmi ad un alto musicale cominciamento? Allorchè il melodramma s' innoltra nelle sue parti più importanti, cooperi ad esse o no l' arte del musicografo, non sarà nè di accrescimento nè di soccorso il già obbliato precoce fasto del proemio. Quante volte in una prima recita applaudii l' introduzione, ove il maestro aveva esaurito sestesso, e fischiai tuttavia il restante? Non lascio io poi, generalmente dopo la prima sera, cantar alle panche questo elaboratissimo esordio, per arrivar a teatro più tardi a migliori piaceri, così richiedendo il bon ton? E v' assicuro che in tal caso, su quanto godo in appresso non può influire l' introduzione. Così favella l' Uditorio teatrale a chi sa intenderne il linguaggio.

L' antefatto, cosa di tanto momento, espresso in pochi versi dell' introduzione, corale e istrumentale, è detto perchè non s' intenda, e vadasi a leggerlo nel libretto.

LVIII. Insegnavano una volta i maestri che l' aria dee venir in fine della scena, quando la passione, crescendo, giunta è al colmo, acciocchè non abbia più luogo a retroceder e raffreddarsi. Invece oggidì esce la prima volta ogni cantante colla cavatina, valeaddire un componimento poetico musicale non preparato, e tutto distaccato dalla non cominciat' azione, il chè equivarrebbe all' introdurre l' usanza che gl' interlocutori d' una tragedia venissero fuori recitando un sonetto relativo alla loro situazione. Dopo la cavatina, smorzandosi con ingrato passaggio la melodia e l' armonia, passa il cantore a diventar drammatico attore; e fra l' anelar per la fatta fatica, e l' incurvarsi in ringraziamenti, ed il non ben acquietato frastuono de' plausi, comincia finalmente raccontarne cosa sia venuto a fare. Dice uno scrittor antico, che i cantanti de' tempi suoi non volevano a niun patto arie sennonchè a chiusa delle scene, per sentirsi batter le mani dietro. Ora voglion esser nel loro comparire preceduti da siffatta musica. Questa incerta loro volontà mostra [-53-] che niuna volontà si abbiano, perciò possono facilmente seguir quella che i maestri di capella han l' arte di far ad essi prender in uso; quindi male si scusan i compositori, gettando la colpa sugli attori cantanti.

LIX. E qui accade non passar sotto silenzio l' enorme disparità e slegamento fra cantabili e recitativi. Questo spartito, dicesi comunemente, si compone di tanti pezzi. Invece d' esser il melodramma un' opera composta di parti armonicamente contrapposte, inguisachè appunto il chiaroscuro dell' une relativamente alle altre ne mostri maggiormente l' unione, l' identità, la solidità in un corpo solo, i così detti pezzi sono enumerate delicature, esca de' ghiotti palati, le quali ne vanno a caso infuse in un po' di brodo sciapito, che le tenga umide e divise, onde non siano affatto asciutta vivanda, ma coll' intenzione che' altri le possa da quell' umore a sua voglia separare.

Così il musicografo, quando accingesi a far d' un libretto spartito, guarda primieramente quanti pezzi son in esso a lui apparecchiati, ed imprende lavorarli con varia diligenza uno ad uno, ma senza bisogno di conservare l' ordine naturale. Talora il poeta li somministra a mano a mano, anche senza seguir l' ordine drammatico. Allorchè quegli abbia finito di farli musicali, e riunitili a comporne l' accademia sua drammatica, si risovviene de' recitativi, i quali a por sotto note è operazione materiale ed uniforme (e siano pure del genere tutto istrumentato), alla quale sufficiente sarebbe, ove tempo e voglia gli mancasse, il suo giovine scuolaro. Pensate voi quale presa possano far preziose pietre dure con loto per cemento, a comporne un edificio di romana sontuosità!

Ed infatti chi udirebbe senza sorprendimento, che un dramma componesi di pezzi, con leggi precisamente contrarie a quelle della drammatica in generale? Ov' è quella fusione, quell' eguaglianza nella materia e nelle forme, ov' è quell' andamento che dee imitare nella scenica favola il corso d' un naturale avvenimento? Si vide mai tragedia composta di sonetti in principio, di canzoni in fine, e d' egloghe per entro, a pochi, o molti interlocutori, con legamenti e giuochi di dialogare, e metri più difficili che non prescrisse a sestesso il Sannazaro: il tutto legato, o per meglio dire sconnesso da pochi versi liberi qua e là?

[-54-] E sono egloghe veramente, che interrompono e fan pausa al verso naturale dell' azione, i duetti, terzetti, ed altri pezzi a più voci; cheanzi nelle loro armoniche forme io li chiamerò pas-des-deux cantati. Sì certamente: perchè la continua regolarità nelle botte e risposte, gli assoli, le riprese, gli assieme, il mutuo scherzar di note contro note, è precisamente l' ordine che forma il condimento de' componimenti non vocali della danza. Diffatto in un terzetto della Sposa fedele del Pacini stassi la donna fra due uomini; e ad un certo passo molto bello, fa essa giuocando colla voce ciocchè, se fosse ballerina, corrisponderebbe, peresempio, ad un bilance, ad un ballotte, a due chassée: i due compagni stanno, aspettano, la guardano; poi ad un tratto balzano, s' uniscono a lei con due capriole ed una prolungatissima pirouette. E questa operazione alcun poco dopo tornasi uniformemente a replicare.

Nè voglio che questo giuocoso particolare allontani la mente del Lettore dall' idea generale: che il meccanismo d' un moderno pezzo concertato rilieva così sul totale, che mal si può dopo rientrar in azione, senzachè accada ciocchè a chi sente improvvisamente mancarsi il suolo avanti ai piè, incontrando un piano moltopiù basso.

LX. Aggiungete a questi estrinseci, altri interni vezzi di composizione in siffatti pezzi: e il parlar più persone a parte le stesse parole miracolosamente, senzachè si ascoltino fra loro; ed il venir la turba de' coristi a fare un' ambasciata che si converrebbe ad un solo, e detta da tanti non s' intende; e l' accompagnarsi una parlata colla banda perchè meglio si capisca; e quel perpetuo udirsi all' improvviso canti e suoni di dentro dopo la taciturnità del grave: e questo grave è ridott' oggidì cotanto frastagliato ed a moriente lentezza, che forz' è invocar l' opposto ma più grato eccesso della cabaletta; che con dispendio eziandio del buon senno, venga divertirne; nè manca per fortuna ad ogni pezzo questa canzonetta, che poi dall' attor cantante, dopo una passeggiata all' insù fino alla tela, vienesi a ripetere. "Certe teatrali sinfonie, le quali nel loro principio largo, tetro, lugubre, par che rassembrino altrettante vecchie grame che piangano il morto; quindi nell' inaspettato passaggio ad un allegro precipitoso ridicolosamente buffo, sembra che si trasformino in donnicciuole [-55-] garrule eccetera." Così il Santucci; e ciò può dirsi dell' adagio stiracchiato, e della impertinente cabaletta dei rondò.

E tornando sulle generali, aggiungasi ancora un finale che non è finale, perchè posto sempre ammezzo l' azione, il quale corona così l' atto primo, da introdurre nel mezzo di quella un' enorme divisione, e togliere ogn' addentellato per attaccare con buona presa il secondo; nonchè la sconnessione di tale ultim' atto, del quale i rondò formano un' accademia di colossali monologhi; ed il più solenne viene d' ordinario, esaurita l' azione, come l' introduzione cantossi primachè questa fosse incominciata.

Tali poeti di mestiere fecer consistere l' ufficio loro servilissimo verso il compositor di musica nel dargli concetti per arie, quasi appendici al dialogo già esaurito, impastati d' insignificanti luoghi comuni, de' quali l' artificio principale consiste nel far che i cantanti raccontino a sestessi tutti gli effetti generalissimi morali e fisici che in lor produce la passione da cui sono presi: cosa perciò inutilissima, e contraria allo stato d' uomo in violenta situazione, che non si perde a ragionar dottamente sulla metafisica degli affetti, o sui fisici moti del cuore, del sangue, delle viscere. Questo grande secreto di preparare al maestro parole atte a svolgervi sopra il multiplice musicale pensiero, nonchè le forme suscettive de' scientifici accordamenti, consiste nell' introdurre certi concetti di convenzione, che poco dicendo in sestessi, lascino dir il più alle note, che, nulla dipendendo, nulla influendo sull' azione, indifferente cosa riesca eziandio il soffermarsi, insistere, addormentarsi sovr' essi concetti.

LXI. Ma il maggior difetto vien dalla sazievole uniformità d' ogn' opera; perchè, composte tutte di parti d' una determinata struttura, e delle stessissime situazioni e parole, risolvesi poi la maggiore importanza in un assieme tutto colle stesse situazioni, colle stesse frasi, onde tutte l' opere sono sorelle di gemelli sembianti. Veduta una le conosci tutte. E l' uniformità de' libretti convien che trasfondasi negli spartiti, quindi tutte le musiche moderne hanno una sola fisonomia.

       Fra i Coristi Sacerdoti,
         Alza il Basso al Nume voti.
[-56-]   Giunge il Duce trionfale.
         De la reggia da le scale
         Gli esce in contro la Regina
         Co la bella cavatina.
         Cala il Musico dal monte,
         Gorgheggiando; e il bosco, il fonte
         Salutando, a lui risponde
         Eco ascosa fra le fronde.
         Ma il Tenore sbuca, e: A l' armi!
         Su, Custodi, si disarmi.-
         Eh! paura non mi fai.-
         Palpitare or or dovrai.-
         Quale orror! tona, e balena;
         Si scatena orchestra piena.-
         Il furor de la tempesta
         Mi fa in giro andar la testa;
         Trema il suolo, mugghia il mar:
         Va mia mente a naufragar.-
         Coro, e Attore secondario
         Fan del primo atto il sommario.
         Il Tenor, di trombe al suono,
         La grand' aria canta in trono.
         De la Donna ecco il rondò;
         Nè senz' arpe dir lo può,
         Paggi, Sèguito, Pastori,
         Di Donzelle, e Bardi i Cori.
         Canta il Musico in catene.
         La Regina sopravviene
         Per sentier oscuro e stretto;
         Flebilissimo duetto.-
         Caro ben: - Dolce consorte:-
         Io ti perdo:- Io vado a morte.-
         Gran strappata di violino:
         Rumor dentro. È più vicino:
         Crolla il muro. Ardenti faci;
         Il Tenore co' Seguaci.
         Ma già il dramma al fine inchina.-
         Dammi, o cara, la manina.-
         Terminati son gli affanni;
         Testimoni i vuoti scanni
         Fian di mia felicità.-
[-57-]   Chi al teatro lunge sta,
         Quai romiti o certosini,
         Legga, e giuro per Rossini,
         Che di lui fia meno pratico
         Del novel melodrammatico.
         Strano aborto chi abbonato
         A la Scala un lustro è andato.
A queste parole parmi veder già i filarmonici partigiani dell' opera odierna non più contenersi, e insorgere contro la mia ignoranza, che rivolge appunto le censure a ciò che forma la più solenne prova del perfezionamento cui giunta è la scientific' arte musicale; ed esserne la prova più solenne un gran finale di prim' atto. Ma se in ogn' opera è siffatto finale, se nelle forme loro principali son egualissimi, se in tutti è tutto, come non vedere in questa parte appunto l' opera sempre la stessa? Si; ma l' immensa varietà d' accordamenti, che co' sussidj della scienza può inventar l' ingegno d' un vero musicografo, non ha essa sorgenti inesauribili? Rispondo che ciò non è, a termini di bell' arti, intieramente vero, nè distrugge poi nell' atto pratico la precedente regola mia. Suppongansi parecchi grandissimi mazzi di fiori, in forma di coni, simili a quelle palme variopinte che pongonsi in altrettanti vasi per ornamento sugli altari. Le centinaja di fiorellini onde sono fra varie foglie folti e densi, sieno pure per mano di Glicera disposti in diverse figure, combinazioni, contrapposizioni di colori, e di forme, saranno pur sempre nel loro effetto di contemplarli in intiero, ciascheduno in semedesimo, e tutti l' uno rispettivamente all' altro, quasi la stessa cosa, ad onta della lor elementare moltiplicità nelle parti, della finissima varietà con cui la natura tessè ogni fiore, e della pittoresca armonia onde l' arte li dispose. Ma questi non sono finalmente che lavori destinati all' ornamento, in cui l' euritmico artificio dee apparire. Non così della drammatica imitazione. Conchiudo perciò che i finali, ancora con una subalterna variazione negli elementi e parti minute, a chi specialmente parecchi ne udì, ricordano sempre l' imagine dell' uniformità, e l' idea d' un' opera dell' arte, perchè tutti rappresentano quello stesso metodo, quell' incominciamento, quell' adagio in più guise ripetuto e distribuito fra moltissimi [-58-] confabulanti, quella stretta, quell' ostinazione d' istrumenti, quell' incalzare, quello sforzare fin al colmo di fragorosa armonia. Solo l' imitazione della natura ha il pregio di non saziar mai; solo la rappresentazione delle passioni commuove in una maniera sempre novella.

L' opera rossiniana sta stretta fralla metastasiana e fralla belliniana. Se quest' ultima esclude i concertamenti nei dialoghi, ed i figurati andirivieni nel canto lirico, e se perciò appunto non è più nè opera, nè musica, cosa sarà dell' opera metastasiana, che non ha concerti punto nè poco? Erano dunque ignorantissimi que' maestri del passato secolo, venerati come padri dell' arte, perchè non iscrissero quartetti o finaloni! Da questo quesito però si guardano i critici a più potere. Io il feci verbalmente ad uno che inveiva contro ai musici recenti, nonpiù capaci di compor un operone rossiniano. E chè, soggiuns' io, se loro si desse un libretto del Metastasio? Peggio, rispose; allora si vorebbe più fantasia. Udiste? L' opera di musica lirica e figurata è il non più oltre dell' arte: ma però del valore che trionfa d' astruse difficoltà è al mondo un valor più sublime, il quale naviga, dirò così, un mar senza venti, Marte proprio. Egli è il valore della fantasia; quella che, come i poeti, fa i musici ancora.

LXII. Gustate, tornate a gustare: cotali ricchezze dovevano pure venir a sazietà pella loro stessa dovizia. Eppure dicevasi questa essere la musica di genio del secolo; ed essere ben tale quella sua raffinatezza quale a questo secolo perfezionato si conviene. Nè riflettevano coloro che così favellavano, il gusto moderno volere nelle cose teatrali il patetico, e le così dette passioni forti, ed eccedere piuttosto in questo suo genio fino a compiacersi del romanticismo. Ma allorchè un autore sovrano, un di que' talenti rari che spuntano nelle bell' arti a certe epoche solamente, fa vedere opere di straordinario valor e bellezza di alcuna sua invenzione e stile particolare, incontanente il mondo abbagliato e innamorato della beltà, come beltà, persuade a sestesso che l' assaporata e gustata esca fia il suo proprio gusto. Il mondo acquista sempre quel gusto che altri con opere luminose o abbaglianti ha l' arte di fargli prendere. Quindi ciocchè prima non era per sestesso il piacere del popolo, e perfino ciocchè dovrebb' esserlo meno, [-59-] diviene subitamente sua delizia, soltantochè in tal genere gli sia offerto, maneggiato da mano maestra, un pascolo lusinghevole, quando massimamente i tempi non producano chi ministrar gli sappia opposti più sani dilettamenti. Ma qualora improvvisamente apparisca questo tale, la scena in un sùbito cambierà d' aspetto. Nè ad operare siffatto cambiamento richiedesi sempre un maggior successore, ciocchè sarebbe impossibile sotto il dominio d' un ingegno, cui dubitasi quasi se natura possa riprodurne un secondo; ma fortunatamente, nella causa migliore, forze minori sono sufficienti. Perchè allora il bello, quand' è anche il buono, piace più del bellissimo irregolare; e la bontà dell' opera supplisce largamente alle forze dell' autore minori di lei. Ecco la mia proposizione; applichiamola ai fatti.

Il Santucci (Dissertazioni sulla musica, Lucca 1828) nel maggior colmo della scuola de' rossiniani, non temette affermare: "Hanno sì fattamente impoverita la musica, che sembra non avere la meschina che un solo stile". Questo paradosso a spiegare serve quanto ho detto. E nella stessa terza dissertazione attribuisce ancor a quella scuola, che or dai nemici della facilità belliniana chiamasi scientifica, il render pigri ad un non necessario studio i giovani. Ma il più osservabile si è ciò che segue: "Se non che in altra maniera potrebbesi ottenere il desiderato passaggio dal cattivo al buon gusto (io avrei detto più cautamente dal bello, al buono e bello), senza aspettarlo dal tempo. Ma questo modo non è in nostro potere: si vuole a tanto un dono della natura benevola. Uno di que' genj straordinarj, di cui, quando a lei è piaciuto, ha fatto di tanto in tanto regalo alla nostra Italia.... questo novello genio, figlio prediletto d' una madre savia e di gusto squisitissimo, tosto che comparisse, saria egli solo capace d' opporsi a costoro con felice successo, mercè che da lui si contrapporrebbero talenti a talenti, gusto a gusto". È cosa curiosa che io nella stessa epoca scriveva la stessa cosa negli Annali di Reggio! Tanto è vero che prodigiosamente gli uomini concorrono nelle stesse sentenze, quando han per fondamento la verità.

LXIII. Il comico e melodrammatico autore Gaetano Barbieri, nel suo giornale: I teatri, 1827 a pagina 441, accese una tesi, colla quale introduceva le testimonianze di parecchi scrittori, che in tempi diversi colparono la musica d' esser [-60-] arrivata all' eccesso dell' intemperanza negli ornamenti, e allontanatasi a vicenda dalla ragionevolezza, e prima sua lodevole semplicità: per inferirne poi, che siccome que' giudizj venivan contraddetti da successivi biasimi d' una più recente musica, lodando la passata, così poter accadere della presente, sebbene sembri questa al culmine, oltre cui non possa omai più sollevarsi. Ed a me faceva l' onore di citarmi ultimo, allegando mie opinioni, che all' uopo ebbi inserite negli Annali del teatro di Reggio. Invitava poscia in certa guisa le penne degli amatori dell' arte ad esercitarsi sopra questo campo, ch' egli lasciava aperto, per decidere sul quesito: se in tanta instabilità del bello nella musica si debba considerare capace ancora d' un bello d' arte invariabile; ovvero sia instabile di sua natura, e sottopost' all' arbitrio della moda: trista supposizione, che le attribuirebbe un carattere inferiore alle bell' arti! La soluzione più positiva del quesito vedrassi nel libro secondo, al numero XXIV. Su quest' invito composi una dissertazioncella, che, lasciata poscia inedita da quel Giornale, io stesso inserii a ripieno più tardi in un de' miei Annali teatrali reggiani. Però mi è testimone il Barbieri ch' io l' aveva composta fin dal 1827, un momento prima dell' apparizione del Pirata, in cui la sola Milano ravvisò allora con solenne saggio la novella belliniana scuola. In quel commentario spiegai liberamente la mia opinione: che l' essere in general onore la musica fastosissima d' ornamenti, e venir quindi chiamata propria di questo secol gentile, non era che illusione prodotta dallo straordinario ingegno di Quegli che la pose in onore, ed al contrario dalla mancanza di chi seguisse la miglior e più legittima strada; ma qualora sorgesse un autore di egual valore, che si segnalasse nel metodo più ragionevole imitativo, dovrebbe necessariamente trionfare in grazia della sua causa migliore, ed anche per tal ragione, sebben con forze in sestesse minori, riportar forse tuttavia la palma. Questo fu presagir il Bellini, e n' insuperbirei, se non sapessi che quanto allora io scriveva era troppo lontano dalle mie speranze. Infatti cotali ragionamenti che si leggon da pochi, sono come morte immagini e dimenticate, a paragon dell' universale consentimento che fa eco alle vive prove date da un autore come il Rossini, che ne' due emisferj distese il suo nome, facendo [-61-] le sue note diventare una necessaria delizia universale. Altro non richiedevasi dunque che fatti a vincer i fatti, e più d' ogni ragionamento valse novello esempio dato da novello giovin compositore.

LXIV. L' amabile Vincenzo Bellini, dopo due saggi a Napoli, ove fu allievo del reale Conservatorio, uno scuolastico nell' Adelson e Salvini, l' altro giovanile nella Bianca e Fernando, giunse pressochè ignoto a Milano nel 1827. I massimi teatri son avvezzi veder frequentemente nascere spartiti, e dopo il primo corso di recitazioni, o dopo una sola andarne a' polverosi archivj, come magnifici abiti di corte dopo una gala van al contrario rivenduti per poco alle scene. Con questa solita disposizione assistettero i Milanesi alla prima sposizione del Pirata. Non ripercuoteva già da qualche tempo il luminare del Rossini che luce riflessa sugl' imitatori suoi, che, come quella del Sole sul lunar disco, biancheggiava, non riscaldava. Invano s' invocava, nè però speravasi, nuovità. Apparì questa finalmente, forse non più da chi spesso ne fu deluso aspettata. Ecco una musica che pàrlati al cuore, uno stile figlio di sestesso, un molodramma sopratutto ch' è vera tragic' azione.

LXV. Al Pirata succedette la Straniera, cagione di minor soprendimento, di maggior dilettamento, e di compiacimento, che quella prim' opera non fosse stata pel giovin Autore, come di tant' altri accadde, un unico sforzo di fantasia. Dicevasi però: Bellini è il maestro di Milano, e dee poi gli allori a' campioni singolari cui ha avuto in sorte commetter l' esecuzione de' melodrammi suoi. Ma poscia in Venezia co' Capuleti e Montecchi eccitò, con minori sussidj eguale entusiasmo. Quindi, autor della Sonnambula, e della Norma poscia, il maestro di Milano fu musicografo universale, perchè la sua musica parla al cuore, perchè gli spartiti suoi sono melodrammi non musiche. La Norma specialmente, nonmai udita abbastanza, diventò l' opera di tutti i teatri, di tutti gli attori. Avremo occasione di parlarne a lungo. Inquanto ai Capuleti e Montecchi, benchè fortunatissimi, cedono alla Straniera, facendo un passo indietro dalla nuova maniera belliniana, e dall' eguaglianza di stile, uno, semplice, tragico, unito. Il finale del primo atto è un amabile delirio; la finale scena delle tombe n' era la cosa più sublime; infatti i Virtuosi l' hanno [-62-] persempre tolta via. La commedia della Sonnambula è una chimera, e se n' uscì una musica soavissima, fu quanto potevasene aspettare. Così il Poeta avesse data poesia pastorale, semplice, tenera, come la musica è più sobria e ragionevole questa volta del poema!

Co' Puritani trionfò senza il poeta Romani, e tolse agli avversarj suoi quest' altro dubbio; e trionfò sull' animo de' Francesi; nè però questo componimento, che li rendette concordi agl' Italiani intorno la gloria meritata dal Bellini, piace altrettanto a noi. Dicono certuni, perchè di stile oltremontano. Non si ricordano più aver pronunciato, che la musica di questo Autore fu sempre oltremontana; e che gli stranieri sono i primi a volere stile italiano nelle opere italiane!

LXVI. Fu, dissi, inaspettata e cara nuovità riveder primieramente la poesia davanti alla musica, e questa non d' altro occupata che del dar espressione ad un drammatico poema. Il Romani, un de' poeti che scrivevano pel teatro, era quasi ignoto perfino come lirico eccellente. Che i suoi libretti fossero gli unici scritti di non triviale versificazione nessuno accorgevasi, o se 'n curava. Se Apollo il fece poeta, il Bellini gli diede occasione d' apparir tale in fatto sulle musicali scene. A lui dee il Romani l' essere stato poscia creduto necessario, e quindi meglio e più decorosamente pagato; e l' usanza introdotta diventò in sèguito consuetudine, quelle volte ancora ch' egli non iscrisse pelle musiche belliniane, ma per quelle cui proseguiva, come prima, esser inutile un nobile ed esteso poetico componimento.

LXVII. Piacque nel Pirata primieramente l' estendersi l' importanza musicale a' recitativi, sollevati alla dovizia delle arie, ed in queste abbassarsi alquanto, contro la comune usanza, perchè naturale ne fosse il passaggio. La tirannica baldanza dell' orchestra raffrenata, e depressa ad un sommesso accompagnamento, ad un' eco patetica delle passioni, per riprendere poscia il suo vigore, e quella vivacità cui sono troppo assuefatte l' orecchie moderne, allorchè ad intervalli frapponendosi al canto, non lo disturba; e così pure accompagnare non cantate azioni. La volubilità delle cantilene dissimulata, sfumata, rotta, perchè il canto degl' interlocutori non sembri quello de' citaredi. Nei duetti, [-63-] e ne' terzetti non richieste al poeta quelle rigorose forme che mettono a tormento i concetti de' dialoganti; ma accettati, anzi preferiti metri liberi e naturali, quai convengon meglio al famigliar discorrere. Finalmente i pezzi concertati ed il coral finale del prim' atto tolti via, o regolati con leggi drammatiche, mormorandone molto i musicomaniaci, e gridando all' ignoranza del Bellini che sfuggiva que' cimenti, nei quali si conosce la scienza d' un maestro. Ma fosse pur anche così, chè giova saper fare una cosa, cui introdur nel dramma per mostrar fasto di scienza, ed allettar sorprendendo fuor di luogo, è operar contro lo scopo principale della drammatica ragione? Ignoranza in tal caso felice! Ma che non fosse questa la vera cagione si conosce da opposti esempj d' altri maestri in quella così detta scienziata parte debolissimi, che non però si son restati dal comporre finaloni, accordamenti, pezzi concertati a bizeffe, languidi e scolorati così, che nessun dirà non potesse anco il Bellini fabbricar di cotali. Mi sarebbe piaciuto però, che in un' opera sola introdotto avesse uno di que' finali, ond' ogni cattivo o buon maestro fuor di lui non s' attentò da qualche tempo lasciar senza il prim' atto, per potere egli allora, come dice l' Alfieri, disprezzar senza contraddizione un superbo fasto di cui si è in possesso. Ma per altra via ha mostrato un sapere più proprio dell' arte. Quello vo' dire, col quale ha tessuti alcuni adagio, ricavandone grandissimo effetto drammatico, i quali esaminerem con più profitto dove serviranno di modelli per insegnar a trattare questa parte del canto.

Eziandio le cabalette, se credette non poterne far senza il male avvezzato genio comune, rivols' egli a muovere il cuore mirabilmente, quando sembravano destinate solo a solleticar l' orecchie; quindi contrastò ad ogn' altro la palma in questo genere dilettevole, che divenne per lui dilettevolmente patetico.

Nuovo mostrossi pur ne' cori. Chè non fece il Rossini, ministro primiero della moda musicale, in questa parte cotanto di moda? Ma il Bellini tenne diverso sentiero. Fu il solo ch' ebbe cura di far sentire le parole mediante facili accordamenti, ed il poco lavorìo in tal caso piacque più del molto, perchè maggiormente drammatico; oltrechè trass' egli partito d' imitazione dai naturali effetti che producon [-64-] le voci quando si trovino in posizioni diverse. Cose facili ad imitarsi, perchè tolta dal vero: si direbbe dopo il primo esempio; ma l' esempio stesso forma nelle bell' arti imitatrici la maggior lode del primo imitatore.

Ebbe poi un' arte singolare nel metter in bel lume i suoi cantanti, alcuni de' quali, sebben eccelsi, non appariron mai così grandi, ed altri si fecer superiori a semedesimi, quantunque parecchi d' essi non amasser la musica belliniana, che non dava, diceano, ad un cantante il campo di farsi conoscer valente nel bel canto italiano; come quella che piuttosto attendeva ricavar dal canto l' effetto della drammatica parola: ingrati certamente in dir male del metodo belliniano, se li fè parer perciò quali non apparvero mai mercè l' armonie d' altra piucchè musicale scuola!

LXVIII. Molti e diversi sono stati i giudicj intorno al novello musicografo, come accade d' ogni innovatore: chi applaudisce la nuovità perchè tale; chi 'nsorge a disapprovare, perchè nuovità che ne costringe ad allontanarci da quanto ci era diventato abitudine di compiacimento. Alcuni vogliono il Bellini ristaurator dell' antica scuola italiana, ed altri lo chiamano rivale contradditore alla maniera rossiniana comunemente ricevuta. È chi lo grida autor della scandalosa introduzione d' un canto parlante straniero, a danno di quella preziosa prerogativa del bel canto italiano, che forma la delizia fin degli stranieri, pregio caratteristico di nostra nazione; e citan l' autorità di que' stranieri stessi, che, coltivando cotanto coll' opere nelle lor lingue la semplice imitazion drammatica, voglion poi assolutamente l' opera italiana presti facile divertimento d' un' indifferente accademia drammatica.

LXIX. Vanno ripieni i libri de' didascalici, e dei critici d' invettive, di sarcasmi contro le mostruosità dell' opera, in cui la ragion e la poesia sono messe al fondo dalla musica e dalle follie de' musici. Sorge appena un saggio maestro, che s' accinge alla tanto invocata riformazione, o, pieno di zelo, almeno la desidera, ed ecco deridersi l' impresa, e fino l' intenzione dell' impresa, e dirsi esser questo un insidiare la patria prerogativa del così detto bel canto, per cogliere il fantasma di riformare il melodramma, che fu, sarà, dee esser, è bene che sia nullaltro che un mostro: precise parole d' uno fra questi critici. Per buona sorte sono [-65-] troppo fondate le prime dottrine, perchè quest' ultima sentenza possa formar ver' autorità. Che il riscattamento del melodramma alla ragione debbasi desiderare, niuno saprebbe con buon senno letterario negare; che si possa sperare o conseguire, è lecito disputare; che il Bellini poi, per difetto dell' ordine impreso, o scarsezza di forze a tanta opera, non sia giunto ad ottenerlo, questa sarebbe cosa da produr in noi non altro che dispiacimento, come nostro n' è il danno. Invece il maggior oppositore del Bellini (Censore dei teatri 1834, pagina 58) dice: "La grandiosa riforma della declamazione armonica, della poesia cioè trasformata in musica, e della musica diventata poesia." E altrove "si canti il recitativo, si reciti il canto." Rimossa l' ironia, queste sentenze sono il canone fondamentale dell' arte, nonchè il più grand' elogio del Bellini, il quale, giusta il senso stretto della critica, avrebbe raggiunta quella meta, che parve lungamente disperata.

È fama che in un giorno, non so se di febbrajo o di marzo, nè di quale anno, Carnevale muovesse agre rampogne contro Quaresima, che assalitolo d' improvviso, gli aveva strappata dal volto la fucata maschera, e di dosso le varie lucenti vesti, onde piucchè ornato er' avviluppato e confuso, lasciandolo così succinto, che sotto poveri panni, il più che di lui appariva eran le scuoperte sue membra. Cui rispose Quaresima: cessa una volta da cotante querele: dovresti anzi ringraziarmi, perchè, se nonpiù comparirai con così assurdo fasto all' insane tue notturne vegghie, o s' anco n' andassi nudo affatto, questo almeno avrai vantaggiato, che nessuno al vederti dirà più: guarda quanto bel pazzo!

Ritornando al nostro discorso, quelle però erano declamazioni, quelle questioni, e critiche delle discordi adunanze, de' gabinetti di filarmonici, de' fogli periodici. Ma il consentimento de' dotti d' ogn' età, i dettàmi dell' arte, la critica de' libri son sempre conformi, durevoli, nè van sottoposti a capriccio di mode, variar di gusto, prevenzione od ossequio per lo stile già stabilito d' alcun applaudito autore; e fan consistere il bello nel buono, e specialmente nel vero metodo drammatico, ch' è l' arte di tutt' i tempo, quand' anche nessun tempo fosse stato così felice e così savio da saperlo adottar e bearsene finqui.

[-66-] LXX. Non è vero, sia detto nè in senso di lode nè di biasimo, che il Bellini facesse rivivere la scuola antica, o trasportasse in Italia la maniera de' stranieri, o pensasse abbatter il simulacro del Rossini, altrimenti che con quell' emulazione, che consiglia i generosi ingegni tentar d' agguagliare un gran classico, correndo diverso del pari original sentiero. E dicevami egli stesso: Non pensai giammai al Rossini, allorchè scrissi, pien dell' idea di compor musica quale il sentimento del mio cuore dettavami, buona o cattiva che fosse per riescirmi: lodevole divisamento, e degno d' un tant' uomo! Nè l' originalità del Bellini consiste tanto nell' avere create musiche segnate coll' impronta d' invenzioni solenni, quanto nella saviezza d' uno stile semplice, imitativo, qual conviene al canto in azione, il chè divien originalità, perchè altri, facendo il contrario, ne lascian a lui solo la palma. Che poi a torto chiamisi questo un por in disusato il così detto bel canto, gloriosa prerogativa delle italiche Muse, dimostrerò a suo luogo teoricamente, allorchè farò vedere aver la sua sede altrove, e non poter esser questa sede nell' opera. Se gli stranieri, in certi casi, tempi e luoghi però, non apprezzarono l' opere dell' Autor nostro quanto in Italia levavan rumore, vuolsi, distinguendo, dimandare: O mostran essi non creder sommo l' ingegno del compositore, o non lodare la maniera de' suoi componimenti. Nel primo caso, non è maraviglia che, coltivandosi da alcuni oltremontani il contrappunto, la difficoltà dell' instrumentazione, la complicatezza degli accordamenti, non ammirin molto chi o non seppe, o credè non dovere, o non seppe nè volle lasciar il piano calle per internarsi in questa intralciata selva. Nel secondo poi, son avvezzi gli stranieri ricrearsi all' opera italiana come ad un' accademia, e persuasi che non possa mai esser altra cosa, molto vorrebbesi a persuaderli d' abbandonar siffatta preoccupazione, ed allora insorgerebbe gelosa rivalità, intendendo esser pregio de' melodrammi loro la tragica ragione, come degl' italici la musicale voluttà.

La musica belliniana è romantica, ed ha la folle lusinga di far diventare tragedia il mostro innato dell' opera! Due censure che si combattono a vicenda. Se alcuni libretti del Romani messi in musica dal Bellini son tratti da' romanzi, la musica non può mai esser romantica in [-67-] sestessa, nemmen qualora il sia la poesia cui s' accompagna. Se Vincenzo col canto appassionato rendette i sentimenti delle passioni, la sua musica è tragica non romanzesca. Come ci accordiam bene noi critici! Io ne' miei Annali del teatro di Reggio, prim' anco che il Bellini comparisse, chiamai romantica la musica de' Rossinianisti, nè credetti dir male, se romanticismo può in certo aspetto chiamarsi tuttociò che lussureggia non drammaticamente, e si discosta dalle regole che prescrive la ragione della tragic' arte.

Non m' arresterò alla censura del poco valor della musica belliniana sul cembalo, quand' ottiene cotanto il suo vero effetto nel teatro; massimamente che il fatto ha in gran parte contraddetto, perchè da' spartiti suoi, quanto d' altri mai, si son tratti poi componimenti d' istrumentale imitazione delle vocali melodie, temi di artificiali variazioni, e perfino suonate per bande militari oltremontane, in Italia almeno. Nè m' arresterò sui motivi triviali, o che ricordano popolaresche canzoni, o cadono talvolta nel genere buffo: trista condizione delle opere umane, se non potè emanciparsi da un certo chè di così contrarj difetti costui, il qual in generale ristaurò, introdusse, coltivò cotanto il tragico stile! Peraltro è minor peccato errare per debolezza che per ambiziosa volontà; ed io estimo esser riprovevole tuttociò che si allontana dalla drammatica ragione, quindi dalla tragica verità, ossieno le involontarie cadute dell' uno, ossieno i deliranti voli degli altri pe' spazj immaginarj di chimeric' armonia.

LXXI. Ben diversi giudicj, e da par suo, proferì un uom autorevole quanto tutti gli altri critici insieme, il Rossini, più grande nella modestia, e nella rara virtù di non esser sottoposto alla tirannia dell' amor proprio, che pella sua musica stessa. Venendo da Parigi a Milano udì novello il Pirata. Volle egli stesso andar in traccia dell' Autore, ed abbracciandolo, gli disse quelle memorabili e notissime parole: Bravo giovanetto, voi cominciate ov' altri finisce! Alluse forse a sè? Infatti negli ultimi suoi oltremontani componimenti si died' egli a coltivar una maniera più semplice, più imitativa, e robusta. Oh l' avesse fatto sempre, e con tanto zelo, quanto il Bellini! Qual volo, se le sue eran l' ali dell' aquila, e quelle dell' altro a paragone [-68-] le penne della colomba! Io m' ebbi sempre opinione che più grande ancora sarebbe stato il Pesarese, ove il suo ingegno rivolto avesse intieramente ad una sobria, e robusta drammatica dipintura degli affetti e delle cose; e il dico per intimo convincimento, e sull' osservazione de' saggi datine qua e là, e per conoscimento della sua musicale potenza, cui senz' avvedersene, troppo ristringono que' mali panegiristi suoi, che non potendoselo figurare diverso da quello che maggiormente apparisce, lo vorrebbero choreis aptior et jocis, ludoque: pugnis non sat idoneus.

       Atto a gli scherzi armonici,
         E a l' inezie canore:
         D' eccelsi eroi, di tragici
         Casi inegual pittore.
Ognun sa quale amicizia strinse poi questi due Grandi, fra cui rimane oggi diviso il regno musicale, e come il Rossini a Parigi, su quelle scene che dirigeva, preferisse a' proprj capilavori le applaudite più recenti opere del suo Rivale alla gloria, e quali pietosi ufficj rendesse in morte a colui, che sembrava dovesse succedergli allo scettro melodrammatico. Tanto va errato l' umano antivedere!

LXXII. Certo ridicolo paralello fra 'l Rossini ed il Bellini, letto pur ora, mi convince semprepiù che sarebbe malaproposito qui un confronto fra questi benchè capi delle due scuole. Quel cotale, con luoghi comuni e fraseggiare di romanzo, si figura di paragonare un Pindaro ad un Orazio, un Raffaello con un Correggio. A me sembra che sarebbe come decidere fra un diamante ed una spada, un cocchio ed una casa, una rosa ed un pan fresco. Se questi sembrassero barocchi concetti, odasi quel Lelio del sentimento. La musica del Bellini è delicata vergine; La preghiera della sera; Il prisma del dolore; Un castello seminato di ciotti e dumi. Quella poi del Rossini all' incontro è mille cose immaginose, luminose, impetuose. Ma invece di queste idee da febbricitanti, che nulla significano, e di questo stile da lettere di don Chisciotte a Dulcinea, stile disonore del secolo in cui viviamo, non sarebbe meglio dir alla carlona, con verità poco galanti, che l' uno fu, per quanto potè, musicografo drammatico, come l' altro il più delle volte, volontariamente antidrammatico; ma che questi sortì un mostruoso talento, laddove quegli a [-69-] paragone fu secondario ingegno. Così veggiamo in un soldato lodarsi la modestia e l' ubbidienza nell' altro il valor ed il coraggio, che ancora eccede, in grazia del quale vengono perdonate certe taccie frequenti fuori della militare disciplina. Non sarebbe bella cosa che un terzo soldato avesse la castigatezza del primo, la prodezza del secondo? Ma Natura divide i doni suoi, di generi diversi e in quantità diverse. Queste verità debbonsi dir chiare, non infingere che il Rossini ed il Bellini sieno due drammatici, che, come accade, per opposte vie, sublime l' una, patetica l' altra tendano con pari forze, con egual volere alla tragica meta. Il Rossini primieramente, armonizzando poesia antidrammatiche e cattive, e quasi compiacendosene, forse mostrando anche in ciò più straordinario ingegno, tolse a sè il fondamento d' essere tragico musicografo. Risplendette raro talento musicale; ma nell' applicazione dell' arte sua alla tragedia, solamente a tratti, in un certo aspetto, e indirettamente, fece conoscere, come non era da dubitarsi, che sapeva esser grande anche in ciò, e sarebbe stato vieppiù grande ancora. In ogni modo l' effetto fu generalmente: compor musica vivacissima, datane in astratto l' occasione dai singoli drammi, che per sestessi avrebbero esclusa la possibiltà di farne tragiche melopee.

Bisogna esser giusti. Il Santucci, provando i difetti della musica moderna, rende indirettamente equivoco il classico valore del gran Maestro senza nominarlo. Io penso che giammai più vasto inventore avesse l' arte. Involontarj difetti, deviamenti volontarj dal buon sentiero del classicismo sono cose estrinseche alla potenza dell' ingegno. L' abito non fa il monaco: è detto volgare. L' Ariosto potrebbe andarne deplorabilmente infiorato de' mali fiori del Marini, ed esser l' Ariosto, ed il Marino ridotto al purismo, non peserebbe mai che un mezzo Ariosto, chechè dicansi alcuni, cui gli stessi grandi diffetti illudono a sognare grandi eccellenze.

Non è vero il dir del Santucci, che àmisi la musica di fracasso, perchè i nostri sono tempi di fracasso. Ma non in questo genere materialmente. I grandi pubblici sconvolgimenti; gli scuoprimenti che fan andare a vele gonfie il commercio; le vaste fortune innalzate e presto rovesciate; duelli, e suicidj: ecco il tumulto del secolo, ma tumulto [-70-] non da esprimersi con gran colpi d' istrumenti e concertamento di suoni. Un altro scrittore confortava il Bellini, darsi all' imitazione del metodo rossiniano, giacchè non si poteva dire che non fosse buon metodo. Al contrario, direi: valorosissimo il campione in men che santa causa! Il Bellini poi fu secondario campione, in causa ottima. Che se ottima anco non apparisse nell' opere sue, tale sarebbe in sestessa, qualora trattata da più istruito, e veramente classico autore. Veggasi da ciò se si può far ragionevole raffrontamento fra scuola e scuola, fra Compositor e Compositore. Il genere della musica teatrale non è, non può esser che un solo. Il Rossini col suo sommo, e in un vivace estro lo sorvolò pe' spazj aerei, anzichè discendere sul medesimo e tranquillamente tenerlo. Il Bellini seguì quel genere, ma al giudizio di chi severamente il giudichi, ne rimase inferiore: colpa nongià del buon volere, ma di mediocre vocazione o di poco profondi studj: parlo come fossi un suo avverso censore. Manca dunque tuttavia il Rossini della fredda ragion drammatica, ed il Bellini di classico peso: manca insomma fra questi due il terzo che sia peresempio un Virgilio nella musica, in cui non si sappia dir se maggiore la poetica venustà, o la poetica potenza: manca, dissi, a formare nella musica moderna la vera perfezione di bell' arte imitativa. Questi sono i paralelli, anche negativamente, da farsi con quella rude verità colla quale ne' libri parlasi ai posteri; e gli altri officiosi, che, come la musica fiorita, nulla dicono o concludono, rimangansi transitorj ne' giornali per opera de' cortigiani di Pindo.

Ma mi avvertono sapienti Maestri che il Bellini non ebbe una maniera, giusta le musicali dottrine, diversa essenzialmente dalla scuola moderna, nè fu tale da riprodur e rinfrescare l' antica, e molto meno da fabbricarne una novella. Non saprei, nè vorrei oppormi; e concederò ancora ch' egli sia inferiore agli antichi, agli stranieri, al Rossini; ma se l' opere sue non distano dalle ordinarie ne' riti d' arte musicale, sono assai diverse dal comune drammaticamente. E sosterrò in tale senso, con tutta diversa questione, che egli operò più pella poesia che pella musica. Per quella fece veramente prodigi, se riflettasi al non esser egli stato menomamente uom di lettere, a all' aver trovate le cose [-71-] drammatiche in cotal ruina, che tutti ne disperavano un miglioramento, amenochè non fosse apparso un Orfeo novello colla cetra in mano.

LXXIII. Dunque il Bellini a fronte del suo Predecessore, è ingegno secondario. E come giuns' egli a dominar sulle scene, e stabilire quel suo stile, ad onta della preoccupazione per un Compositore straordinario invero, che aveva immedesimata la musica in sestesso, il perchè giuravasi non poter giammai questo regno scadere, nè di questo allettamento potere far senza l' orecchie nostre? Eppur accadde: e comuni, per non dir universali, sono stati gli esempj, che dopo la Norma, ed i Capuleti, andasser a terra, nonchè altri spartiti, il sublime Mosè, L' assedio di Corinto, e la felice Semiramide stessa. E permezzo di quali attori? Di quelli educati alle accademiche musiche del rossinianismo, diventati poscia in un sùbito, come per prodigio, declamatori vigorosi, attori prestanti. Perciò alludendo a quanto narrai poco fà intorno alla morte del Bellini, sia detto qui solo per ischerzo:

     Al suo minor Rival pietoso avello
        L' immortale Rossini erge, e da quello:
     Serba Virtude a belle opre mercede!
        Già la musica sua rinascer vede.
Dunque qualor un novello compositore collochi il suo simulacro sull' altare ov' altro massimo autor è generalmente venerato, convien dire ch' egli sia maggior ingegno, o che scriva in un genere più teatrale. O l' ingegno dell' autore, o la qualità della cosa operar debbono il cambiamento. Ecco dilemma: o il Bellini sommo classico, o quella sua è la verace maniera. S' egli non è classico, anzi se l' ingegno suo assai modiocre, maggior trionfo ne viene alla mia sentenza in pro del genere più sano e più drammatico della musica. Dunque ripeterò qui il mio pronostico: che lo stile de' fiori, cui chiamerò ultromusicale, ceder dee il campo, e perdere la maggior parte degli ammiratori, subitochè gli comparisca a fronte quello dell' imitazion, e delle passioni, nonsolo qualora sia maneggiato con pari eccellenza, ma eziandio per opera di men poderoso ingegno. Prenda chi vuole l' altra proposizione: io m' appiglio più volontieri a questa.

[-72-] LXXIV. Credo che nessuno da queste maniere di estimare mi crederà un cieco fautore del Cataniese, perchè tendono meno ad esaltare l' ingegno dell' innuovatore, che lo zelo dell' innuovazione. Tuttavia il Bellini, leggendo simili mie opinioni intorno all' una e l' altra cosa entro gli Annali reggiani, ove nel 1831 favellai della Straniera, ne fu così contento, che scusandomigli di non aver fatti i soliti panegirici, m' interruppe, dicendo: Più di qualunque lode altrui mi piacciono queste critiche, perchè han carattere di sincerità, nè come quelle di certuni, son dettate da mal celata animosità. Io non mi estimai unqua un classico compositore; bensì se qualche lode aspettavami dalle mie fatiche, l' attendea dall' altrui riconoscenza allo zelo di donar al pubblico una musica del genere patetico, che fermo sono nell' estimare il migliore. Ov' io non sia da tanto di riescire in quest' impresa, desidero di cuore ch' altri con maggiore ingegno la compia. Ma vedete il mal guiderdone che spesso ne raccolgo, e quanto è difficile contentar tutt' i gusti! Ecco un foglio francese che mi chiama l' abbreviatore. Ed io credetti far bell' opera coltivando quella brevità tanto inculcata nelle bell' arti, che affrettasi verso il fine, e quella semplicità musicale, che si conviene a secondar l' andamento delle passioni, le quali son nemiche delle ripetizioni, e d' uno stile che ripiegandosi ritarda sestesso!

LXXV. Ma la facilità, o la pretesa trivialità del Bellini, apparì imparte difficoltà somma dal non esser alcuno riescito, o dal non aver osato seguir quella sua scuola che morì con lui. Infatti le scientifiche difficoltà si possono posseder collo studio, e certi metodi apparar coll' arte: le quali cose si converton poscia in facilità, avendo stabili norme, come vedrem di nuovo; ma nulla è più difficile che un comporre leggiero a seconda della poesia, ed un lavorar quadri, dirò così, a mezze tinte.

S' egli vivea lunga vita, quale prometteva la sua giovinezza, sebbene non prodigo de' suoi sudati componimenti, (dicevami: Ammiro chi schicchera spartiti sopra spartiti; a me voglionsi tre cose: tempo, fatica, buona poesia) avrebb' egli solo sostenuta la sua scuola come fece per alcuni anni, tantopiù dopo rendutasi omai necessaria, ed avrebbe occupato sicuramente coll' arbitra sua musica il secondo quinquelustre del secolo decimonono. Ma inaridita [-73-] la sorgente, forz' è che Norma e l' altre opere sue, troppo ripetute, anche senza stancare, saziino, e prevalga la necessità delle nuovità. Quindi omai, dopo un sole che brillò benefico e sparì, ecco rimaner viva piucchè mai la scuola contraria, tacendo ancora il Maestro, e nessun altro sapendo temperar con inspirazioni quella sua musica cetra.

Sarebbe uno scherzo purtroppo nonsenza fondamento, che favellasse del Bellini e del Rossini come di duo estinti. Diffatto in quest' ultimo la tenace cessazione dell' invenzioni, qual ne sia cagione, il fa veramente morto all' arte. La schiera de' musicografi, quali capitani minori privi de' supremi duci, erra incerta sulle traccie della luce che tramontò. Tornar al rossinianismo? Non è questa veramente ultima assaporata maniera; e troppo già tentossi precedentemente invano imitarlo. Il bellinismo, facile in sestesso, per incomprensibile fenomeno, non si seppe d' alcuno indovinare: periglioso nella sua medesima facilità! Vassi dunque accozzando un po' dell' uno, un po' dell' altro; ma da questi accozzamenti non si genera mai l' idea composta, che vaglia una sola delle due semplici. Invano si desidera il nuovo, se ne manca perfino il vecchio. Io rido in mestesso, quando risvegliansi le pubbliche speranze all' annuncio d' un' opera nuova per questa sera, e quando la curiosità chiama folla al teatro a udirla. Il componimento è nuovo, ma il modello è sempre quello. La musicalissima regolare e artificiale forma di spartito assorbisce quella che in un dramma semplice sarebbe particolarità d' argomento, come da un conio, qualunque sia la pasta successivamente gettata, uscirà sempre la stessa effigie. Quale nuovità si può attendere da un' opera, che, lavorata sopra perpetuo modello, varia solamente nelle supeficiali foggie secondarie? La tutta musicale ricchezza delle quali ristringe, o ristrignerebbe e spegnerebbe, se ci avesse, il patetico drammatico. Siffatta musica, chechè sia di sua bellezza, alla favola scenica dà una forma morta, e fa che in lei stessa si trasformi. Divien quindi conseco un' orazione, dirò così, musicale, anzi una grande sinfonia figurata, di regolari membra e forme composta, renduta da due grandi orchestre, quella di canti, questa di suoni, delle quali una l' altra seconda, e forse ambedue vicendevolmente, o simultaneamente si combattono. [-74-] Nè dovrà saziare allafine una perpetua complessiva uniformità tanta di superficialmente moltiplici cose? In così grande penuria, il Donizetti, lavorando quanto tutti gli altri assieme, offre alle Muse ecatombe di spartiti. Un inventore propriamente originale, qual ne sia il genere, può solamente appagare il pubblico voto; ma non n' è forse conceduto il dono all' età nostra. Di questi donativi non è sempre generosa la Natura.

La moderna testè accennata caducità delle prime rappresentazioni di opere nuove mi fa risovvenire un piacevole caso avvenuto, che gioverà, per esempio degli altri, qui allegare.

     Ruinavan le folgori, ed in suono
       Roco ruggia dentro a le nubi il tuono.
     Fra 'l battere di grandine pesante,
       Pioggia scendea spessissima, sonante.
     Spinte da' venti impetuosi, l' onde
       Gemean rotte, e sferzavano le sponde.
     Mentre di fuori era sì gran procella,
       Nel teatro apparia l' Opra novella
     Del mastro Don Trombon, e già l' empìa,
       E il fea crollar la grande sinfonia.
     Folgor, tuon, grandin pioggia, e l' onda, e il vento,
       Stetter in forse, e fu pausa un momento;
     Indi fra lor: qual caos! e chi lo move?
       Portiam, portiam nostre contese altrove;
     Fra sì insani fragori, e sì furenti
       Non intendiam noi stessi i nostri accenti.
LXXVI. L' opera, semplice e giovanile a' tempi del Rinuccini, più drammatica che musicale per virtù del Metastasio, tutta musicale e musicalmente accademica nel primo quinquelustre del secolo presente, giunse essa, per mezzo della belliniana scuola, ad accordar l' armoniche delizie co' tragici affetti? In una parola: Il melodramma vero e ragionevole, quello si è del Bellini? O maggior tesoro d' innovazioni, e molto più grande autore, e principalmente prima poeta che musicografo, si richieggon a tanta impresa? Ed è cotal impresa fralle possibilità dell' arte? E conceduto anco tuttociò, troverassi ardire per intraprendere, cooperazione [-75-] per sostenere, buona disposizione per accogliere tutta nuova riformazione?

Si studii per noi d' indagare, in teorica maniera, su quali fondamenti potrebbesi fabbricar il vero, il novello edificio della melotragedia, giusta il disegno offerto dalla Ragione. Quanto poi delle prefate quattro scuole sia da conservare, intrecciar nel nuovo edificio, ed anche a questo servir d' idea e direzione, verrem, ove n' accaderà, a mano a mano esaminando.

FINE DEL LIBRO PRIMO.

[-76-]

[-77-] ARGOMENTO

DEL LIBRO SECONDO

I. Delle qualità generali ad ogni drammatica, e come si rendano particolari nel melodramma. D' un novello metodo melodrammatico, conforme all' idee di ragionevolezza. II. Della drammatica in genere. III. Della melodrammatica in particolare. IV. Definizione del dramma; e del melodramma. V. Vero titolo dell' opera. VI. Soggetto della melotragedia. VII. Non dalle tragedie, dai romanzi, dall' istorie materialmente si dee ricavare. VIII. Utilità del suo particolar carattere. IX. L' argomento sia eroico. X. Il romanticismo non convenir al melodramma particolarmente; XI. del quale contrasta colle forme. XII. Quale poetico genere convengasi al suo bello musicale? XIII. Gli conviene la sublimità del bello ideale. XIV. Non esclude però l' unità e semplicità drammatica. XV. Se potrebbesi cantare la tragedia? e qual differenza da una tragedia cantata al melodramma? XVI. Delle qualità che acquista il dramma mercè l' applicazione della musica. La musica dividesi come la poesia. XVII. La poesia e la musica lirica. XVIII. Carattere, uffizio ad entrambe comune. XIX. Perchè finqui non si scrivesse questa divisione. XX. Quinci nacque l' equivoco fecondo di vana contesa. XXI. È tolta però di mezzo dalla regola suddetta, XXII. che stabilisce la musica drammatica di tutt' i tempi, XXIII. e di tutte le nazioni; XXIV. la musica insomma inalterabile nella poesia. XXV. Così sarebbe sempre stata, se le due arti non si fossero divise giammai. XXVI. Come seguisse siffatta separazione; XXVII. particolarmente nel risorgimento della musica. XXVIII. Riflessioni sovra questa divisione. XXIX. La perfezione d' entrambe nel melodramma sarebbe nell' unirsi esse in un solo autore. XXX. La più plausibile loro cooperazione procederà dal più possibile ravvicinamento d' entrambe. XXXI. Delle parti elementari onde si tesse la melodrammatica versificazione. I piedi della poesia e della musica. XXXII. Quali fossero fragli antichi. XXXIII. Quali fra noi. XXXIV. Versi parissillabi e imparissillabi; tempi musicali pari e dispari. XXXV. Tavola d' ogni sorta di versi, segnati co' loro accenti, e paragonati colla musica. XXXVI. Quale sia il risultamento di questi [-78-] accenti? XXXVII. Le forme musicali oggidì su ricavano non identicamente dalle poetiche, ma per imitazione. XXXVIII. Se si possa coltivare una più stretta fedeltà col metro poetico? XXXIX. Delle forme onde si compone l' andamento del melodramma. Della canora locuzione drammatica. XL. Come se ne giustifichi la ragione. XLI. Della poetica locuzione, e come se ne giustifichi l' usanza. XLII. Primo grado della canora declamazione: il recitativo. XLIII. Istrumentale accompagnamento. XLIV. Come debba essere trattato. XLV. Secondo grado: il recitativ' obbligato. XLVI. Sua strumentazione. XLVII. Potrebbe la melotragedia restarsi a questo secondo grado? XLVIII. È chi opina, potersi applicar l' istrumentazione anche alla prosa. XLIX. Altra opinione vorrebbe a' recitativi sostituita la prosa. L. Terzo grado: il cantabile. LI. Istrumentazione eco del cantabile. LII. Idea d' un melodramma tutto in metro cantabile. LIII. Fusione dei tre gradi nel quadro musicale. LIV. Passaggio dal recitativo al cantabile. LV. Viceversa, ritorno al recitativo. LVI. Cautele da osservare nella melodica e armonica locuzione. LVII. Mescolanza ben' intesa d' entrambe. Metodo manieroso ne' cantabili da sfuggirsi. LVIII. Naturalezza ne' cantabili. LIX. Verace maniera di lavorar i metri poetici ai periodi musicali. LX. Dei tre stili ne' cantabili. LXI. Come si applichino all' espressione drammatica. LXII. Versificazioni corrispondenti a questi stili. LXIII. Del cantabile in dialogo. LXIV. Si lavori con artifizio dissimulato. LXV. De' cantabili del Coro in particolare. LXVI. Delle ripetizioni. LXVII. De' riempitivi. LXVIII. Delle repliche. LXIX. Dell' amplificazione musicale. LXX. Dei vocali ornamenti. LXXI. Obbjezioni contro la semplice verità drammatica. LXXII. Musica veramente lirica; come può inserirsi nella melotragedia. LXXIII. Come la suppellettile musicale dee da paro cooperare ov' è il maggiore effetto drammatico. LXXIV. Deesi trar profitto dall' arte degli esecutori. LXXV. Fino a qual segno si può contar sulla loro arrendevolezza agli autori. LXXVI. Della complessiva formazione del melodramma: Divisione, parti ed intervalli onde distinguesi in generale. LXXVII. Quale division appartengasi al melodramma. LXXVIII. Quale intermezzo si convenga fra gli atti. LXXIX. Se meglio convenga la scena mobile o stabile alla melotragedia. LXXX. Esempio d' una melotragedia completa; e prima della sinfonia. LXXXI. Norma; osservazioni sul suo totale. LXXXII. Sua prima esecuzione. LXXXIII. Rivista di questa melotragedia. LXXXIV. Suo semplice, severo stile; tuttavia gradito universalmente; LXXXV. sebbene non piacesse subitamente. LXXXVI. Altro esempio di melotragedia ideato appositamente. LXXXVII. Del genere istrionico che conviensi a rappresentar melotragedie; esemplare che se 'n propone. LXXXVIII. Particolare legamento dell' istrionica colla musica. LXXXIX. Celebri attori melodrammatici. XC. Relazione delle voci coi caratteri drammatici. XCI. Orchestra XCII. Imitazione strumentale. XCIII. Dovrebb' essere di due sorta. XCIV. Del musicografo. XCV. Se l' arte sua fia scienza ad un tempo. XCVI. Digressione sulla critica ed i critici. XCVII. Unità necessaria della critica e della pratica. XCVIII. Professionisti ed esecutori della musica. XCIX. Come talor' antepongano il materiale al virtuale della loro professione. C. Musica sociale. CI. Musica che sola ha dignità di bell' arte. CII. Come debbasi astenere dall' aride difficoltà. CIII. Come abbiasi a governare la musica con profondo sapere. CIV. In qual maniera consista la vera scienza nel celarla sotto bell' apparenza d' imitativa semplicità.

[-79-] LIBRO SECONDO

I. A dar le norme del melodramma, quale il vuole la moderna musica, non accadeva scriverne un libro, ma perchè ogn' arte, ancorchè facile e da impararsi più colla pratica che dalle teorie, richiede pur qualche regole scritte, bastava fare un libriccino di pochissime carte sull' arte del poeta melodrammatico. A ben altro fine però tende l' opera mia, nella quale dopo aver esaminato il melodramma nell' epoche sue diverse, e con non molta fatica date le traccie di quella che in fatto domina oggidì (giacchè la troppo breve apparizione del Bellini non ne cambiò essenzialmente l' uso comune) e colla critica dimostraten' eziandio le assurdità, mi convien investigare, come avrebbesi veramente a intesser un dramma musicale, nongià secondo l' usanza di questo o quel secolo, ma quale il richiegga la sola ragion poetica, libera dalle tirannie della sua suddita compagna; in guisa però che tutto faccia per questa il poeta, ma giusta i principj di sua parzial istituzione, onde dall' opera sua debba necessariamente scaturire il maggior vantaggio dell' una e dell' altra parte, cioè della poesia e della musica diventate una cosa sola. Questa porzione importante degl' insegnamenti miei non sarà però d' un uso pratico, e dirò così, di mestiere, come la più piccola parte precedente, perchè poco badasi alle regole cui non precedettero i fatti, e solamente un autore potrebbe in pratica insegnare e render necessario quanto son per additare. Tuttavia vuolsi sempre aver declamata la verità, sebben duro sembri generalmente, e difficile seguitarla, lasciate per essa le comode e troppo amate false abitudini. E giova inoltre sperare, in aspettazione d' un più bel avvenire, che i compositori di poesie e di musiche dall' intiero serbatojo di norme sul verace melodramma vengano pigliando ora uno, ora un altro [-80-] consiglio per corregger alcune taccie, ed assurdità, dalle quali potrebbe allegerirsi anche l' odierno melodramma.

A procedere con bell' ordine in questo moltiplice cammino, perocchè intendo considerare il melodramma nella sua invenzione, composizione, esecuzione: Favellerò delle qualità generali ad ogni drammatica, e quanto si rendano particolari nella melodrammatica: Delle qualità proprie, che questa acquista dall' applicazione de' musicale mezzi: Delle parti elementari onde si tesse la melodica versificazione: Delle forme onde se ne compone l' andamento: Della complessiva formazione dell' opera: Dell' esecuzione ed esecutori suoi.

II. Non dispiaccia che io ricominci in nuova forma le teorie dell' arte melodrammatica, e riassuma alcune cose preaccennate nel primo libro. Scrisse Alembert che la tragedia è lo spettacolo dell' anima, la commedia dello spirito, l' opera quello de' sensi. Ma piace a' Francesi essere fioriti e concettosi dello stile, anche nelle leggi e negli ammaestramenti. Fatàli concetti, ne' quali si sacrifica spessevolte la precisione dell' idee alle forme di brioso epigramma! e fatàl epigramma, che quanto piacevolmente s' imprime nelle menti ricordevoli, più ci lascia non precise idee! Perdonerei a quel Filosofo, avere, come fanno comunemente i suoi, presa per l' opera in generale quella ch' era l' opera francese, se non fossero altrettanto imprecise definizioni l' altre delle due arti principali.

Anche un valoroso Istitutore italiano definisce, nè lo dice in bernesco: la tragedia, quella che fa piangere; la commedia, quella che fa ridere. Io potrei ricordar a questi gravissimi autori la definizione dell' animale senza pelo e senza penne. Imperocchè direi al Filosofo francese: Come chiamate quelle tragedie, le quali, come han taccia cotante di vostra Nazione, non son altro che sentimentalissimo pascolo del cuore, ed eroiche commedie? E potrei all' occasione sbizzarrirmi con un paradosso, a provare con contraria proposizione, in molti esempj, che la tragedia è invece lo spettacolo del cuore, e la commedia dell' intelletto. Al Retore italiano poi direi: E ch' è d' una tragedia la quale non faccia piangere, e d' una commedia che non faccia ridere, ovvero, come parecchie, faccia piangere?

La tragedia, quella che squisitamente può dirsi tale, [-81-] per regola generale: imitando, purga i costumi del vivere pubblico. La commedia: imitando, purga i costumi della vita privata. Come l' arti diverse han diversi fondamenti e mezzi, che l' esperienza dimostra essere al lor buono e al lor bello confacevoli, così l' una trae i suoi avvenimenti e personaggi dalle preterite istorie, l' altra li finge come se vivessero, ma non veri, perchè l' esporre sulle scene i veri a nulla gioverebbe, anzi nuocerebbe, o pericoloso riescirebbe, mentre ogn' innocente imitazione ancora potrebbe aver effetto di satira.

Come l' anima dà vita al corpo, così le passioni alle morali imitazioni; ond' è che nell' uno e nell' altro genere di drammi la messe si compone di due parti: l' imitazione de' costumi: la patetica delle passioni. Le quali con varia dose combinansi in questi e que' componimenti, sieno tragici o comici, fino al divenir l' una o l' altra qualche volta preponderante in guisa, che o l' imitazione, o la passione ci rimanga solo negativamente: cioè che la tragedia, o la commedia, sommamente patetiche, siano morali soltanto, inquantochè niuna cos' accennino che immorale riesca; e così viceversa, essendo imitativamente istruttive, non abbiano altre passioni fuor di quelle che inseparabili sono da qualunque umano avvenimento. Ma tali graduazioni non distruggono la regola principale, che tutte anzi abbraccia in sè.

Le cose poi di bell' arti amano certa esagerazione di particolari abbellimenti, che ne forma il necessario sostentamento. Quindi la pratica dimostra che volendosi sulla scena decisi e classici colori, giovi al dramma istorico il sublime terrore de' funesti avvenimenti, di cui purtroppo van ripiene le cronache; e alla commedia, che finta, sarebbe peccato non fosse dolce, a consolazione del cuor nostro, sia quas' indispensabile un riso alquanto esagerato nella pittura de' comici caratteri. Così l' une, l' altre vivande van asperse di contrarj aròmati, ma il condimento è esteriore, e non ne forma l' essenza. Imperocchè si fanno nè più nè meno tragedie senza terrore, commedie senza ridicolo, ma nonperciò queste o quelle sono contraddizioni alla regola, che già previde il presentarsi la materia sua in ogni proprio diverso aspetto. Sibbene han questo di particolare, che l' une e l' altre sono difficilissime, e richieggono [-82-] più grandi autori per sostenersi senza quel allettamento che fu ritrovato per un più facile mezzo di piacere. Accadrà maggiormente che in certe comiche favole il riso abbia più influenza che l' istruzione o la passione; come pure in alcun tragico poema maggiore sia il terrore ed abbia più campo del patetico carattere, e della politica importanza; ma il riso ed il lutto non acquistano mai il corpo delle due parti componenti la materia, e ne sono sempre l' estrinsec' ornamento che più dell' ordinario la ammanta, come que' generi di pitture i quali, piucchè nella composizione, mettono il pregio loro nel fasto del colorito. Specialmente il tragico scioglimento, al dir d' un Autore, non è che un momento, il quale non può influire sulla precedente azione.

E dovevasi poi da me far anco notare, che la commedia può essere istorica, e la tragedia finta; che in quella può introdursi il terrore, in questa intrecciarsi il ridicolo, e l' una e l' altra cosa più ancora per innegabile verità in natura, che buon consiglio d' arte; ed ecco, a confusion della definizione imperfetta cui ne dà il Retore da me accennato, ecco l' animale senza pelo e senza penne, e non però uomo. Ma sopratutto era a notare, che la tragedia nel suo carattere d' istoria eroica ammette la poesia ed il verso; la commedia vuole prosa. Nè queste sono proprietà assolute di esse due facoltà; mentre io consiglierei che la tragedia di non abbastanz' antico, ed a noi straniero, nè abbastanza sublime carattere si dettasse in prosa, come non acci difficoltà che ogni commedia d' eroici tempi si possa verseggiare.

La tragedia urbana, la tragicommedia, il dramma son nomi di modificazioni d' una sola cosa, non titoli di cose distinte. Tragedia urbana è un argomento famigliarmente comico, ma spogliato di piacevolezza e tinto di terrore. Tragicommedia intreccia l' un' e l' altra cos' assieme. Dramma chiamarono alcuni l' eroica tragedia lieta, e inopportunamente senza distinzione, quella ch' è fatta pella musica. Altri dissero dramma una favole pedestre ma che non contenga ridicolo. Viziosa nomenclatura la quale, fermandosi sulle apparenze, dà un vocabolo solo alle due cose che intrinsecamente son opposte, distinte. Non è, non può essere un genere medio, che come anello congiunga l' eroica tragedia, [-83-] funesta o no che sia l' una, ridicola o no che sia l' altra. Dramma dunque è voce che in astratto significa: scenico poema, quindi tragedia e commedia.

Sembrerà ch' io mi sia troppo esteso oltre alla melodrammatica, ma necessario era piantar i fondamenti nell' arte generale, da cui dipende questa parzialmente. Oltrechè, non senza sorprendimento veggonsi in così tardi tempi siffatti elementi appoggiati a cotanto imprecise, od anche false teorie. Non so se le mie classificazioni sieno d' altri state prima esposte, so che, se non ingannomi, non puossi con diverse norme spiegare la tragedia e la commedia, e quindi la melotragedia, e l' altra qualunque siasi sua minor sorella, l' opera buffa.

III. Venghiam or al melodramma. Non è questi già una cosa terza, ma l' una e l' altra cosa, con apparenze sue proprie modificata. Perciocchè egli è la tragedia, egli è la commedia, trattata colla poesia, col canto, coll' accompagnamento istrumentale, con di più certe modificazioni, che questi mezzi richieggono, a ragione di bell' arte; perciò commuove ed ammaestra; e queste due proprietà sono sempre in esso intrinseche, giusta la regola generale, e quand' anche un' all' altra fosse spesso nel melodramma subalterna e passiva, la regola non sarebbe contraddetta, ma accaderebbe in esso nel più delle volte ciocchè nel dramma non musicale succede nel meno de' casi. È falso dunque che l' opera chiamisi nel suo essere lo spettacolo de' sensi, sebbene piacciano a' sensi le sue spoglie, ma non sarà mai per sèstessa lo spettacolo de' sensi quand' anche dall' allettamento esteriore sia renduto più angusto l' effetto intrinseco e del commuover e dell' istruire. E qui bisogna ben intendere che l' arti, relativamente un' all' altra, ed anche le parti di cadauna fra loro, non voglionsi considerare con certo scientifico metodo, ma conoscerne, condonarne alcune variabilità. Perciò vedremo a suo luogo come del melodramma comico l' importanza sia tenue, e tenuissima la relazione alla commedia.

IV. Definito il dramma qualunque: L' esposizione dialogata d' un avvenimento, imitato come se accadesse, purgato permezzo dell' arte, semplice intrinsecamente, abbellito nelle sue parti secondarie, e di cui gl' incidenti successivi un dall' altro crescano verso un necessario, completo scioglimento; definirei poscia subalternamente il melodramma: [-84-] un dramma, nella versificazione, ed in cert' altre convenute forme atto a ricevere la canora ed armonica esposizione. Oppure, specialmente ristringendo il discorso al melodramma serio: È una tragedia cantata, nonsolo a dilettare, ma eziandio, mercè la musical espressione delle parole e delle cose, a muovere in certa sua particolar guisa gli affetti.

V. Vantasi, dissi, che il titolo d' opera torni lo stesso che capo d' opera di tutte le bell' arti, datesi convegno in casa della tragedia. Troppo vasta idea, che può anche tornar dannosa, mentre, come apparirà in appresso, non dee il melodramma di soverchie cose diverse affastellarsi, per perder poi suo pregio dell' unità, ma di quelle solamente adornarsi che vagliono a farlo trionfare in sua maestosa, ma naturale struttura. Opera dunque, nome poco parziale, intenderei l' assieme dello spettacolo, come dire: A Milano si fa l' opera. Nè il dramma musicale chiamerei, come alcuni, lirico, e tragedia lirica. Non però pella obbjezione d' alcuni, che non cantasi al suono delle lire. La cetra, senza ciò, è sempre poetico simbolo ed emblema della musica. Ma io credo che per tragedia lirica si voglia significare, o intender debbasi iscritta co' versi lirici, e co' metri liricamente musicali. Tuttavia non m' acquieto nemmen perciò, nè mi garbeggia quel confondere con equivoco nome due parti della poesia che debbono andar disgiunte, la lirica e la drammatica. Nè perchè questa scrivasi talora con versi atti al canto, deesi pensar che della lirica assuma le spoglie propriamente. Attenghiamoci dunque ad un titolo, ch' è semplice e distinto sostantivo: Melodramma. E ciò in generale; più particolarmente, perchè non s' intitola melotragedia? Io lo dirò per mia comodità, sebben sappia che non a' didascalici, agli autori s' appartiene inventar novelli nomi; seppure può dirsi intieramente novello, avendo l' Alfieri in caso consimile scritto Tramelogedia, bizzarro anagramma di melotragedia.

VI. Il soggetto della melotragedia sia quello che comparativamente alla semplice tragedia meno si conviene. Voglio con questo paradosso significare, ch' entrambi i generi richiedendo argomenti che si confacciano al loro diversissimo metodo di sceneggiare, non dee l' uno assettarsi le spoglie dell' altro. Sarà dunque per eccellenza tema d' un [-85-] melodramma quello, che, fattane tragedia metrica, verrebbe a perder alquanto dell' originale suo carattere. Perlocontrario una felice tragedia non fia per cambiarsi cosi di leggieri in egualmente buona melotragedia.

VII. Oh quanto, ripeto, vanno errati coloro, che non fan altro, voltar in opere italiane le rinomate tragedie oltremontane! Così non adoperava il Metastasio. Nè più felici sono allorchè prendono a dialogar un episodio di romanzo, ed un romanzo intiero ristringer entro l' angusto per sestesso conio del melodramma. Buoni o cattivi che sieno questi romanzi, abbondan certamente di passioni e di maraviglioso, se tanti si procacciano divertiti lettori. Ma nelle Donna del Lago, nella Straniera, e in tant' altri libretti del bravo Romani, o de' pessimi verseggiatori non trovansi la prima bellezza, o importanza vera, perchè le tante cose ommesse, pella necessità di ridur complicatissima tela da romanzo ad un fattarello di breve durazione, fanno che del molto non rimanga nemmen il poco, e fuso in cotal crogiuolo, ne sfumi ogni sostanza. Ed è poi curiosa quella religione che han tutti gli autori di libretti, di conservar fedelissimamente l' ordine, l' integrità, la verità d' istorie che non sono se non se libri di sogni, sovente delle vere istorie eglino stessi falsatori. Se l' argomento d' un romanzo v' offre buona occasione di vivace invenzione per l' ameno genere del dramma musicale, valetevene, come dal fango traeva Virgilio le gemme, ma conoscete la superiorità vostra e la dignità di poeti, e non abbiate scrupolo alcuno di cambiarlo, e rivolgerlo a seconda del genere che trattate, de' voli di vostra fantasia, fin anco a far che la copia emancipisi dall' originale in guisa da parer essa l' originale. In tal caso cambiate anche i nomi, ed avrete creato senza pensarvelo. Dall' istoria poi, e da quelle parti d' essa, che mostrano alcun punto luminosissimo, prendete di prima mano il più delle volte vostri soggetti. Avete nel Metastasio l' esempio. Se altri ne fecer prima tragedie, quelle dimenticate e ben lunge dal copiarle, indagate che il fatto sia per sestesso suscettivo di venir rappresentato in due aspetti diversi, e vestito d' altri colori. Il Cinna di Cornelio ed il Tito del Metastasio ve ne danno il caso luminosissimo.

VIII. Accarezzate poi un qualche fatto, al quale intrinseca sia e naturale l' occasion di cantare, e l' innestamento [-86-] della musica. Dopo di ciò quelli ove molta parte han le turbe parlanti, ed in pubbliche circostanze e di grande unione di contendenti simultaneamente. Il dramma musicale esercitando la sua facoltà di far parlare senza confusione molta gente assieme, e di presentare il vasto quadro di moltiplici azioni, parte parlanti, parte muti, sostenute, espresse dalla musica istrumentale (le quali cose men convengono alla modesta tragedia, che il più esprime colla sua tranquilla e diffusa eloquenza), farà vedere non essere una tragedia guastata ma un genere a sè, con proprie qualità che il rendono a sua volta necessario.

IX. Possiamo esaminar qui in particolare la generale legge che si vuole dettata oggidì dalla moda: non abbiansi più a veder gli omai sazievoli fatti nonsolo della mitologia, ma delle eroiche istorie; e quasichè l' umane passioni non fosser di tutt' i tempi, si dice: non più commuovere personaggi con greche toniche e romane toghe, senza le ferree lamine ed i lustrinati velluti del medio evo. È noto però il classico voto dell' Alfieri, che in pro della tragedia opinava per l' opposta esclusione. Maggiormente dovrebbesi dir ciò nell' opera, per doppia ragion e particolare sua natura, e perchè il bello ideale, i mezzi musicali di lei prediligono la sublimità d' un' epoca eroica. La Semiramide nell' una scuola, e nell' altra la Norma d' argomento romano, diedero teste solenne mentita alla moda, e particolarmente quest' ultima melotragedia, di cui niuna fu più patetica nè più applaudita. La Fedra, il Costantino, il Filippo, non son forse nella passione la medesima cosa, sebben appartengano alla mitologica, alla classica, alla moderna istoria? Coloro che oggidì trattano temi de' tempi meno antichi ne traggono l' importanza dalla particolar dipintura de' relativi costumi. Fuor di ciò le semplici passioni considerate in sestesse sono di tutt' i tempi; ed è puerilità metterne la maggiore o minor importanza nell' epoche diverse accennate dagli abiti, quando non veggasi un local carattere evidentemente rappresentato. Ma questa locale dipintura sarà difficilmente combinabile col compendioso melodramma.

"La musica dagl' inventori dell' opera sposata nuovamente colla poesia, non ebbe più quell' unione che quando l' era nata intrinseca, nè l' umana prevenzione poteva appagarsene come d' una cosa preesistente. Quindi que' saggi [-87-] Toscani credettero dover supplire coll' applicar la melodrammatica ad argomenti antichissisimi ed anche mitologici". Arteaga capitolo 6. Tuttavia così ricantati sono gli antichi argomenti, che sarebbe un troppo pretendere a voler in questi limitate le fonti cui attingano i poeti. Il medio evo ha certochè di simiglianza co' tempi patriarcali, perchè la società era retroceduta come a' primi anni del mondo, e tornata in voga, con que' semplici costumi, la poesia, il canto, l' influenza de' cantori e Bardi sugli uomini. Prolunghisi ancor la concessione a quegli avvenimenti che appartengono alle rinascenti monarchie, ma non passi all' età degli avi nostri, ove i costumi cominciano ad assomigliarsi ai presenti. La qual eguaglianza distrugge ogni supposizione d' un genere ideale, a cui si poss' adattare con alquanto di verosimiglianza il canto in azione. Finirò col dire che i temi mitologici non son da escludersi affatto, almeno in grazia d' esser quelli, cui la music' adattasi eccellentemente, purchè vengano trattati con più d' artifizio che non furono fin qui.

X. Potrebbesi poi fare il caso, se al genere vivace, o come vogliono alcuni superficiale del melodramma s' adatti particolarmente il romanticismo; e qui rinuovasi la clamorosa questione fra classici e romantici; che mi guarderò dall' introdurre, sebben forse ne direi qualche nuovità. Faronne perciò almeno un sol cenno. Come accade allorchè si contende con passione, non mi sembra i contendenti essersi bene spiegati od intesi nel punto principale della vertenza, se han abbracciato in un sol vocabolo due cose fra loro disgiunte come gli antipodi da noi. Conciossiachè la voce romanticismo si adopera ora in senso d' un doversi declinar dalle maniere dell' antica classica letteratura, le quali pel troppo uso han certo chè di sdolcinato pe' moderni palati, vaghi di essere solleticati da' più forti passioni, più frizzati forme, spesso ancora da fantastiche favole, più strane assai delle greche, dalle verità insomma o finzioni di cronache meno antiche. Altra volta dicesi romanticismo al negligere il metodo di purgare il vero con isceglimento, proporzione, abbellimento artificiale, che serve alla vaghezza nell' uomo innata d' un' ideale beltà e perfezione, per rappresentarlo qual è, onde ottenga più natural effetto.

Queste imprecisioni però di ragionamento a noi poco importano; [-88-] bensì un' altra confusione che fanno i romantici fra l' istorica materia e la drammatica; la qual questione a mio credere non appartiene alle opinioni generali de' romantici, bensì ad una volontaria ignoranza sulla natura e possibiltà del rappresentativo poema. Il dramma (se ne ricordi la definizione) è un avvenimento che dee durare quant' uomo può durar a vederlo rappresentare; e siccome l' osservatore non può andar dove succede l' azione, convien che questa succeda tuttaquanta ov' è l' uditorio. Di qui vengono le due unità di tempo e di luogo, cui si aggiunge la terza già preaccennata d' azione, che si vuole più importante, più sublime; e il sarà ne' termini d' arte, ma per ragion di natura no certamente, perchè il violar l' unità di luogo, e più di tempo, è una manifesta contraddizione alla verità; al contrario l' allargare i limiti della drammatica unità d' azione non è che un far contro alla' arte che aveva corretta, e, per abbellire, alterata ingegnosamente la natura. Sembrami perciò poter proferire nuova del pari che vera sentenza: Le unità, specialmente quelle di luogo e di tempo, che fondonsi naturalmente in una cosa sola, stanno prima nell' uditorio che sulla scena; e lo spettator ivi immobile quegli si è che all' azione le comanda. Oh veggasi se sieno da chiamare una schiavitù dell' arte!

Alcune concessioni si fanno alla unità, e per non ridur i temi drammatici a troppo poco numero, si lasciano molte favole peccar quasi venialmente fra certi limiti convenuti. Tantopiù dunque deesi avere per una cosa perfetta e rara quella favola che si passi tutta in un luogo, e succeda in tanto tempo quanto vuolsi a rappresentarla. In quelle che furono dettate altrimenti chi ha fior di senno desidererà caldamente che l' autore avesse potuto o voluto colle bellezze figlie del suo ingegno combinar le verità d' arte. Il concorso di queste due distinte facoltà solamente costituisce l' opera perfetta.

Ma coloro che, oggidì specialmente, facendosi belli del nome di romantici, vogliono por in sulle scene un' istoria, un poema, un romanzo, non m' illudono, sicchè sfuggami la loro ignoranza di quella e di queste arti. Fanno costoro qual chi s' avvisasse versar il mediterraneo nel Lario e nel Benaco. Il dramma è quadro che non può contenere se non se quanto l' occhio veder in una volta; ed era proprio di rozzi [-89-] tempi mettere in una tavola sola più azioni successive, separate. Giungesi perciò a fonder entro lo scenico quadro l' indocile istoria? No certamente. A forza di grossolane amputazioni solamente. Bella bravura! In cinque atti, peresempio, si mettono i cinque principali punti di lunga istoria, e dissimulando i secondarj avvenimenti, si assorbisce tutto il tempo incomodo di mesi oziosi ed anni nelle lacune degli atti. Così anche il pittore, costretto a ritrarre nelle materiali sue forme un uomo sopra certa tela troppo più circoscritta, potrebbe appigliarsi al partito di metter la testa sul busto, sopprimendo il collo, ed il petto sulle coscie senza la pancia, e lasciate nel pennello le gambe, a' ginocchi unir i piedi. Ecco pittura divisa in atti ed intervalli romanticamente.

"Spectatum admissi risum teneatis amici?"

Eppure a questa tavola è simile un libretto, eccetera. Altre maniere han le bell' arti di costringer la natura entro lor forme, senza metter quella in pezzi, guastar queste, nè tuttavia ottener l' intento. Il disegno tien lenti e microscopj che ingigantiscono, inaniscono le cose, le semplificano, decompongono, arricchiscono, senza scomporne l' intrinseche proporzioni. La drammatica professione scelga dai libri narrativi gli episodj, dalle istorie le novelle che sieno un gruppo di cose, non un mondo di avvenimenti. Talor anco accadrà che diffuso avvenimento si possa naturalmente nel tempo modificar, e ridurre all' azione d' un giorno. Ne sia classico esempio l' Iliade, di cui la guerra puossi in altro aspetto cangiare in una sola campal giornata, con maggior discernimento però che parecchi melodrammatici fin qui.

XI. Il romanticismo poi nonsolo ha niuna fratellanza colla vivace favola musicale, ma per lo contrario ripugnanza. Quale follia sarebbe quella, mentre si pena a contrar gli argomenti ordinarj giusta l' economica concision ch' esige il metodo melodrammatico, andarli a scegliere fra diramate, multiplici, illimitate istorie? Pigmei che imitano giganti! Rido che nella Lucia di Lammermoor l' Eroe, dopo un atto di poche scene in pochi versi, vada in Francia per compirvi grandi affari, e molti avvenimenti accadano intanto nell' Inghilterra, e sia di ritorno al principio dell' egualmente minimo atto seguente. E come poi raccomandar a' scarseggiati, ardui musicali cenni le cose tante che [-90-] nel dramma irregolare richieggono i fatti supposti, che si debbono narrare? Per lo contrario il metodo classico giova grandemente a dar forza al melodramma, avvicinandone le parti principali mediante l' esclusione delle secondarie. E verrà forse giorno, che, passato di moda il romanticismo, anche nella favola pedestre conoscerassi quanto sia per esso snervata, non accresciuta la drammatica forza dalle lacune che sconnettendone le parti, la indeboliscono. Certamente goffa cosa è quel veder d' atto in atto cangiate le vicende, fino le passioni: senzachè l' autore abbia l' incomodo di mostrar come sieno succeduti così grandi cambiamenti, e dipingerne i difficili passaggi.

Fatale usanza di dettare regole in arguti ricordevoli epigrammi! Seduce cotanto chi piacesi dirli e chi li ascolta, che pochi sapranno rimproverare a Boileau, nè egli stesso s' accorse d' avere contraddetto il motto: che tutt' i generi son buoni fuor del nojoso: coll' altro motto

"Rien n' est beau que le vrai; le vrai seul est aimable."

XII. Fassi per altri questione se il melodramma debba esser tragico, o di lieto fine. Dopo quanto feci vedere sul vero spirito della tragedia, e sulle sue modificazioni, che non forman però altrettanti generi, si rende inutile a noi siffatta distinzione. Bensì potrebbesi chiedere di quale de' due sapori sia meglio condir quella favola che ricever dee altro abbellimento dalla musica. Alcuni citano il Metastasio, altri si servono di lui per autorità del contrario. L' Arteaga il loda, che i suoi drammi componesse di liete catastrofi, nè ricorda Didone, il suo prediletto Catone, Regolo, Issifile, Artaserse, che mostrano la sua opinione, forse diversa da quella dello Zeno, in pro dell' ordinario uso di commiserevole argomento, mentre gli altri melodrammi suoi non provano che il debito di servir alle leggi di poeta cesareo, il non dover funestare festive circostanze, e qualche volta forse la contratt' abitudine. Io invece proporrò la questione, se essendo l' opera per sestessa uno spettacolo di magnificenza, la sua luce esagerata debba riflettersi, come quella dell' iride, brillantistima sopra stupendi avvenimenti, maravigliosi colpi di scena, non ordinarj caratteri, o render semprepiù artificialmente malinconica una patetica serie di dolentissime azioni. Insomma, ove fosse qui luogo a scherzare, direi, se abbia a rappresentar i quadri suoi colle [-91-] brillanti maraviglie della lanterna magica, o con quelle maravigliosamente orrende della fantasmagoria.

Nell' una e nell' altra maniera il melico stile mostrerà sua virtù di dare istraordinario pulimento a qualunque oggetto che ne renda più luminosi i relativi colori. Sarebbe per avventura quest' esagerazione di lumi nelle cose ridenti, un eccesso d' ombre poi nelle tetre? Alcontrario. Sebbene io non conoscessi attrice recitante italiana, che a creder mio, fosse maggiore della Pasta, pur non mi fece mai piangere dipingendo maravigliosamente il tragico fin di Norma o di Romeo, quantunque alcuno vicino a me ne piangesse. Lo stesso dicasi della Malibran. E quello che degli attori, intendasi d' una scena melodrammatica relativamente ad una pedestre. La dolcezza del melodico accento, il men naturale metodo d' un parlar musicale mi dispensarono certamente dall' amaro dilettamento che costa uno spettacolo lagrimevole. È forse questa una prerogativa della melotragedia, ed una delle facoltà onde fossi a sua volta preferibile alla tragedia: rendere cioè il bello, ed il patetico dell' imitazione, ma può raddolcirne fin le lagrime, versar balsamo soave sulle stesse ferite? Come la verseggiata tragedia, co' grandi avvenimenti d' eroico remoto argomento, colla poesia delle immagini, spreme men amare lagrime della commedia triste, o della tragedia urbana, così maggiormente la tragedia canora, più delicatamente poetica, più finamente immaginosa.

XIII. Le tragiche passioni non escludono la metastasiana magnificenza delle azioni generose, i maravigliosi avvenimenti, il magniloquio degli eroici sentimenti. A queste cose aggiungerò un consiglio. Non si resti dal tentare d' imitar quell' ingegnosa tessitura propria del Metastasio, e le sorprendenti combinazioni, che nascon l' une dall' altre, e quasi sempre all' opposto della maniera colla quale lo spettatore l' aveva prevedute, quello svolgersi di caratteri, che se eroici, pajono appartener alla repubblica di Platone, se amorosi, sembran d' amanti vissuti nel secol d' oro: soavissime illusioni, temperate dalla pittura evidente della natura, di cui niun altro poetico pennello può tener il paragone!

XIV. I moderni però mostrarono esser inutile quel intrecciar a' principali, secondarj intrighi: ed il melodramma, [-92-] costretto alla brevità, aver piucchè mai comune la semplicità colla tragedia. Se così avesse fatto il Trapasso, e semplificata maggiormente la favola d' alcuni suoi drammi, nè servito cotanto alla supposta necessità della varietà di scena, sarebber que' suoi intieramente vere tragedie compendiose. La musica moderna obbliga ad anco maggiori ristrettezze. Quindi è opinione che in cotanta angustia non possa svolgersi la tela d' una completa tragedia, nè sia per coglierne un autor melodrammatico il lauro di poeta. Il Metastasio ebbe veramente dalla musica de' tempi suoi agio di estendere drammatiche scene in recitativi, la concision de' quali forse gli fu più util che dannosa per tenersi lontano dall' opposto eccesso d' oratoria diffusione, onde, come dicemmo, i Francesi stemperarono l' economica forza del mutuo sollecito confabulare. La musica rossiniana non ammette che un volumetto della mole di farse, e quel ch' è duro, composto più di canti che di fatti. Tuttavia la favola dee esser quella d' un dramma ordinario, compendiato solamente in quell' azione che recitasi avanti l' uditore. Nè si potrà perciò conoscere il buon poeta nel ben immaginato argomento, e ne' sublimi versi? Se non accadde l' una o l' altra cosa, fu principalmente perchè venne commesso il componimento a scrittori non a poeti, o poeti non nati drammatici almeno. Ma la musica belliniana permise poi sufficiente campo ad un' importante, maravigliosa, patetic' azione, ai recitativi necessarj per distenderla. La Straniera, peresempio, sebbene sèguiti le mostruose assurdità del suo original romanzo, è di tal mole che può bastare; e se non accade ciò della Norma, gli è che il Poeta ha voluto ridurla a non comune brevità, a comporla di scene tutte principali, senza quelle legature che congiungono le membra della favola.

XV. Ed una tragedia qualunque si potrà sovraporre alle note, quindi cantare? Senza dubbio, se così adoperò la Grecia; ma oggi, dicasi nel senso teorico piucchè nel pratico: perchè difficilmente potrebbesi persuadere al popolo indotto che un novello cantar troppo semplice, robusto, disadorno, si dovesse accogliere con intenzione d' ascoltare il pomposissimo stile di tragedia, che sarebbe scambiato certamente in un troppo negletto metodo d' opera. D' altronde, poichè l' arte si è da semedesima divisa in due, [-93-] godiamo almeno la ricchezza dell' una e dell' altra tragedia. Avvezzati una volta udire nel dramma gl' interlocutori parlar come noi, formiamoci una supposizione, mista della tradizione che i Greci così un tempo adoperarono, e dell' abitudine che ha già introdotta in noi l' opera, e gustiam così doppio piacere, che la drammatica generale ha renduto con parziali caratteri distinto.

Il buon Lettore intanto ponga mente al passaggio che fa il ragionamento della qualità generali ad ogni dramma, ed al melodramma insieme, a quelle sue proprie che acquista dall' applicazione de' musicali mezzi.

XVI. Come la poesia dividono i retori: lirica, epica, drammatica, così è innatamente divisa la musica. Nella poesia stessa maggior differenza passa fra la drammatica e le altre due, potendosi considerar l' epopea quasi continuazione della lirica; ovvero l' una composta di piccioli e minuti, l' altra di grandi poemi. Se la musica poi poco o molto si adatti all' epica, e se questa di quella si prevaglia, vedrem parzialmente a suo luogo. Qui non è molto importante la distinzione prima, sibbene la seconda, che due generi di musica distingue dal terzo, e ciò mercè un doppio carattere di quelli e di questo.

XVII. La musica e poesia, lirica, e l' epica eziandio, è quella in cui l' autore: primo, comparisce in propria persona; secondo, esprimesi come musico, e come poeta. La drammatica è quella in cui l' uno e l' altro primieramente fanno parlare personaggi che si fingono viventi; secondariamente attribuiscono ad essi la supposizione che favellino un linguaggio verseggiato, canoro e armonico, cioè accompagnato dagl' istrumenti.

XVIII. Ha la poesia certi metri legatissimi per difficile composizione e ricercat' armonia, i quali suppongono propriamente il cantore che vuol molcere gli orecchi altrui con istudiate, preparate delizie, alla guisa dell' oratore recitando le sue artificiali, premeditate arringhe. Fa essa tesoro d' un metodo di fraseggiare, d' uno stile figurato, che convien solo a chi tien a novelle un uditorio, non a mutuo dialogare d' una società favellante giusta l' ipotesi da quell' arte inventata. La musica nè più nè meno ha metri elaborati, e frasi figurate, pe' salmi, pelle odi, pelle canzoni e cantate, convenevoli all' arpa ed alla cetra, che costituiscano la sua [-94-] lirica insomma. Ma la drammatica dee far uso anch' essa, dirò così, d' una poesia più semplice nelle sfumate forme, rimondata da superbi fiori nello stile, che non oltrepassi la linea ardua e perigliosa, ma ben conosciuta agli uomini d' ingegno quando vogliono rispettarla, e che ferma i confini assegnati alla supposizione del bello ideale d' un socievole linguaggio poetico e musicale, non protratto fin dove l' abuso dei mal impiegati mezzi dell' arte ne distrugge, per troppo volere, la delicatissima illusione. E ciò tantopiù che il musicografo ha nel dramma preparato il disegno dell' opera sua, cui non dee far meglio nè più che secondare.

Nè già questa regola (ognun vede) mi vien insinuata da certo amor d' ipotesi, come spesso fecer i critici, che una sen' inventarono, colla quale guardar tutti gli oggetti, riducendoli a certo metodo somiglievole. Tai lenti, dirò così, conformi ai particolari metodi di vedere, in generale non servendo, o non piacendo all' altrui egualmente libero modo di osservare, rimasero inutili all' uso comune, o andarono ad arricchire il museo delle dimenticate anticaglie di Pindo.

XIX. Deh! perchè da quest' inconcussi principj non esordiscono tutt' i trattati di musica, come quelli della poesia? Che anzi letti oggi per la prima volta, sembreranno strana e nuova, sebbene fia dottrina di fatto. Due sono, a creder mio, le ragioni. Nell' opera non parlante del musico trovansi egualmente espresse, ma non si leggono materialmente le diversità dei generi; ed i trattatisti musicali, men necessariamente letterati de' retori, non fecer tesoro ne' scritti loro di siffatte teorie, remote da' grammaticali ammaestramenti dell' arte. Che se anche in secondo luogo si fosse riconosciuto dallo stuolo vulgare ciocchè badialmente fu ignorato, n' avrebbe serbata una voluntaria ignoranza, per non togliersi da semedesimi la libertà di confonder l' uno nell' altro stile, onde adoperar sempre, fuor di luogo ancora, il più sfoggiato e lusinghiero, colla certezza che il popolo, anche più materiale di loro, per l' accennata prerogativa dell' arte musicale di esprimere piuttostochè dire, non si sarebbe avveduto dell' amabil errore.

XX. La cosa è corsa tant' oltre, che quest' abuso delle gemme della musica, incastrate dove non andavano messe, fu chiamato perfezione di scientific' arte. E mi ricordo d' un Critico, che lodando i lirici canti scientificamente concertati, [-95-] d' una messa, proponevali per modello a' drammatici giovani compositori, come se cantar nelle festive ceremonie, e vivere cantando, fossero una cosa sola. Quind' invece di riportarsi ognuno alle regole elementari dell' arte, nacque gara di partiti, come accade ove parlasi nelle cose di genio per passione, non per sapere, ch' è miglior regolatore del genio, anche allo scopo d' un più vero e più intenso dilettamento.

Nacque, dissi, un contendere fra coloro cui l' opera serve di occasione o pretesto a scialacquare musica, e quelli che amano il dramma particolarmente animato da musicali colori: gara come di Pompejani e Cesariani. Forti i primi sulla legittimità di loro causa, sull' antichità delle leggi, sul consentimento de' buoni pochi, vantano disprezzo de' loro avversarj. I quali, fieri dell' abbagliante fortuna dell' armi, del numero de' loro, della prepotenza de' fatti, cui cede la ragione de' diritti, ostentano per l' impotenza de' primi derisione. Così dura la questione in mille fogli e ragionamenti eterni, nè la deciderebbero dieci Farsaglie.

XXI. Per buona sorte, a termini di ragione almeno, quandanche non fosse in fatto, della viziosa questione è tolto qui fino il caso, perchè preventivamente la escludono, ancorchè tardi annunciati principj dell' arte. Tutto si riduce dunque ad una pura verissima proposizione. La musica semplice delle passioni, e del mutuo dialogare: la musica elaborata ne' torniti metri e negli studiati accordamenti: sono egualmente due generi, ma l' uno solamente può appartener alla drammatica, l' altro deesi lasciar alla lirica. Ed ecco tagliato il nodo alla lite, ecco caduto il velo a coloro, che sotto pretesto di esaltar la scienza musicale, nascondon l' ignoranza loro del primo canone di dotta, anche musicale retorica: che ogni stile appartengasi al suo genere. La loro musica dunque tanto è bella che è una delle due parti dell' arte (lo dico per essi), ma non è il genere drammatico: è il lirico. È bella, dice Orazio, nascosto in un canto, Sed non erat his locus.--Non è splendido quest' abito?--Chi ve 'l niega?--Dunque posso vestirlo?--No, appunto pella sua splendidezza. Un sajo solenne torna strano, ostentato senza perchè; una leggiadra gonna femminil è turpe cintasi da un uomo, e l' abituccio d' un zerbino addosso ad un soldato.

[-96-] XXII. Colla mia fondamental distinzione della musica lirica e della drammatica son venuto eziandio rispondendo al quesito promosso dal Barbieri, e che prim' aveva fatto l' Arteaga, laddove scrisse: Onde trae origine la rapidità con cui si succedono i gusti nella musica, e perchè siffatti cangiamenti sono più visibili in essa che in qualunque altra arte rappresentativa? Nè il primo trovò chi sciogliesse quel suo problema, perchè la risposta ei voleva da uno della professione; nè delle spiegazioni che il secondo fece a sestesso alcuna è la mia. La musica drammatica non può per sestessa variare, avendo il suo allettamento nell' espressione delle passioni che son invariabili, ed anzi nell' espressione subalterna del dramma. Dirozzatasi una volta e giunta a perfezione, riman pressappoco sempre la stessa, come ogn' altr' arte bella squisitamente. Tutto lo scisma in essa introdotto, per chi sa indagando trarnelo in luce, consiste in questo superficial deviamento dall' essere suo: aver altri, per insobrietà di musicalmente solazzarsi, introdotto nel melodramma il metodo lirico: avere scritte drammaticamente opere collo stil della lirica musica. Che se anche ciò fosse accaduto più o meno in ogni tempo, e fosse per durar sempre, verrebbe a significare: la musica volersi conservar una malattia di elezione, non organica, come chi gode viver ne' malanni che sol gli alimenta l' intemperanza: ma la regola generale nonpertanto, e la natura dell' arte sarebbe ognora la stessa. Imperocchè qualora gli uomini, per un' abitudine tiranna, che ha usurpato il luogo del ragionamento, credendo più alle autorità che alla ragione, non vogliano privarsi di quanto li alletta, nè lasciar che la musica teatrale scorra pedestre, parlante, come richiede l' azione, il dialogo, sarà sempre vero che l' opera dee esser così, e che coloro i quali la fastidiscono, altro non fanno che secondar un loro genio, di voler la ricchezza lirica del canto accademico nell' accademia, e poi nella tragedia ancora.

Ma se la musica moderna pecca di lirica frondosità, che mal s' addice alla verità di semplice imitazione, specialmente drammatica, la music' antica pute di vecchio a' moderni nasi schifiltosi, come la poesia d' Ennio a' tempi virgiliani, per non dire la dantesca ne' giorni nostri, mentre i letterati, e gli stessi dilettanti, quando trattasi di poesia, [-97-] sanno aver per nulla la ragione vetusta in paragone della beltà di tutt' i tempi, e qualora poi giudicano di musica, schifano, come rancida cosa, quella dell' etade appena trapassata. Dunque come va la faccenda? Nella musica gli Ennii durarono fin quasi a' nostri giorni? E per destino fatale di quest' arte, ad essi succedettero immediatamente i Marini, senza i Virgilii e gli Ariosti intermedj? Dunque quel bello incontrastabil e vero, di tutt' i tempi, e di tutt' i gusti, che han l' altre bell' arti, è negato alla musica? il chè basterebbe a farla discendere dal grado di bell' arte, condannandola fra le futili frascherie di commercio, su cui ha tirannico dominio la moda. Lascio da parte, che gli Oltramontani non pensano come noi, e mostrano intendersi di musica maggiormente, se apprezzano della nostra quanto è buono, e classico, perciò colà invitasi al Matrimonio secreto, e al Don Giovanni, alpari che alla Cenerentola, e alla Gazza ladra. Potrei dire ancora che nelle opere del Cimarosa, e del Paesiello, e dei più antichi di loro, non l' intrinseca composizione, ma l' esteriore parca istrumentazione non piace ad orecchi massimamente troppo dilatati da un' opposta eccessiva sovrabbondanza. Giovami però espor piuttosto senza ornamenti la mia opinione. Non è difetto naturale della musica, pel quale essa non possa vivere altrimenti, ma effetto d' una fatale vegetazione ch' ebbe fra noi. Qualunque siasi quella ruggine, che dispiace a' moderni, specialmente italiani, non voglio contraddirli. Ma l' evitaron essi, sostituendole uno stile perfetto, come quel di Virgilio a quello d' Ennio, e se piace come l' Ariosto al Dante? Il chè sarebbe accadute ancora della musica, se fosse arte che non potesse starsi senza lettere; lettere, intendo sublimemente professate. Il Bellini fece prodigi di sobrietà ne' tempi più voluttuosi; ma l' ingegno del Bellini non era quello mostruosamente grande del Rossini. E se il fosse ancora stato, nè Rossini, nè Majer, nè Paesiello, nè Sarti, nè Vinci furono autori letterati, nè furono Apollini ed Orfei a certa guisa più poeti che musici ancora. Oltrechè la professione di musicografo, nella sua pratica, per certi vincoli sociali cui va sottoposta, sente maisempre un nonsochè del mestiere.

Ma insomma, la musica drammatica, qualora facciasi tutta poesia, conseguirà, anche senza cercarlo, uno stile [-98-] che sia universale, e nella sua sostanza invariabile, poco rimanendo importante il mutamento di alcune subalterne forme. Infatti la cura di render l' espressione de' singoli concetti poetici farà sì, che non potrà significarli quasi se non in un modo, cioè nel migliore; nè un tal genere di bellezze rende giammai sazj o volubili gli uditorj. Ed ecco la soluzione del problema. Se nonchè il mondo andrà sempre come andò; dall' una parte freddi critici seguiteranno a dir che il melodramma è un mostro, con quel suo morir cantando, e favellar cantando, al chè non si accomoderà giammai la ragione ed il cuore, e così seguiterebbero a dire quand' anche diventasse più brusca cosa delle tragedie alfieriane; dall' altra parte i maestri di cappella faranno a più potere per compor musica da fabbricatori di merce venale, e di quella specialmente ch' è più a seconda della moda dominante.

XXIII. E colla scorta del mio semplicissimo filo sciogliesi ancora quell' altra interminabile questione della musica italiana e straniera. Fra le quali scuole può darsi una essenziale diversità nella musica lirica: nella drammatica nongià. Perciocchè quando attengasi questa al suo vero ufficio di esprimere la scenica poesia, si troveranno le due scuole, mirando ad un solo scopo, eguali fra di loro, senza saperselo, rimanendo inutile per quest' operazione quanto l' una tiene di scientifica dovizia, e l' altra di lusinghiera frascheria; nè resterà differenza, fuorchè quella di due, quali dovendo ritrar dal vero, possono solamente nell' esecuzione mostrar maggiore o minor intriseca virtù, maggiore o minor precisione, ovvero grazia maggior o minore, che lasci travedere quanto saprebbero operare in più fastoso cimento.

XXIV. Questo sarà il bello di tutt' i tempi, questo d' ogni nazione, come è il bello di tutte l' arti. Sarà specialmente il bello della poesia, che sendo inalterabile, lo fia del pari la musica, prendendone le forme, non sottoposte a cambiare. Interrogato il Rossini, perchè non più ci regalasse sue opere, rispose scherzando: Datemene l' idee. Le troverete, avrei risposto, nella poesia. Da questa fonte, sebbene secondarie, si attingono inesaustamente. L' idee, musicali propriamente, senon nel Rossini, prodigioso ingegno creatore, in quant' altri furono assai circoscritte! benpresto ne inaridì la vena. Oltre a ciò, convien persuadersi che una più eletta gloria [-99-] si è per la musica ir seguace alla poesia, che trionfar nelle proprie spoglie. Facendosi ombra di quella, per istrano prodigio, divien corpo animato; rendendosene rubella, rimane ombra, o almen fronde, fiori, non frutto. Una gloria tutta loro propria quella si è che possono raccogliere i compositori nella musica strumentale nonsolo, ma eziandio nelle lirica. Non contenti però di questi limiti, fannosi lirici nella drammatica eziandio, nè si accorgono di abbandonar la più sublime corona, per cingersi due volte la più fastosa.

Ma se la verità è questa, come tutti si ostinarono a non riconoscerla? Tirannia di consuetudine, la qual vede ciocch' è più sano, ama ciocchè lusinga più voluttosamente! Nè mancano illustri autorità che facciano escusazione de' vulgari opinanti. Ancora Cornelio, Racine, lo stesso Voltaire, che non erano tali da operare, come molti maestri di cappella, in buona fede per le ignorate facoltà dell' arte loro, saper dovevano, come infatti sapevano, d' ire il più delle volte con un piè su pel confine della commedia, molto giovandosi delle non eroiche passioni di questa nelle semitragiche lor favole, ma la moda e il giudizio del bel mondo dominavano la loro tragica poesia, come tiraneggiano la musica melodrammatica; e non avevano essi coraggio di credersi ad un esperimento estremo superiori, quindi osare ostinarsi a non comporre, come adoperò poi l' Alfieri, che giusta il modello di verace tragedia, in attenzione del tardo ma sicuro avvenimento, che i lor giudici, vedendoli fermi nel non cambiarsi, cangiasser essi giudicio e voglie. Si pensi poi se tant' oseranno, o sapranno nemmen volere, stretti fra più anguste circostanze, i musicografi, ed i non considerati poeti loro!

XXV. Non esisterebbbe nemmen l' idea della questione, non le due opinioni opposte, o chi se ne facesse capo, nè le querele degli uni contro gli altri: che alla musica non debbasi restringer il campo per crescere, isviluppare, estendere le sue naturali membra: se rimasta fosse, com' è origine sua, attaccata alla poesia, quasi conio della medaglia, ed inseparabile nell' unità dell' autore. Deh! chi troverebbe in essa siffatti bisogni, ove un solo, il moderator d' entrambe, provvedesse al bene della duplice arte sua, senza discordia d' ambo le due parti a lui soggette, e moltomeno [-100-] poi di quella che da sue labbra, dalla sua cetra, dalla sua penna uscirebbe seconda, in tutto uniforme alla prima, nè mai sovrabbondante.

XXVI. Il poeta ed il musico fu dapprima un solo. Ma come le cose di quaggiù han sempre al bene mescolato il male, accadde poi, che arricchendo la poesia e la musica, richiedetter doni d' ingegno e di natura in chi le professava così diversi, che difficilmente, anzi per disgrazia nonmai si son trovati riuniti. L' armonia mentale del prediletto figlio d' Apollo può star senza l' armonia d' orecchie del musico. D' altronde il poeta fu costretto rinunciar suoi parti al secondo, che gli desse un latte non materno, a farli crescere di straniero nè confacevole nutrimento; quindi il musicografo dettar a sestesso un' arte novella, di cui non fu più prezzo render col canto l' espressione del verso, e col suono quella del canto; ma superbo delle apparate difficoltà, di concertar in un modo quasi scientifico le combinazioni diverse delle voci, ed i suoni risultanti dall' arduo meccanismo di moltiplicati e per sestessi complicati strumenti, altro non ebbe tempo d' imparar in sua gioventù, ned altro gli fu utile apprendere, quindi freddo alla poesia, divenutagli arte straniera, associolle, quasi fortuita compagna, l' armonia.

       Fra le Note e le Lettere ponea
         La Moda odio mortal. Ben che sorelle,
         Pur queste voglion quelle
         Straniere a la Cadmea
         Famiglia, di favelle
         Prive, e perfino di ragion digiune.
         Quindi fur le fortune
         Fra lor divise, e l' arte,
         Le carte, i leggitori; ogn' una ha i suoi:
         Nè raro il caso si mirò da poi,
         Che chi le dotte lettere coltiva
         Le note non apprenda,
         E chi le note scriva
         Lettere non intenda.
XXVII. Fra noi tarda e semibarbara risorgendo la musica, trovò adulta la poesia. I versi della quale già formati [-101-] a sestessi, non ben le si confecero. Avvezza essa por sotto note l' informe prosa latina nelle chiese, supplì con note istrumentali, aspettando il ritornar degli accenti nel verso. E note istrumentali, e pause del canto le divenner in sèguito comode per moltiplicarle, a lavorar le sue frasi, periodi, e motivi indipendenti dalla misura del testo; quindi appoco appoco arricchì sestessa, e potè far componimenti strumentali senza versi, e co' versi ancora, ma inguisa d' avere le note in luogo della materia prima dell' opera sua.

XXVIII. Suppongasi che queste divisioni non fossero accadute; il poeta, naturale compositor delle note decoratrici de' versi suoi, producendole con quelli ad un parto, ed anzi qual emanazione secondaria de' medesimi, non avrebb' estese quest' ombre sovr' altri contorni che quelli del corpo, nè fatte ombre ove non fosser corpi e membra a produrle. Ne verrebbe dunque una musica in cui le parole, tutte intelligibili, vestite dalla sola melodia del lor metro poetico, secondato dal ritmo melodico, darebber quel dilettamento che vien da un tutto, il quale commuove perchè s' intende intieramente, e per l' orecchie parla all' anima. Tale fu la musica de' Greci, ed operò que' narrati prodigi, appunto perchè fece meno: prodigi che alcuni non san intender nè credere, conoscendo solamente un opposto metodo musicale.

XXIX. Dunque la musica perfetta sarebbe quella che avesse per autore il poeta. Non intendo però pronunciar tale sentenza con forza attiva. Si oppongono gli usi, e le stesse facoltà delle due arti, che solo per eccezione non per regola troveranno un duplice ingegno ch' entrambe le abbracci. Che se anco ciò accadesse, non potrebbe già quest' uomo raro compor una musica essenzialmente diversa da quella che omai è universalmente accettata. Potrebbe bensì stringere saggio legame fra le due sorelle, e coll' imitazion della prima corregger nella seconda, benchè inveterati, alcuni abusi; e non avendo con un cooperator troppo diverso a contendere, mercè la forza della sola sua mente, potrebbe mostrar tale lavoro, da colpir d' ammirazione il popolo ancora che non ne capirebbe però intiero l' intrinseco artificio.

XXX. Ma il caso men improbabile essere può omai quello, arridendo eziandio avventurose circostanze, che il [-102-] poeta espertissimo nelle cose musicali, diriga il musicografo, il quale sebbene non nato vero poeta, il sia mediocremente, od abbia almeno studiata poesia in un completo corso d' eloquenza, e pongasi a compor musica con quell' animo onde Fidia ritraeva da' versi d' Omero l' immagine di Giove scuotitor dell' Olimpo. Allora parrà in entrambi quasi una sola mente ed un solo zelo: disegnar l' uno, colorar l' altro il quadro, nel quale ogni cosa concorra nella ragion dell' arte disegnatrice, nè i vivaci colori sien profusi ov' esser non denno, nè, bizzarra licenza! le tinte vadano prodotte più oltre de' disegnati contorni, colla scusa che questi segnan un troppo angusto spazio, dove non si può in tutte le sue graduazioni distendere il multiplice impastamento. Ed allora sì che tornerà esser virtù e bisogno ignoto il presentar ogni musicale pensiero in tutt' i suoi melodici e armonici aspetti di cui è suscettivo. Se la musica non avesse riti antirettorici, tutti diversi da que' della poesia e dell' eloquenza, si chiamerebbe questo un vizioso metodo parassito; almeno una poca economia del bello, la quale può farlo degenerar in sazietà. Infatti Ovidio tra' Latini, e Cornelio tra' Francesi son rimproverati per questo sazievole rappresentar in diverse forme le idee. Il Santucci perciò, biasimando anche nella musica siffatta maniera, chiama la moderna: musica pettegola. "Spogliate una gran parte delle moderne composizioni... di que' replicati battimenti d' una stessa nota, d' onde derivano cantilene, nonsolo leziose, ma pettegolesche eccetera." E questo pettegolesche gli è pure ben detto a proposito di esse cantilene, cui i maestri vanno raggirando per ogni verso, anche a costo del vero, come soggiunse lo stesso Santucci: chè tal è il costume delle donnicciule nel lor volgare cinguettare!

Qual mai ragione a questo rivolgere il musical discorso in tutt` i suoi lati? S' egli è l' espressione del discorso vero, tragge da questo il pensiere, le modificazioni, la durazione. Ma se è l' istrumental espressione d' un tema che il compositore veda astrattamente nella sua fantasia, dite pur allora che la necessità di volgerlo, riprodurlo, allungarlo non è che un immaginario bisogno d' arte supposta, che mal si emancipa dalle regole generali d' ogni bell' arte, le quali consigliano brevità che lasci andarne altrui non saziato, e con un pochin di desiderio.

[-103-] Infatti dice il Tadini nel libro: Considerazioni sulla musica e sulla poesia: "Questi maestri di musica, spargendo inutili sudori, contravvengono al gran precetto delle belle arti, nelle quali occupa forse il primo luogo la musica, cioè: che si dee col meno possibile ricavarne il più possibile. Questa regola rese immortali i Raffaelli, i Tiziani, i Palladii, i Pergolesi, i Metastasii, i Canova. La trascuranza di questa massima, e l' abuso dell' armonia, credo, sono le due ragioni primarie per cui ora non fanno verun effetto sull' animo nostro le presenti composizioni musicali".

Cotali cose appariranno viemeglio nello stesso esame delle parti elementari componenti la melodrammatica versificazione, a cui tempo è ormai di passare.

XXXI. Nella locuzione la parola costa di sillabe lunghe, di sillabe brevi; ossia di sillabe accentate o non. Nella musica le note, che ne sono le sillabe, altre in battere, altre in levare, il chè dicesi tesi, ed arsi. Ciò è quanto dire: le lunghe, e le brevi della musica. Nella parola italiana distinguiamo una lunga, detta accento, e tutte l' altre, se ce n' ha, sono brevi. Fa punto d' appoggiamento su quella la voce, come il corpo sempre si libra sopra un de' due piedi. Ma nelle lingue vetuste potevano esser più lunghe in una parola, e quel che al nostro non abituat' orecchio è incomprensibile, talvolta tutte brevi, senza un per noi necessario appoggio. Come fosse la distribuzione nella musica di esse lingue dotte distintamente non sappiamo. Nella musica nostra dopo un tempo in battere vien sempre l' altro in levare, il chè dicesi battuta in dupla; oppure dopo il tempo in battere due in levare: battuta tripla. Quella appartiene al tempo pari, al dispari questa. Si rinovella il tempo pari nella quadrupla, ch' è raddoppiamento della dupla, inguisa però che il primo battere sia più forte, il primo levare men debole de' loro secondi. Questa maniera vogliono alcuni secondaria, infatti ha entro sè sottintesa due volte la dupla in un modo figurato. Non mi diffonderò sugli altri successivi tempi, anche più composti, e secondarj, che a me non s' aspetta.

XXXII. Si pretende che nella greca sociazione di quella musica e poesia perfetto fosse il risultamento d' entrambe, mercè le comuni brevi e lunghe; cheanzi le poetiche servisser di norma, di meccanismo, e di note alla melodia, [-104-] all' armonie. Fra noi certamente non è così, anco perchè il maggior numero delle brevi sulle lunghe non può fornir alla poesia il frequente, ordinato ritorno del battere, or alternativamente, or ogni due brevi.

XXXIII. Non essendo la concordia negli elementi stessi del verso, il musico non ha dal poeta i materiali primitivi tagliati a sesta, e dee far appunto come quel muratore che fabbrichi non co' mattoni di misura, ma con ciottoli d' informe natural figura, come dicevano gli antichi: Opus incertum.

Ogni parola è piede, ma indeterminato, perchè con una lunga nè più nè meno può unirsi un numero qualunque di brevi. Privi in tal guisa di piedi, formiamo il verso stesso tutto d' un pezzo, quasi grande piede, colle lunghe disposte a certe sedi fisse. Ma non però ne segue un' armonia che quella fia identicamente della musica, inguisachè, nè battuta in questa, nè in quello accento manchi, o sopravanzi, o sia privo di concorde coincidenza. Cheanzi poche sillabe lunghe di parole, che sono gli accenti obbligati del verso, portano sopra di sestesse, quasi per ventura, il ritornar costante della tesi musicale; ma il resto è cotanto irregolare, che nulla più facile dell' incontrarsi essa tesi sopra sillaba breve.

Tutto, dissi, era renduto a maraviglia nella musica delle lingue dotte. Pure credesi volgarmente l' esametro degli antichi vario nella quantità, e stabile il nostro endecassillabo; ma la cosa, per chi addentro sente, è opposta. Nè dico paradosso. Altro è il numero d' un verso, altra la numerosità, se mi è lecita questa nomenclatura, nel caso mio sommament' espressiva. Si tiene che la lunga equivalesse a due brevi, consumandosi nel pronunciarla un tempo eguale a un pajo di queste. Quind' il dattilo, composto di due voci, precedute da una voce doppia, era proporzionalment' equivalente allo spondeo di due voci doppie. Perciò l' esametro, anche ne' quattro primi de' sei piedi suoi che liberi erano, e perciò potevano dar tanto la quantità numerica di otto sillabe, quanto di dodici, riesciva sempre di sedici voci, e così tutto il verso di piedi sei in voci ventiquattro. Per lo contrario se nel nostro endecassillabo si tenesse conto con egual ragion delle lunghe, accaderebbe che questo verso

[-105-] "Quando Gesù coll' ultimo lamento"
avendo cinque parole, e per conseguenza cinque accenti, o lunghe, fra sei brevi, riescirebbe di voci undici e cinque sedici. E l' altro
        "Schiuse le tombe, le montagne scosse"
di sei parole, e sei accenti, perciò verso di voci diecisette.

La differenza poi fra la lunga e le due brevi, fra la voce doppia e le due voci, consisteva, penso, non nella durazione ch' era la stessa, ma nel carattere diverso, che dav' appunto varietà opportuna, con imitativa espressione ai versi: mirabile semplicità, melodica e pittoresca! Così la musica era nella melodia stessa de' versi un per uno, come fra noi risulta da più versi nel metro loro complessivo.

Queste cose fanno conoscere ch' eguale non è la natura di nostra musicale poesia coll' antica, e nemmeno radicalmente pari l' indole di musica e poesia fra noi stessi. Ed è tanto vero, che i legislatori della musica hanno prescritto un ordine tutto diverso, e si sono studiati ricavarne le bellezze da contrario metodo. Il chè prima di ragionare, voglio porre qui una specie di tavola, d' ogni verso nostro in tutte le sue varietà d' accenti, acciocchè se ne vegga nontanto la concorrenza co' tempi delle musicali battute, quanto le lacune che rimangono nella continuata versificazione fra verso e verso.

XXXIV. Prima però deesi notar la diversità che passa fra' versi parissillabi ed imparissillabi. Chiamo parissillabi quelli che apparentemente costano d' un numero dispari, ma pari poi nell' effetto, conciossiacchè dopo l' ultimo accento non si contano l' altre sillabe, nè altrimenti come se la parola fosse tronca: e sia pur piana, o sdrucciola. Questi versi parissillabi han un suono piano ed equabile, come quelli che non contraddicono al ritornar degli accenti di terza in terza o di quinta in quinta. Non contraddicono, perchè si considerano solo gli obbligati. I versi parisillabi han l' andamento del camminare a passi egualmente alternati. Gl' imparissillabi dan un suono di contrattempo, e che ritarda sestesso, qual chi ballando muova un piede doppiamente dell' altro. È così diversa la natura di questi versi, che giammai s' intessono assieme, sempre mescolandosi l' endecassillabo, il settenario ed il quinario; e potendosi accomunar ottonarj, quadernarj, senarj, decassillabi, [-106-] ma non questi con quelli. È l' orecchio del poeta è in ciò anche più delicato che quello del musico, perciocchè, come n' ho conferito ancora con uomini della professione, non son così caratteristiche le differenze de' tempi pari verso i dispari nella musica, nè, come vedrem a suo luogo, suscettivi dell' espressione di cose opposte esclusivamente; ma nella poesia la serie de' versi dispari è ripugnante a quella de' pari.

XXXV. A dimostrar che non è costante, anzi può riuscir contradditorio il cader degli accenti musicali sui poetici, almeno secondarj, scieglierò apposta versi che dieno luogo a questi difetti. Ma senza ciò ancora vuolsi por mente a tre cose. Prima: L' ordine delle battute non suole cominciar col verso, ma solamente allorchè può accordarsi una nota in battere col primo accento obbligato. Seconda: L' accento caratteristico risponde ad una nota tempo in battere, ma non ogni tempo in battere trova un accento nel verso. Terza: La proporzione nella disposizione degli accenti uno è durevole da verso a verso, dimodochè afferrato una volta il passo, si possa continuare; cheanzi conviene rimettersi in pari quasi a ciaschedun verso.

L' endecassillabo ha l' accento sulla quarta e ottava, ovvero sulla sesta. Ommetterò in qualunque verso di nominare l' ultimo accento indispensabile. Ecco gli esempj. A significa Arsi, e T vuol dir Tesi.

A    T   A  |  T    A    T   A  |  T    A   T
Dòl  ce  co | lòr  d' o  ri  en | tàl  zaf  fi ro
A   | T    A     T    A  | T      A     T   A  | T
Càn | to  l' àr  mi  pie | tò  se e ìl  Ca  pi | tà no
Dall' osservazione sulla combinazione degli accenti segnati nelle loro sillabe, e sulle lettere T ed A s' accorgerà il Lettore delle parecchie scambievoli contraddizioni. Guardisi poi, come le frazioni di battuta, che sono in principio, e in fine di verso, richieggano qualche quarto d' aspetto, per riprendere un simile verso che seguisse.

Notano i musici il verso composto de' due suddetti, accentato quarta, sesta, ottave, come suscettivo delle duple battute. Ma noi scrittori non lo consideriamo d' un' armonia a parte. Poi è facile incontrar di quelli, ne' quali subitamente la seconda sillaba ricusi l' accento. Eccone uno:

[-107-]

A  |  T   A  |  T    A   |  T     A  | T     A    |  T
Se | gni  ri | dùs  se i | suòi  com | pà  gni er | ràn ti
Endecassillabo di quarta e settima:
 T     T   A  |  T    T     A   |  T   T    A  |  T
D' av  ve  le | nàr  tut  to il | mòn  do  col | fià to
Delle tre battute in tripla la prima tesi cade sopra una breve.

Dissi l' orecchio del poeta più difficile che quello del musico ancora. Infatti se quest' ultimo è contento aver trovata qui la concorrenza delle battute in tripla, il poeta non sa concordare un muovimento dispari col verso parissillabo. Anzi, secondo il suo modo di udire, gli riesce verso anfibio, come quegli che nella sua prima metà risulta parissono, ed imparissono nella seconda. Perciò lo ha per uno spondaico, di suon sordo cioè, del quale poeticamente si serve o ad esprimere cose stentate e dissonanti, od a temperar colla sua dissonanza la soverchia melodia della equabile versificazione. Si mescola dunque parcamente a' versi equissoni suddetti; ma come può il musicografo mescolar battute dispari alle pari?

Questo verso però di quarta e settima non esiste perlopiù, ma si risolve naturalmente in quello di sesta. Perciocchè fuor di qualche raro caso in cui si voglia rozzo propriamente, ad imitar alcun suono aspro, dee aver l' accento nella sesta su d' un monosillabo, acciocchè la voce possa bilanciarsi comune fra l' un appoggio debole e l' altro non regolare, mantenendosi così leggera, con un suono temperato, che rallenti la troppo continuata armonia di sonora versificazione. Ora in musica puossi la voce decidere per l' accento di sesta, e tutta ivi appogiandosi, eludere cotali versi di settima, nè più formar ambiguità fra 'l muovimento parissono ed imparissono. Ecco esempio anche più chiaro:

Piacciati omài col tuo lùme ch' io torni.

L' accento sulla settima, di cui la collocazione non è armonica, viene preparato dal mezzo accento, dirò così, sulla sesta, la quale sebbene sia un monosillabo, la pronuncia, appoggiandosi parte sulla settima, e parte su lei, acquista forza a portar il peso del verso, nel modo seguente:

Piacciati omai col tùo lùme ch' io torni.

[-108-] Veniam al decasillabo, in cui niuna musica può aggiungere a quell' innata sua armonia, che batte distintissimamente in tripla. Eppure il medesimo effetto è contraddicente colla musica, perchè soltanto nella terza sillaba mettesi la man del maestro in accordamento coll' accento poetico. È contraddicente l' effetto medesimo, perchè dalla musica si ottiene, battendo sempre delle tre note le due prime, e nella poesia per lo contrario accentando continuamente la terza sillaba, come anco più efficacemente sente l' orecchio:

 T   A  | T   T    A    |   T   T   A   |  T
Più  ve | lò  ce  s' af | frèt  ta  nel | còr so
Non tacerò che il decassillabo, anzichè d' un suono ritardato e grave, risulta scorrevole. Però se non in ciò, ritiene il carattere de' versi dispari nel non avere il piano andamento de' pari; cheanzi è il solo fra tutti gl' imparissillabi e parissillabi che segni nè più nè meno la lunga e le due brevi d' ogni piede, quantunque coll' ordine onde il fa non s' accordi pienamente alla musica.

Maraviglia l' Asioli nel suo Maestro di composizione, come del novenario non si faccia uso, giacchè prestasi ai ritorni delle battute. Ma se accade ciò teoricamente o casualmente, non è altrettanto nello spirito della cosa: prova forse novella di non conforme indole fralle due arti. La ragion poetica rifiuta il novenario, qual verso prosaico; e se nell' armonia consiste il verso, meglio è confessare che la natura ci fu avara d' un verso di nove sillabe, come di dodici la fu. Non può esser dunque melodioso in musica ciocchè prima in poesia non è. De' due novenarj poi, che si sogliono proporre, uno ha men suono anche dell' altro, perchè questi involve l' endecassillabo di cui è parte: ma sembra desiderarne la continuazione, mal potendosi librar in sestesso sonoramente. Veggasene l' esempio:

   A duro stral di ria ventura,
   Misero me! son posto a segno;
   E il fero duol ...
I quali tenderebbero naturalmente a farsi endecassillabi nella maniera seguente:
   A duro stral di ria ventura, misero!
   Misero me! son posto a segno; e il fero ...
[-109-] Ottonario di terza, con tempo pari:
 T   A  | T    A    T    A    | T
Tor  ne | rà, non  tel  diss' | ì o?
Ma se al musico torna l' accordare all' ottonario un tempo pari, per l' orecchio del poeta il verso tuttavia suona imparissillabo.

Settenario di quarta, con un tempo pari:

 A   T    A  |  T     A  |  T
Tùt  ti  per | l' on  da | chià ra
Settenario di terza, in tripla:
 T    A  |  T    T   A  |  T
Con  sos | pìr   mi  ri | mèm bra
Questo verso è spondaico, cioè assono, come negli endecassillabi quello di quarta e settima, e serve fra' settenarj agli stessi uffici. Ma nelle canzoni propriamente a cantarsi rifiutalo il poeta, perchè non sostien, e disperde la melodia, e lo potrebbe rigettar il filarmonico, perchè gli farebbe mescolar il tempo dispari al pari.

Senarj, con tempo dispare:

 A  | T    T     A  |  T
Pas | tò  ri in  no | cèn ti
Questa versificazione cammina maravigliosamente.

Il quinario è verso senz' accenti obbligati, non computando mai l' innato d' ogni verso sulla penultima. I musici dunque, qualora in questo verso, e in altri richieggano accenti oltre gli obbligati e tengano conto di accenti casuali, van più oltre de' limiti dell' arte poetica, e fan vedere che nonbene s' accordano le origini delle due arti.

Non si trascuri però in questi versi facili e brevi, come fecer alcuni, di accordare colle versificazioni parissillabe tempi pari, e viceversa. Del restante difficil cosa si è mantener le distribuzioni continue d' accento, il perchè la musica scorre superficiale, lambendo solamente la melodia complessiva de' versi. Non era però così delle lingue antiche, ove adoperavansi con disinvolta costanza lo spondeo, il giambo, ed il trocheo, che rendevano il valore obbligato delle sillabe anche a due.

XXXVI. Acchè, dirà forse il Lettore, cotanto sottili teorie, se già non può essere il caso della nostra lingua metterle in opera? Giovi insegnarle, ancorchè non possano identicamente risultare nelle pratica. Poscia se hacci gravissimi [-110-] autori che non si fan giuoco di quella maniera dello strettamente misurar le note colle parole, ma la commendano, come propria della verace musica ed originale, sarebbe vergogna non conoscerla, per trarne lume ancora indirettamente nell' opposto metodo della musica moderna.

Non legato il numero musicale al poetico in tutti gli accenti, ma solo ne' più caratteristici, come siam venuti esaminando, convenne aspettarne il ritorno, e rotondar le frasi in sestesse; quindi, ammesso il caso, si venne a produrre, anco senza la detta necessità, queste ripetizioni, e moltiplicarle e prolungarle nella stessa guisa, e fare lo strascico a quello che dicesi pezzo musicale. Gli accenti non obbligati, sebbene in essi qualche volta i musicografi trovino casuale la concorrenza col tempo battuto, ripeto, sono per l' orecchio poetico pressochè inutili, mentre il poeta pronuncia indistintamente brevi tutte le sillabe fino alla quarta ed anche alla sesta.

La Musica un giorno incontratasi a caso per istrada colla Poesia, si fecero compagne, ed al cammino che impresero a proseguir insieme posero diversi patti, ed eccezioni, ed uno specialmente, che per salvare le rispettive convenienze, non camminasser di pari passo ma di contrattempo, inguisachè muovendo una prima, l' altra dopo, non si avessero a trovar mai nelle stesse orme. Fu anzi finalmente deciso che questa partisse in barca, quella in cocchio. Eguale ad entrambe la meta e la via, ma il legno dell' uno strisciava sordamente sulla molle acqua; il cocchio dell' altra volgeva fragorosamente le ruote fra l' alternare delle suonanti zampe de' ferrati destrieri. Ben potevano fra loro conversare favellando, finchè la via di terra più o meno seguiva i diversi andamenti del fiume, or su or giù l' argine; ma giunte dove il canale, pel natural pendìo dell' acqua, o pelle idrauliche leggi incurvandosi, errava lunge dal dritto sentiero, l' una eludeva direttamente la tortuosità, quindi allontanandosi dalla sponda, o doveva interromper le parole, o alzar soverchiamente la voce per farsi udire dall' altra, e finalmente non esserne intesa; sinchè ritornando a guadagnar la ripa, vedeva restato di grande pezza addietro il naviglio lento, dal quale per lasciarsi raggiungere, le conveniva restar, o fare ai rattenuti cavalli ribattere sempre le stesse orme, ovvero ritornar indietro, per godere la conversazione della sua compagna. [-111-] Finalmente al termine del viaggio, il corso d' entrambe trovossi variamente arrivato alla meta comune d' una stessa città, nonsenza però entrare da due porte affatto diverse.

Inutile cura sarebbe l' assegnare alle sillabe accentate un valor doppio delle brevi, ove non è conservato dalla precisa quantità musicale il corrispondente metro poetico. Non intese il Manfredini questa distinzione, quando, tenacemente sostenendo contro l' Arteaga, che nella musica nostra si ha cura di dar doppio valore agli accenti, trascorse fino a scrivere: che i piedi altro non essendo che certe dimensioni in cui si divide il verso, anche il nostro è soggetto a tale divisione, e che in poesia tali parole vagliono lo stesso (replica XX). Non intese, dissi, la differenza che passa fra poesia ritmica e poesia armonica, mostrandosi così tanto ignorante delle cose letterarie, quanto all' Arteaga rimproverava essere nelle musicali teorie. Il periodo d' una moderna melodia non avendo altri limiti di durazione che l' altrui fantasia, e l' astratta imitazione della poetica strofa, non si tengono a conto, non si calcolano nella somma finale queste raddoppiate note, ov' è lecito ridire per entro, e riassumere in fine tuttoquanto si vuole. Della quale libertà il compositore si prevale cotanto, che lo Stigliani, citato dal Baini, giunse a dire: "Ponendo i musici un' altra armonia che non s' accorda coll' armonia poetica, fanno agli uditori quelle note parer prosa. L' armonia formata dal versificatore, nelle lor note s' annulla e si disfà." Nè meno disfanno i metri e le strofe, di cui parlerassi a suo tempo, dividendone i versi in cesure informi, od anco in frazioni di prosa. Inutile perciò sarebbe comporre quelle strofe con tanta diligenza, se non ne traessero essi un vantaggio indiretto.

XXXVII. Imperocchè il maestro legge un' aria, onde gli suggerisca l' idea del motivo; e quando poi n' ha tratta l' invenzione, nulla si cura più che le forme subalterne rendano insieme ciocchè ottiene in più facile modo complessivamente. Così dalla forma della poetica strofa ricavasi una maschera, che le si sovrappone poi nuovamente, la quale non ne ha le singole parti, sibbene, astrattamente, ingigantita la fisonomia.

Nè si creda essergli questo un lievo presidio. La cantilena, ch' egli forse dirà figlia della sua fantasia, gli sarà suggerita nonmen dal sentimento che dalle forme materiali della [-112-] ben composta strofa poetica. Infatti qualora ripetesi senza le parole, o qualora un istrumento di suon umano è sostituito alla parte del cantore, si sente proprio nell' armonia strumentale la sottintesa favella. Più dico, che nella prosa, e nella stessa musica strumentale il compositore, a dar forma alle melodie, si serve sempre di quelle idee, di quelle maniere che imparò dall' uso di comporre pel canto e pel metro poetico. Ma se questo metro poetico serve loro a suggerire il musicale, non si fanno scrupolo di guastar quello nelle parti subalterne, per servire a certe pretese comodità; e se non essi, lo fanno i cantori. Ho vedute perfino carte di musica stampate di questa strofa guastata così:

       Mira, o Norma, a' tuoi ginocchi
         Questi cari tuoi pargoletti.
         Ah pietade di lor ti tocchi....
Per dir vero nemmeno alla ragion drammatica gioverebbe che la musica rendesse un troppo rotondo poetico metro, perocchè il canto declamante dee partecipare alquanto, relativamente però al suo carattere, alla libertà di recitativo, e almeno le artificiali sue forme dissimular diligentemente, sfuggendo ogni lirica apparenza. Dunque si può rinunciar facilmente a ciò che non deesi ostentare; ed anzi fia minor pericolo di eccedere. Senonchè eccedono i musicografi, che nella libera imitazione danno in grande al metro musicale moltopiù leziose foggie che non sarebbero le ristrette del poetico.

Coloro che adoperano così mi sembrano simili a que' superficiali architetti, che prendendo a incrostar una facciata nuova sopra vecchio tempio, e ritrovandolo a creder loro basso, quasichè l' altezza sia pregio delle fabbriche, la dividono in due ordini, ove al di dentro la cella è d' un solo, separati con impiastro d' un significante cornicione cui nulla in profondità corrisponde; poi l' ordine superiore raccomandano ad un muro eretto oltre il vertice della fabbrica, del quale, solchè tu guardi un po' di profilo, le colonne, la somma cornice, il fastigio vedi esser tuttiquanti ridicola menzogna, e non aver dopo di sestessi che aria vana. Quest' esempio in un' arte non di convenzione, quale l' architettura, accusa il poco buon senno degli artisti, ed il barocchismo a cui han essi ridotte l' arti, passato purtroppo parte in natura delle medesime.

[-113-] Il comporre che dicesi a nota è parola, ed il far qualche volta un' aria in tante misure musicali quante le poetiche, senza eccesso o difetto, non è che una maniera che va confusa colle tante, uno scherzo usato di raro, anzi cosa cui nemmeno si bada. Su que' principj radicata è la musica, e conviene che proceda innanzi così; e certamente sarebbe un Ercole chi osasse smuovere queste colonne.

XXXVIII. Ciò potrebbe però accadere ogniqualvolta il poeta fosse ancora il compositore delle note, o questi scrivesse musica poeticamente, ovvero l' uno e l' altro, col tavolino accanto al cembalo, lavorassero nell' opera comune, quasi nascente al tempo stesso, e con fine prima poetico che musicale. Nel primo caso è il Vecchi, doppio autore dell' Anfiparnaso, e pel quale sembrava che l' opera nascer volesse un' arte poeticomusicale; ma l' esempio contò appena seguaci, e nonmai segnalati. Nel secondo è il Rinuccini col Caccini ed il Peri, che però non furono abbastanza forti per creare intiera la musica teatrale. Si servirono di quella che già era delle chiese, rinfrescandola, non ricomponendola. Non vivevan essi appo una di quelle nazioni prime, allorchè il poeta colla cetra in mano componeva quanti versi volevansi alla durazion della melodia, che, mentalmente concepita, tramandav' al suo istrumento, ovvero prolungava, ripeteva, variava l' armonia finchè durava il melodico argomento. Ed ecco come da questi stessi elementi risulta sempre la prima conseguenza, che accennata di sopra, mi è piaciuto qui riassumere.

Non si puote omai che consigliare: quanto più spesso il musicografo comporrà con note e parole, e le melodie e l' armonie della stessa misura che i canti, farà grande senno, chechè possa dirsi generalmente in contrario dagli altrimenti abituati. Mi scrive un intelligente: "Tutte le cantilene della Norma sono così intelligibili, tutti i periodi così marcati, che n' è facile per chiunque l' intelligenza".

Della versificazione si è detto abbastanza, perciò innoltriamo a trattar delle forme onde si compone l' andamento del melodramma.

XXXIX. Fra coloro i quali voglion nell' opera una musica per eccesso non drammatica, e gli altri che in opposizione non sanno a niun patto accomodarsi, udir uomini sollevar la voce al canto per favellare, giovami l' estremo de' primi [-114-] a render tolleranti que' secondi, ed incomincio dimostrare per quali gradi s' animi la voce, sublimisi al canto.

Il primo passo è più arduo di tutti; e sebbene si biasimi generalmente nel cantare l' abuso, che fa ribalzar la voce, declinando dalla piana melodia, declina in certo modo maggiormente quando invece del favellar ordinario, insorge ad un qualsiasi anche trivialissimo accento sonoro. Pur si ricordi che a' Greci non sembrava strana cosa.

Ingegnosa è l' osservazione, o supposizione che fa l' Arteaga, per dar ragione di quella che a noi sembra maraviglia, cioè come non indebolisse il commuovimento destato dalle greche tragedie l' esser esse pronunciate col canto; e dice: Che la pronunciazione armoniosa della lor lingua così al cantare accostavasi, da trovar già gli orecchi de' greci ascoltatori predisposti. Tuttavia se non cantavan propriamente i Greci favellando, rimaneva sempre gran passo a farsi fra una prosa melodiosa ed un verseggiar cantato. A nostro modo d' intendere, intollerabile ne sembra chiunque, anche senza slanciar la voce al canto, recita prosaicamente con cantilena, che dicesi per dispregio, cantare. La stessa declamazione più lodevole de' versi, e quale la introdusse Talma fra' Francesi, e quale fra noi la versificazione Alfieriana l' esige da' recitanti, anche men periti, senzachè se n' accorgano essi, non distà dall' ordinaria pianezza fuorchè permezzo di sostenuta maestà, e di robusta accentazione. Udii narrar la beffa che certi suonatori fecero a' gabellieri di Lucca. Andando coloro a quella città per suonar in una festa solenne, mentre il Gabelliere interrogavali sulle porte, se avesser robbe a dover pagarne dazio, un d' essi, tenendosi il violoncello fra le ginocchia, faceva il basso alle dimande del Lucchese (perchè la lingua di Lucca, dicono, sollevarsi a suon melodico); del chè disdegnatosi quel Custode, vieppiù sollevava la voce, e veniva dar al suonatore migliori accordamenti per violoncello al cembalo. Dunque con quest' esempio potrà dirsi che la lingua italiana in un de' suoi dialetti abbia naturali gli accordamenti musicali, e che si possano cantar senza inverisimiglianza almen opere in linguaggio lucchese?

XL. A me piacque piuttosto men sottile ma più odierno fondamento della ragione d' uno scenico canto, ponendolo nongià su certa proprietà e affinità che ne abbian [-115-] le lingue, ma sopra l' istinto degli uomini pel bello ideale che sommamente li diletta. Questo, come dissi, dapprima sospinse l' emula voce de' suoni usciti dalle elastiche gole degli uccelli a sollevare, quas' il facessero quei, l' inno al Creatore, cantare, e descriverne l' opere, con poetica ebbrezza esagerandone poscia e sublimando le bellezze in suono di piucchè naturale soavità. E questo amor del bello li venne quindi, e li vien certamente a' tempi nostri consigliando adattar siffatta dolcezza di voce (poichè il metodo poetico dello stile e della frase è invalso anche nella semplice tragedia) ad una razza d' uomini, che come da noi remota per vetusti tempi, e superiore pelle magne azioni, lo sia così nella stessa esquisitezza negli organi a favellare. E lo spettatore, per bearsi della soave illusione di questo mondo immaginario, dee conceder il patto di credere che uomini possano parlargli in così purgata e venusta voce, che sembri melodia di canto. Il melodrammatico autore altresì convien che stiesi ne' limiti della ipotesi, e nella ragionevolezza dell' arte sua, e prefigga a sestesso un canone principalissimo, che la voce non debbasi sollevare e spandere al canto senonse come, quando, e quanto esige la maggiore espressione degli affetti e delle passioni.

L' abitudine opera il restante. A guardar fissamente o statue, o pitture, o stampe, si dimentica perfino, quinci il mancar del colorito, quindi del rilievamento, là d' entrambi. Che anzi volle alcuno colorar le scolture, ma n' ebbe il peggiore, perchè sebbene a' poco pratici debba sembrar allora null' altro mancar che la vita, pure al giudicio de' savii moltopiù è da preferirsi in arte lo smorto del marmo, e perfino l' orrido del bronzo. Se dunque per servire alla ragion dell' arte si scema fin ciò ch' è verità innegabile in natura, nè però sembra inverisimile una nudità tanto al vero contraria, chi oserà, sebbene per opposta ragione, spogliar la drammatica del canto, con sofistico timore che la renda men verisimile?

Mi ricordo aver veduto per un corso continuato di recitazioni rappresentare il Furioso per amore, ove un Attor cantante valeva tanto in quel carattere del Matto, quanto lo scultor d' Orazio a finger molli capelli incomparabilmente. Avevami questi ridotto a tale di non rammentar più che la sua parte non fosse semplice prosa. Eppure il pazzo [-116-] tema di quest' opera è fra quelli che al genere del vero melodramma, e al bello ripugnano assurdamente.

XLI. Abbiamo veduto che la convenzione d' una declamazione, che si allontana dalla severa verità per sollevarsi al bello ideale, principia perfino dalla declamazione di verseggiata tragedia, e questo primo grado, d' onde si comincia ascendere dal piano, che è la recitazione della prosa, fa autorità e ragione al secondo, che sarà un pianissimo canoro accento. E sia pure lodevolmente naturale l' esposizion della versificazione, fia sempre poetica. E sotto diverso aspetto, con sublime avviso esaminata l' una e l' altra cosa, non so chi a stretto rigore avrebbe più ragione. Soltanto, come dissi nel libro primo, favellando piuttosto secondo le apparenze, che col rigore del raziocinio, si sosterrà che offenda maggiormente la mente un melodrammatico interlocutore, che presentandosi, alza la voce a parlar cantando, diquellochè faccia il tragico attore in versi declamando; mentre a regola di logica il fallo, doppio o semplice sia, è un fallo, che in ogni modo declina ed esclude sempre la perfezione; dunque discorrer in versi e discorrere cantando, son due cose dal vero lontane, più o meno che il possano sembrare l' una o l' altra all' orecchie prevenuto di chi ascolta.

Inoltre Engel scrive all' epistola trentesima quarta, come tre sorta di ritmo hacci nel ragionamento, cui corrisponde con egual divisione la declamazione: quello della poesia propriamente; quello dell' orazione; quello d' ogni stile famigliare. Soggiunge poi, fra questi gradi esser tale affinità, che permezzo d' intermedie graduazioni si vengono a fondere in una variabile cosa sola. Applicando la sentenza alla drammatica, dirò, con anche maggior evidenza, che il canto discende alla poetica declamazione, questa alla prosa; e generano questi tre gradi due intermedie tinte, con altre molte graduazioni minori; perocchè il canto pateticamente figurato (per non parlare del lirico) mette alla declamazione, permezzo del canto declamante, e la declamazion poetica, pella declamazione prosaica, passa al rimesso favellare.

XLII. Quella più piana maniera della canora declamazione chiamasi, forse non bellamente, recitativo. Qualunque fosse la foggia perduta colla quale i Greci declamavano cantando, il senno ne insegna, perchè si veda di quel cantar [-117-] la ragione, e raccolgasene il frutto, dovere la voce incedere grave nelle cose suscettive di espressione, o correre violenta, o andare di passo temperato, col suo suono insinuando nel cuore il significato de' vocaboli, e proceder poi leggera e più spedita in quelle che accennano indifferenti oggetti, o servono di subalterna legatura. Il muovimento della voce sia canto e non più: la norma del quale, e in uno il dilettamento non nasca d' altronde, che dalla prefata espression fedele delle parole. In tale maniera si armonizza il chiaroscuro del drammatico quadro mercè quello de' musicali colori: a cui aggiungesi l' espressivo silenzio delle pause, che in un favellar canoro acquistano quell' evidenza e valore cui non hanno nel parlare in prosa, anco perchè quest' interposti silenzj tengonsi in conto di ragionamento, mediante l' accompagnamento istrumentale indispensabile al recitativo; quantunque in verità novella e maggior convenzione richieggasi per ammettere un suono che echeggia sotto l' umana voce, mosso da non si sa chi, senza che n' abbiam l' idea nel vero.

XLIII. L' istrumentazione significa ed esprime, come abbiamo già definito, quella sensazione che in noi genera il canto, al quale va come innanzi, ed entrando per l' orecchie, scuote con maestri tocchi le fibre, e insegna ad intervalli alla mente le principali emozioni che destar dee la melodia. Il suono dunque ch' emana dagl' istromenti divien poi naturale, perchè associasi al nostro sentimento, e si cangia insensibilmente in una voce, ed un' eco che risuona, e ribatte entro di noi.

XLIV. Se debbe essere semplicissimo il suono istrumentale, che pennelleggia come l' ombre ne' quadri, e dà risaltamento alla declamazione, non approvo però quell' usanza che il fa consistere negli accordamenti del basso al cembalo, il quale, mentre in senso musicale è il sostenitore dell' armonia, in senso superficiale forma una nojosa disarmonia, se lecito è dirlo, con quel lungo, uniforme mugolare, cui potrebbesi adattar e generalizzare il verso

                   "quel violoncello
      Pare un bue che va al macello."
Non siano dunque meccanici tocchi d' un istrumento, ma semplicissime armonie, composte dall' autor della musica, e tratte da varj relativi istrumenti, che formino l' accompagnamento [-118-] del recitativo anche il più dimesso. Conviene ancora il recitativo tutto scritto dal musicografo per toglier ad esecutori svogliati, come spesso accade, di trattarlo in maniera più negletta, e con voce più affrettata della prosaica recitazione.

XLV. Stabilita una volta l' espressione nell' accento della canora intonazione, vien di conseguenza che ove la passione, facendosi più intensa, dà maggior forz' al discorso, anco la voce, or sollevisi più forte, or estendasi più espressiva, ne' diversi concetti, vocaboli, e sillabe perfino. Quindi ogni drammatica modificazione avendo per interprete la musica, ne procederà naturale il musical discorso. E siccome in questo genere di pittura il colorito è canto, ne viene di necessaria conseguenza che aumenti questo appunto laddove si fa più risentita la patetica importanza. Ecco dunque il recitativo semplice passar al così dett' obbligato, in cui la voce si arresta più piena entro melodici membri, rafforzata dal suo frequente accompagnamento dell' orchestra. Approverò moltissimo che nei recitativi si imiti la già osservata cura del Metastasio in far gli endecasillabi di due versicoli, un settenario, l' altro quinario. Non so che alcuno dimostrasse ancora quale sia propriamente il verso di suono prosaico. Egli è qualora dopo l' accento, specialmente nella sesta, la sillaba che segue non attacca elisione colla successiva. Allora sembra che la melodia ristìa, e quasi colpita venga da un taglio che fessi il suon del verso. Alcontrario il verso ridondante è quello, che avendo elisione sulla settima, la sua melodia sembra ammezzo raddoppiare, ed integra in ambedue le cesure, quasi due versicoli veri, formare il verso complessivo doppiamente armonioso.

Parliamo ancor delle rime. Parcamente usate, son connaturali alla lingua nostra. Piacciono a legamento come de' versi, così d' idee simili o relative; e piace, in pronte risposte, od in contraddizioni, quella conformità e imitazione fin nel suono stesso delle desinenze. Nè si trascuri questa, sebben nuova regola: non combininsi nelle rime coloro che parlando non s' ascoltano reciprocamente: essere abuso quello di chi sovraggiungendo, fa eco alla desinenza d' un precedente discorso che non udì: e in generale doversi evitar anzichè no le rime ove non è relazione e legamento. Ma [-119-] indipendentemente da ciò, la cura meramente poetica dee esser riposta nel tener legata la successione del verseggiare, o facendo pausa alla metà de' versi, o se in fine, legandoli al susseguente, con ripresa di rima, finchè s' arrivi ad una pausa solenne, coronata di rimata desinenza. E qui vuolsi avvertire, che lo Zeno, forse per l' unica volta maestro a preferenza del Metastasio, evitò spesso quel troppo suono d' un distico in fine, preferendo, a foggia di terzetto, rimar l' ultimo verso coll' antipenultimo. Ed un' altra cautela mi piace in lui: finire sciolto il recitativo, e la desinenza dell' ultimo verso fare diventar rima con quella del primo nel cantabile.

XLVI. Sebbene non sia di questo trattato parlar della musica, pure indirettamente dirò, che l' accompagnamento istrumentale nel recitativo figurato dee dipendere totalmente dal senso delle parole, o le accompagni contemporaneamente, o ne riempia gl' intervalli. Non sia però sempre continuato, il chè appartiene al cantando, nel quale poi qualche volta l' istrumentale armonia non è continua come la melodia. Venga maggiorment' esclusa dal recitativo qualunque ambizione di suoni, e particolarmente il dar luogo di giuocare alla bravura d' un qualche suonatore. È qui, piucchè mai, difficile ricavar l' effetto vocale da un solo strumento, e nasconderne il meccanismo individuale. I più si studiano invece far risultare il contrario.

"E forse non disconverrebbe che una tale usanza (del recitativo obbligato) si facesse più comune ancora ch' ella non è. Qual calore e qual vita non viene a ricevere un recitativo, se là dove si esalta la passione... (eccetera). Un altro buon effetto seguirebbe, che non ci saria allora tanta la gran varietà e disproporzione tra l' andamento del recitativo e l' andamento delle arie, e verrebbe a risultarne un maggior accordo tra le differenti parti dell' Opera.... A meglio ottenere un più dolce accordo, savio partito anche sarebbe quello di lavorar meno, e di meno istrumentare le arie medesime." Algarotti, Saggio sull' Opera. E più liberamente il Milizia nel Trattato del teatro. "Dunque quasi consimile a questo si faccia tutto il recitativo, e da nojoso si convertirà in dilettevole, e tanto più, quanto più naturale ed esprimente." E non erano nati allora Rossini nè Bellini! E più avanti. "Volete delle [-120-] ariette toccanti? Fatele che esprimano e dipingano il sentimento del poeta; fatele nella maggior naturalezza, e come suol dirsi, parlanti."

XLVII. Potrebbe la melotragedia arrestarsi su questa sorta di recitativo, ed esser un genere di dramma venusto e ragionevole ad un tempo? Dicesi chè no, e vuolsi sia per riescire insoffribile un lungo e continuo recitar cantando. Io, colle stesse massime spiegate intorno al caso di cantar la tragedia, distinguo: ad orecchie che han già saporata la voluttà del canto propriamente tale, posto in azione, impossibil sarebbe avvezzarsi ad un metodo che tanto ne ricorda le ricchezze, nè le offerisce però, come a chi è accostumato alle carni e succulente vivande vano sarebbe consigliar i semplici sapori de' salubri legumi, degli erbaggi, e del solo dono di Cerere. Ma i Greci cantaron così le tragedie! ma le prime opere italiane e francesi furon di semplice recitativo! ma oggidì ancora un' opera di recitativi, ove cantassero la Pasta, Donzelli e Galli, con quella lor arte di veri tragici attori, sarebbe tale spettacolo da preferirsi ad una comunale opera vera, che si esponesse a confronto! Basti dunque la possibilità eziandio d' un caso solo, in cui, colla cooperazione di eccellenti attori cantanti, possa la melotragedia starsi sulla piana declamazione canora, indipendentemente dal canto propriamente, per assolverla dalla necessità di ricorrer a questo, qualora si volesse ad ogni patto non permessole dalla ragione. Ma veggiamo come sia per lei di elezione, e come lo abbracci, per ottenerne un più peregrino effetto.

XLVIII. È così vario il sentire altrui sopra queste concessioni malodrammatiche, che non mancò chi con autorevole opinione (fu il Filosofo ginevrino) ammettesse ed approvasse l' istrumentazione applicata, e con intervalli intrecciata alla gretta prosa. Si legò mai bene colle figure rilievate in marmo un campo di pinto paese? o con figure pinte un campo scolpito? Fu mai l' ombra altrochè in relazione col corpo? ovvero invece luminosa dietro un corpo opaco? Ma questa è una di quelle tesi nelle quali l' argomentazione riman molto aldisotto del conoscimento delle cose, a ragione di bell' arti. Qual imitazione, quale illusione, qual ragione o dilettamento può venire dallo strano far eco gl' istrumenti a non armoniche voci, a semplice favellare? Non [-121-] è questa una ipotesi d' arte, ma un por il vero accanto all' ideale, perchè si facciano guerra vicendevole. Il canto è l' anello intermedio. Ommesso, come legasi al favellare l' istrumentazione, che ha nel canto sua intonazione, suo perchè, sua necessità?

Grado per grado, l' Alfieri arrivò nel suo Saulle a concedere che l' attore possa semplicemente declamar que' cantici, con frapposti arpeggiamenti. Non so restarmi dal ripetere che il cantore in tragedia recitando mi è tanto povera cosa, quanto ad altri fantastica idea l' attore che nella melotragedia muore gorgheggiando. L' arte soltanto temperandosi fra quest' estremità, sarà savia e bella.

XLIX. Vorrebbero altri che i recitativi fosser in semplice prosa, onde quasi meglio per questi deserti trionfasser i fiori del canto; e adducono per autorità l' usar de' popoli stranieri. Siccome scrivo agl' Italiani, non ho d' uopo di prender contr' essi la lancia. So che l' uso a tutto avvezza, sicchè appo i Chinesi sono cert' uomini così abituati alle bastonate, che le mercano avidamente per gli atrj de' tribunali da' ricchi rei a tal pena condannati, onde con savio soddisfacimento della giustizia portarne la pena per essi; ma non è delle bell' arti accostumarne ad usanze assurde a dispiacevoli, bensì a care sensazioni. Richiederebbesi almeno l' anello intermedio del recitativo cantato, se bastasse a unir due cose in sestesse repugnanti, come parlar e cantare.

Certamente il vaudeville de' Francesi a chi non è con siffatt' abitudine accostumato, produce una specie di dolorosa sensazione alla mente. Infatti quale più strana cosa d' un grande quadro a chiaroscuro, in cui solo alcune figure qua e là sieno colorate? Peggio ancora si è, che quel canto parlante e pedestre non viene adoperato nel suo vero senso di accrescer espressione nelle cose più patetiche, perchè in esso anzi la drammatica espressione cade e illanguidisce.

Coloro poi, che tanto son restii a persuadersi che i Greci avessero per vera una tragica declamazione cantata, prendano esempio dalla nazion Francese, che ha per buona la commedia eziandio patetica, in cui manifesta è la contradizione col vero, senzachè si possa lasciar a casa la prevenzione, perchè il patto tacito che richiede il canto vien continuamente dalla prosa eluso e disfatto.

[-122-] L. La voce dell' interlocutore giunta passo passo dove, montati gli affetti al colmo, il momento drammatico è nel suo massimo fermentamento, uscirà naturalmente piena dalla profonda bocca in suono di canto vero, come ultima graduazione de' più illuminati musicali colori: canto però intendasi sanamente, pieno di passione, nongià metodico e artificiale, come quello del musico semplicemente. Anzi dai concetti oltremodo patetici si ricavi tutto il possibile effetto, è appunto la forza della melodia, mercè le fibre commesse, ricerchi il cuore nella sua più intrinseca parte.

LI. La musica è una proprietà tuttaquanta del dramma di questa specie. Aggiunta della poesia è un' emanazione, simile allo spirito che per arte si estragge, si separa dal liquore, o come la favilla che si desta e si scuote dalla pietra. È un anello medio fra quella e l' esposizione. Il musicografo è interprete del poeta all' attore. Il componimento d' una musica drammatica, poema senza parole, ma nonsenza poetica invenzione, maraviglioso ritrovamento dell' ingegnosa umana mente, si chiama, con barbaro vocabolo di mestiere, spartito. Poichè nome più adequato non ha, io intanto lo chiamerei volentieri melopeja.

"Il compositore non potrebbe significare la situazione di quell' anima lacerata (Didone), se non se con un mormorio cupo ed agitato delle corde più basse, col suono piangente degli stromenti da fiato, eccetera." Arteaga tomo 2, capitolo 2. L' istrumentazione rispettivamente al canto delle parole dee esser come quel gemito degli animali, col quale esprimono, ma non possono narrare ciocchè sentono, e però da un osservatore filosofo s' interpreta in generale, se non nelle modificazioni sue tutte. Di tale fattura è l' accompagnamento del dialogo ultimo fra Norma e Pollione; e quel lamentamento che nella Chiara di Rosenberg del maestro Ricci fa lungamente l' orchestra, quando il Corriere racconta con semplicità narrativa il tentato rapimento, e le concussioni soffertene da colei; e intanto la potenza degli istrumenti prende sopra di sè quasi la parte del canto, o almeno dipinge alla mente partitamente quel fatto: capolavoro, ed esemplare a creder mio!

L' abate d' Arnaud presso l' Arteaga così si esprime: "Se la musica ha potuto accompagnare le tragedie di Eschilo e di Sofocle, può senza dubbio maneggiare ancora gli argomenti [-123-] tragici, grandi e regolari.... Io fo accorti i nostri compositori, come ciò verrebbe loro fatto, se essi si avvezzassero a cogliere per tal modo il carattere principale de' poemi, che ponessero mente alle parti senza trascurare il tutto, che affrettassero la declamazione delle scene fermandosi meno sull' arie, e sopra tutto se rivolgessero la sinfonia (cioè l' istrumentazione) al suo vero fine, ch' è d' accompagnare, di sostenere, e non di dominare, pervertendo il senso delle parole...... Avvi degli accessorj nelle passioni, dei contrasti fra le idee, delle alternative fra i sentimenti, dei silenzj che nulla dicono, perchè si vorrebbe dir troppo, eccetera; e qui appartiene alla istrumentazione supplir alla voce.... non vi si scorge punto quella non mai interrotta continuità di declamazione, che dee modellarsi sull' arte della declamazione drammatica. Nasce questo vizio dal non volersi applicare i maestri al necessariissimo studio della declamazione teatrale. Lulli si faceva recitare i drammi avanti di metterli in musica da un' eccellente attrice, e dalla voce di lei raccoglieva i tratti più decisivi." Arteaga tomo 3, capitolo 6.

Nel melodramma nostro, ch' esclude le arie propriamente, cioè le loro menchè dissimulate apparenze, non ha luogo la questione, se la cantilena istrumentale debbasi far precedere al canto della strofa. Sarebbe come dire che l' ombra del corpo potesse comparir prima di quello, e produr il corpo invece d' esserne l' opaca immagine. Pure come cammina immediatamente davanti quando il lume sta dietro alla persona, così può esser lodevole qualche volta, che il musicografo, ma con poetico intendimento, lavori un preludio strumentale avanti alla parlata, qualora il concetto di questa proceda da cagioni esteriori nell' interlocutore, o da riflessione interna, la quale gli faccia concepir l' idea, crear prima mentalmente quel ragionamento, che poi vien ripetendo colle parole ad altri od a sestesso. Ora poi, grazie al cielo, son migliorate le cose in genere d' azione, e tali preludj non servono più a fare sulla scena una proménade. La Lalande nel Pirata, come una Pallerini, ma senza coreografo che l' ammaestrasse, esprimeva la pantomima della cecità, da cui delirando credeva essere stata presa, secondando tutto l' andamento dell' istrumentale espressione.

[-124-] LII. Arduo è il passaggio dal libero suono del recitativo, che ha per sola guida l' espressione delle frasi diverse di suono e di misura, alla cantilena del cantando: arduo fin dalla poesia, di cui la melodia ed il metro esercitano potere nel condur secoloro le invenzioni del musicografo, piucchè altri se 'l creda, e forse piucch' egli tante volte s' avvegga. Perciò mi venne talvolta pensiero che si potrebbe dar nuova tessitura ai melodrammi, onde arrivar meglio per un' apparentemente opposta via all' intento; quindi comporli di strofe intieramente. N' abbiam fin dalla tragedia l' idea. I distici martelliani, o per meglio dire quartetti di settenarj, son barbari per quel jato, che due versi sciolti senza perchè introducono fra due rimati. Ove quelli si facciano sdruccioli, cambiansi in un melodiosissimo metro. Se inopportuno è questo rimalezzo al dramma pedestre, diviene ragion d' arte nel melodramma. Sarà suscettivo di recitativo, se adattossi fino alla semplice recitazione. Pel cantabile non occorrerebbe altro che il poeta in que' luoghi che occorra, senza cambiar l' ordine, rimasse con tronche desinenze il secondo e quarto verso. Il maestro da quest' unione di metro nella poesia ricaverebbe necessariamente una musica unita così, che il recitativo si fonderebbe nel canto, il canto nel recitativo. Engel nella trentesimasesta delle sue lettere sulla mimica condanna nel dramma l' unità di metro. Ma il melodramma lo varia conforme l' espressione diversa delle cose, prendendo forme relative a quelle; dunque a giudicio del Tedesco sarà migliore la sua versificazione che quella delle tragedie.

LIII. Non occorre assottigliar l' ingegno per ritrovar un materiale legamento de' metri diversi nella successiva musicabile versificazione. Opera è questa del poeta, che in appianarne le ineguaglianze dee ricavar novello esornamento alla materia. Così l' acque ritardate dall' arte, mercè marmorea gradinata, sonoramente su quella discendendo, ne vestono di lor fluidità, e in parte appianano gli acuti profili, e in parte li lasciano sotto il chiaro lor cristallino velo travedere. Certamente lo stile d' un poetico musicografo esser dee appunto come acqua dilagante che agguaglia in un liquido piano i colli alle valli, nè li lascia travedere che sotto i suoi trasparenti umori. Narra il Goldoni, che assistendo la prima volta in Parigi ad un' opera, [-125-] richiese al vicino: Non ha aria alcuna questo prim' atto? E quegli rispose: Ne furon cantate tre. Felice inganno a giudizio della Ragione!

Veggasi dunque chiaramente in pratica la ragion di queste graduazioni. Alla parte piana del dialogare appartiene il recitativo semplice, cioè a quella in cui trattasi l' azione, in guisa alquanto comune ad ogni sorta di dramma, e svolgesi con calma il dialogo, e con esso il fatto, primachè negli attori accendasi la passione. Generalmente si comincia così la favola, e successivamente le diverse scene, qualunque volta non apransi exabrupto, allorchè gl' interlocutori balzan fuora già impetuosi per cagione proporzionata alla situazione loro. Così trattansi i dialoghi co' quali si espone l' antefatto; e cosi 'l favellar mutuo, finchè gli attori sono tra lor concordi, nè internamente stimolati da contradditorie affezioni.

Allorchè al calmo favellare subentri alcuna di tali perturbazioni, che generalmente non sarà subitamente violenta, giovando passar a questa per gradi, succederà, come intermedio, il recitativ' obbligato, primachè ascendasi al canto. Il passaggio, nè più nè meno, sarà deciso dal senso delle parole, e da queste verrà il segno al musicografo di dovere sollevar lo stile. Nella poesia non si suole cambiar il metro. Pensai alcuna volta, che potrebbesi far la distinzione, passando da' versi tutti lunghi ai versi misti, come vedesi nelle tragedie greche, e nell' antiche nostre. E in ver sarebbe bella la proporzione de' versi lunghi nel recitativo comune, de' corti nell' aria, e di questi con quelli nel recitativo figurato. Così ancora il maestro di cappella riceverebbe dal poeta segnati limiti dell' uno e dell' altro recitativo, ed il lettore ritroverebbe nel suono de' metri distinti l' idea di ciocchè dee poi vestir variamente in pratica la musica. Abbiasi però almeno chi compone i melodrammi consiglio d' accrescere alquanto, ma però moderatamente, il numero de' settenarj su quello degli endecassillabi, e concertare alcun poco maggiormente le rime in quella parte ch' esser dee recitativ' obbligato, per dar luogo ai musicali accordamenti, e preparare il metro del cantabile che verrà dopo.

Quando le passioni sieno veramente in uno stato di assoluto calore, ancora le voci abbandonansi a quella intensità [-126-] d' espressione, ed escon melodiose in guisa da somigliarsi al canto. Allora nella poesia i versi son tutti brevi, perchè più rapidi, e suscettivi divengano del ritmo. Che le rime ivi s' incontrino pressocchè continue, contro la naturalezza della nostra lingua, che non le ama nel dramma comune, non è per cagione di servir al carattere dell' opera, ma bensì alla natura dell' italica poesia, nella quale spiacevoli riescon i versi brevi sciolti. Chi non desidera le rime ne' versi corti delle tragedie del cinquecento? Questo metro però non sia quello degl' inni e delle canzoni, e cominci la poesia dal non introdur nel naturale andamento delle scene strofe liriche anacreontiche; nè sia la stessa poetica tessitura quella che presti al musicografo l' occasione a cantilene dalle quali venga violata la ragion drammatica. Ordinariamente queste arie, avendo sembianza di canzonette, divise in parti uniformi, e di suono rotondo, tutto proprio della cetra, cangian l' interlocutore in un cantor propriamente, e dan luogo a quelle critiche, che i melodrammatici eroi fan ogni lor cosa, e fino muojon cantando. Così dietro la poesia maggiormente imbaldanzisce la melodia che le sposa il compositore.

LIII. Quella giuntura, che, come membro a membro, connette della stessa carne il cantando al recitativo, sebbene si possa lasciar vedere, quando deciso è il passaggio prodotto da subitano scoppio della passione, pure vuolsi il più delle volte diligentemente sfumare. Abbiamo veduto quanto l' intelligente Bellini fosse scrupoloso in ciò. Sceglierò esempio da Maestro appunto non della sua scuola, per prova maggiore, cioè dal Morlacchi, nel Tebaldo e Isolina. È un monologo di prima venuta in iscena del tenore.

        "Tutto è silenzio. -- Abbandonato è il loco
        Sacro a la pace degli estinti. -- Accorsi
        Tutti sono a la festa. -- L' odioso
        Tumulto ne rimbomba
        Sin tra quest' ombre, e grave al cor mi piomba.
        Abborrito nemico, tu trionfi.....
        .......... Sposa adorata,
        Io che ti piango ogn' ora, io che sospiro
        Già da tre lustri, e fremo.... Oh ciel, che miro!
        Il salice che al giorno
        Di mie nozze piantai! -- La quercia mia
[-127-] Grandeggia ancora! -- I pini de' miei figli!....
        O dolci e amare rimembranze! -- Allora
        Felice sposo, lieto padre!! -- e Ora! --
                Isolate su la terra
                Tutto omai per me finì:
                Freddo sasso, oh Dio! rinserra
                Quanto a me fu caro un dì.
                Sposa, amore, figli, onore,
                Vil nemico a me rapì.
                Isolato su la terra
                Tutto omai per me finì.
                Tutto, ah! tutto" eccetera.
I diversi sentimenti del recitativo, ora pieni, ora flebili, erano espressi con rotonde note, adattate alla maestosa, grande voce declamatrice dell' attore Crivelli; ed eluso quas' il passaggio dal recitativo al canto, che, come, vedesi, non è diviso da un punto vero, e seguitava senz' intervallo la stessa declamazione, esprimente gli appassionati concetti, nulla più; e colle sole ripetizioni riportate, finiva in una flebile cadenza. Qui non è dunque fasto di canto, ineguaglianza di stile, materialismo di cavatina. È un soliloquio drammatico nella disposizione della declamazione, più l' accento del cantare. Vero però, che nel componimento segue il largo, e l' allegro: una cavatina insomma nelle forme; ma più autorità perciò appunto ne viene; perchè il saggio Crivelli, onde non guastar così bella e sublime cosa, ommetteva il restante. E sebbene nella prima sera non n' avesse straordinarj applausi, perchè il popolo non udiva il solito chiasso d' una cavatina d' uscita, pur in sèguito, dato luogo alla riflessione, i savj giudicavano esser quello un esemplare di sublime semplicità. E sappiasi ancora che nella stess' opera il musico Velluti rifiutò il suo grande rondò nel second' atto, contentandosi d' una strofa di romanza che a quello doveva servire di preparazione, nè fu giammai lodato per alcun rondò, come per questa melodia semplicissima. Non procedono dunque ogni volta dall' ambizione de' cantori le drammatiche assurdità!

LIV. Assaipiù difficile cosa è, quando l' azione d' una scena, discendendo nuovamente dall' accesasi passione a più piano dialogare, bisogna tornar al recitativo. Il chè vorrassi fare con molto discernimento, terminando, al contrario [-128-] di ciò che comunemente si suole, il canto in una guisa smorzata, indi passando ad un obbligatissimo recitativo, e di rado e tardi tornando al recitativo libero. Ma sopratutto è da cercarsi di sfuggire l' occasione, quando non venga propriamente dalla natura della situazione: chè allora suggerirà questa i mezzi onde farsi dipingere naturalmente. L' irromper d' Egisto in delirio nel cominciamento dell' Agamennone è cagion esquisitamente adattata al cantabile, il quale potrebb' anche risolversi, ma con molt' arte, e passaggio sfumatissimo, in recitativo, giacchè il finir del soliloquio accenna uom che ritorna graduatamente in sè, e passa dal vaneggiamento a circospetta riflessione. Ma lunge ogn' idea di cavatina, cioè d' aria di sortita. Chi vien fuori con una canzonetta nelle forme è pazzo, che scappa dall' ospitale recitando un sonetto. La cavatina d' esordimento conviensi al conte Almaviva, perchè vien realmente a cantar la mattinata sotto le finestre della sua bella.

LV. Bensì alcune volte, ove a brevi tratti s' alternino gli appassionati, caldi sentimenti co' più tiepidi, si faranno scene miste di recitativo e di canto; avvertendo però che queste non saranno di grandi passioni, e l' uno e l' altro vadano impastati insieme e stiano ne' due confini che si toccano.

Innoltre consiglio a' poeti, ed ai musicografi, ogni volta che incontrano durante il recitativo alcun sentimento che ne sia suscettivo: i primi introdurre versi lirici, ed i secondi su quelli lavorar qualche particella di canto semplice. Così tienesi in continuo impastamento la diversità de' melodrammatici colori, onde l' opera vieppiù ne sia formata, e quasi d' un getto somigli nel suo genere alla tragedia. Ho notato a tal proposito presso i maestri qualch' esempio di strofa d' ariette cavata da alcuni versi di recitativo, come viceversa poetiche arie, o parte di esse, alle quali il musicografo è passato sopra agguisa di recitativo. Nella Lucia di Lammermoor, e nel rondò di colei, Donizetti viene a prolungare il recitativo per tutta la prima strofa del canto, e nella seconda rimpasta i settenarj in quinarj molto leggiadramente. Se il canto è l' espressione delle passioni più agitate, perchè non consumar con tal mezzo tutta la situazione? Ma nello scioglimento più vivo della medesima perchè ire liscio, rimettendo in telaio il recitativo, come nel [-129-] duetto degli Orazii, ove due o tre versi recitativi sono un ferro freddo tuffato nell' umore bollente quando sta per soverchiar gli orli del vaso?

Nè si trascuri ogni occasione al canto naturale. Perchè nella Iphigénie en Aulide dell' Algarotti, l' allocuzione di Diana, parlata solenne, non è in questo linguaggio degli Dei, ma espressa con semplice recitativo? L' illusione sarà egualmente vulnerata dal canto applicato a cose pedestri, e dalle parti patetiche colle quali non sollevisi a paro il colorito vivace del canto.

LVI. Conviene, prima di procedere oltre, parlar delle cautele da osservarsi, e de' difetti da schivare nella locuzion poetica, poi nella espressione musicale, nonchè nell' accordamento d' entrambe. I vocaboli siano di suono piano, brevi, e schivino i dittonghi che rendon equivoco il numero delle sillabe come nazioni e inebbriamo, che il poeta vuole uno di quattro e l' altro di cinque sillabe, e il musico fa fatica a troppo prolungare e distendere: perciò è accertezza quanto più puossi evitarli. Bisogna metter le parole per quello che risulterebbero pronunciate indipendentemente dal verso. Il tragico declamatore ha obbligazione di tenerle della durazione che il verso esige, ma il cantore, sebben dovrebbe altrettanto, non lo farà, perchè dividendolo con pause in più parti, n' elude la quantità continuata, e viene a storpiarla senz' avvedersene. E quel verso, riportato nel primo libro:

Al suo bene per sempre riunita

dato per decassillabo, è veramente un endecassillabo, benchè cattivo, a cagione del vocabolo riunita, che trascorre naturalmente a farsi di quattro sillabe, il perchè un verso d' aria diventa di recitativo.

Si sfuggano eziandio i trittonghi fra due parole, cioè il concorso di tre vocali che fanno difficil' elisione, come: mio amore. Si schivino pure gli accenti sopra parole sdrucciole, con ogni altro genere di suoni che renda il verso languido, aspro, oscillante. Loderei però, sebben non si usino, le asprezze, e qualunque altra dissonanza esprimente all' uopo un simile significato nel soggetto, giacchè, in accordamento col musicografo, potrebbesi ricavarne doppie bellezze. È difetto d' un Maestro di cappella che dopo que' versi:

              Trema Bizanzio!
                Sterminatrice
[-130-] il senso musicale faccia parere lo sterminatrice un epiteto della città di Bizanzio, anzichè del nominativo seguente
                Su te la guerra
                Discenderà.
Ma in questo difetto inescusabile fece inciamparlo il Poeta, che doveva comporre un più simetrico compartimento de' versi. Non è pressochè universale nelle ottave rime, per solo numero poetico, la pratica di far pausa ammezzo la stanza?

La migliore delle regole, a nonmai errare, si è che il poeta, consapevole di musica, componga suoi versi cantando, come adoperava il Metastasio; o come altri, faccia cantarlisi da un musico. Allora non accadrà, ciocchè continuamente, d' incontrare nello spartito parole e versi varj dal libretto, e nell' esecuzione cantata diversi dallo spartito.

LVII. Non debbono aver bisogno di legami materiali gl' ingegni degli uni e degli alti compositori, che hanno a moderar col senno la fantasia. Nè i versi or lunghi, or brevi, nè le rime son cose che disconvengano al melodramma se trovansi nelle tragedie di popoli e tempi diversi, bensì nuocono, quinci un metro granito di strofe liriche, quindi una musica sconnessa per rotonde cantilene da canzoni, con accompagnamenti strumentali quasi da guidar le danze.

Il poeta, peresempio, fabbrica una o più quartine ovvero sestine, terminante perpetuamente in rima tronca. La cantilena che l' esprime sembra un vortice che ripiegasi in sestesso intorno ad un centro, e questi vortici fanno che l' andamento del dialogo non iscorra liquido e rapido, qual chi tien la sua via, ma come fregio a meandro, sinuoso, e pieno di parti distinte e sconnesse, che ne rendon manieroso e antidrammatico lo stile. Date qualcheduna di queste strofe: sotto la mano dell' autor della musica riesce appunto tale da ricordare, a chi conosce l' arte architettonica, l' operazione colla quale il dissegnatore forma le volute. Inmezzo alla voluta nascondesi una piccola figura geometrica, che simetricamente assegna i diversi punti ove dee far centro successivamente il compasso. L' ornatista li percorre tutti ad uno ad uno con una punta di quello, intantochè coll' altra descrive altrettanti quarti di cerchio. Al primo siegue il secondo, che [-131-] gli è relativo; tien dietro il terzo in opposizione al primo, ed il quarto al secondo. Nella stessa maniera quattro altri quarti avvolgonsi a chiocciola entro i primi, fanno una specie di novello cerchio interno continuato, nella sua varietà perfettamente relativo all' esteriore. Stringendosi tuttavia in sestessa l' opera, ecco nascer il terzo ed ultimo avvolgimento, di cui la curva, sempre riproducentesi, va finalmente a morir perfettamente nel punto centrale, ove la figura geometrica rimane poi coperta da una rosa, corona e mezzo della voluta. Con quella differenza che passa da ciò ch' è pascolo dell' udito, a ciò ch' è facoltà dell' occhio, è, a creder mio, simile il caso di questo cartoccio, e d' una strofa, e suo periodo musicale. Ad otto, ovvero a dodici, peresempio, corrispodono le battute, due per verso. La melodia comincia a spiegarsi nella prima e nella seconda, alle quali hanno nonsochè di simile, una per una, la terza e la quarta. Ripetesi l' analogia nelle due battute del terzo e quarto verso. Se la strofa è una sestina, riproducesi per altre due e due battute lo stesso ordine, coronato poi sempre da quella rima final tronca, cui tutta tendeva la cantilena, e che riesce quasi lo scoppiar di girevole serpeggiante lucidissimo razzo.

LVIII. Si sfumino i rotondi periodi musicali, e come faceva il saggio Bellini, si suddividano in frasi all' apparenze fra lor diverse. Il meccanismo musicale serva come le ossa occulte sotto le polpe. Dirò esempio, che terrà del basso, ma è sommamente nel caso nostro espressivo. L' acconciator con ferro ardente avvolge la capigliatura di giovane beltà in altrettante uniformi anella. Sparì la libera zazzera, e ne rimangon nè più nè meno, peresempio, venti grossi dorati invogli. Allora impinguatesi ambe le mani di odoroso olio, dassi a guastar e confonder l' opera sua stessa. Quelle simetriche ciocche di capelli ad altro dunque non eran fatte che a produr l' ordinato disordine d' infiniti riccioli, varj di quantità, figura, e direzione, che però tutti tengon la ricciuta e crespa modificazione in loro impressa dall' arte che occultossi e sparì.

"Tiziano le sue figure diligentemente finite ritoccava con pennellate grandi e risolute: ed interrogato perchè questo facesse, rispondea: Nascondo l' arte". Ma i musicografi, vergognando d' essere Tiziani nella musica, di [-132-] rado si arrenderanno a questi confortamenti che loro fa il Baini, e troppo innamorati del materialismo dell' arte, crederanno, nella musica ciò essere un distruggere tant' oro che ad essi costò sudore. Così, se mi è lecito lo scherzo, quel ghiotto d' Arlecchino fa prova di masticar senza inghiottire, ma mangia senz' avvedersene, scusandosi poi, che la natura gli ripugna. Come la musica avesse un bello diverso da tutte l' altre arti, credono, dissi, la lor virtù, e la preziosità dell' opera consistere propriamente nel mostrar fuora il meccanico e lo scientifico con cui si dee formare internamente. Purchè si vegga ch' eglino sono dotti, ne segua pur l' eccidio della ragione drammatica; come se maggior dottrina non fosse por nell' opere delle bell' arti, non quanto si sa ma quanto al caso particolare conviensi.

Una delle quistioni più agitate si è la preferenza e padronanza del poeta sul musicografo, e viceversa. Milliaja di belle parole sui libri de' letterati stanno pel poeta. I fatti poi sono pel secondo. Tuttociò è naturale; curiosa cosa sarebbe lo contrario, cioè che il letterato parlasse in pro della musica, il musico in pro della poesia! Veggiamolo. Uno scrittore periodico dice chiaramente, che il poeta, come schiavo, dee servire al maestro di cappella coll' opera sua. Il Manfredini, notisi, nelle sue contenzioni a pro della musica moderna vilipesa dall' Arteaga, scrive appunto il contrario. "Non è la poesia che deve servir la musica, ma bensi questa deve star soggetta in tutto alla poesia, ed all' argomento della medesima". Tuttavia siamo giusti. Dee il poeta conoscer le forme della musica, e saper che lavora per esse; dee il musicografo aver forme musicali che sieno tali drammaticamente, quando lavora pel melodramma.

Non intendo che il poeta disprezzi le forme che nonsolo sono necessarie alla musica, ma costituiscono eziandio il melodramma indipendentemente da quella; il quale dee, a mio credere, aver ne' varj suoi versi, metri, disposizione, e durazione loro, certa, dirò così, poetica musica, e germe, indicazione delle note. Un celebre poeta, ma straniero a questa parte di poesia, fece per certa solennità una Festa teatrale, cui tessè di recitativi e di strofe senza metodo melodrammatico. Rifiutolla il Musicografo, e con tanto più di ragione, che, trattandosi d' un picciolo lavorio occasionale, non avrebbe negato darci opera se avesse in qualche [-133-] modo potuto. Isdegnato il chiaro Autore, avrà fra sestesso racciato d' ignoranza il Musico, e apertamente poi ricuso tifare in maniera servile quella festa teatrale; sebbene il Metastasio nelle sue abbia dimostrato, che il poeta dee saper mostrarsi tale, conciliando ad un tempo le difficoltà inerenti ai generi. E quanti laboriosi metri non prescrissero talora a sestessi per mero capriccio i verseggiatori! Il Petrarca inaridì voluntariamente la sua vena patetica nelle dure nojose desinenze delle sestine; il Sanazzarro figurando nelle finali sdrucciole il pedestre andamento del dialogo, scelse invece rime in gran gala, ardue così, da non poter mai diventare per esse un Gesner, quandanche fosse nato un Gesner. Il sonetto stesso, tanto comodo pella sua brevità ai poetastri, ed ai non poeti e non poetastri, non è desso, nelle sue anguste forme, nelle sue leggi tiranniche, nella ripetizione delle rime, il melodramma della lirica poesia? Tornando a quella festa teatrale, convenne che altri ponesse mano in alieno componimento, se la cantata dovevasi rappresentare. Il credereste? Un Critico, che più di tutti suoleva scrivere sulla necessità di tener la poesia ne' ferrei ceppi dell' opera rossiniana, prese le parti del Poeta, contro il Musicografo, e contro l' altro Poeta soprachiamato, sebbene questi avesse preventivamente protestato con regola generale contro ciò che veniva obbligato a fare particolarmente: e gridò essere un gotico attentamento contro così sublime poetico monumento. Dunque il Maestro di cappella doveva metter ad ogni costo sotto note una poesia non musicale? Dunque moltopiù, contro l' opinare tenacissimamente cento volte da quel Critico espresso, dovrassi porre in musica ogni melodramma! Dunque il rispetto che deesi aver grande alla poesia non ha da far che il filarmonico pretenda dal poeta opere musicalissimamente antipoetiche!

Sia primo il poeta a dirigere sulla via migliore il musicografo. Componga pieni di numero i metri cantabili. Nell' andante poco elaborati e rimati, quasi recitativo in versi tutti brevi. La perpetua usanza moderna di far viepiù rilievar le liriche strofe, terminandole perpetuamente in tronco, richiede uso saggio e dissimulato. Mi opponeva però un maestro, che di questi tronchi non può far senza per le sue cadenze la musica. Ma l' aria che più spesso accade di [-134-] por sotto note, il Tantum ergo ha le desinenze d' ogni suo verso minore corrispondenti agli sdruccioli nostri, contro l' uso perfino dell' italiana poesia eziandio non musicale. Nel grave specialmente qual uopo di chiuder con rima tronca periodi cotanto lenti e divisi, che spesso terminano con ismorzata e niente brillante cadenza? L' allegro, cioè la parte più mossa, con cui finisce la scena, non sia una canzone, un' aria dell' aria (che tal è la cabaletta de' moderni), ma un drammatico concetto anch' esso, cui la musica presta l' ali sue, per correr più veloce. Non un pajo di quartine, ma un libero, rapido metro somministri il poeta, ove congiunta vada colla rapidissim' armonia la semplicità di liberissimi versi.

LIX. Quel metodo sarà bell' è buono per la musica in sestessa, e pel genere lirico, non per rappresentar il canto delle favellanti vive passioni. E voi, melodrammatici poeti, studiate a tesser coppie di quartine coll' ultimo verso tronco di rima comune, e quelle sestine care a' moderni di versi sdruccioli e rimati alternativamente! Ben altra cura richiede l' arte vostra. Lessi rimproverato un autor di libretti, che scrivesse in metri confusi, dissonanti e capricciosi, come que' dei dittirambi. Ma il Romani perlocontrario, lirico poeta, avvezzo tessere ingegnose odi, infila serie di strofe anacreontiche elaboratissime, perciò men naturali, cui offre a' suoi interlocutori da dir a vicenda, o da dividersi in guisa, che l' uno interrompendo l' altro, l' uniformità del metro continui eguale. Io consiglierei imitarsi i dittirambici; non vi paja strano: udite prima in che maniera. Non come il famosissimo Redi, che mette in telajo l' un dopo l' altro e continua per qualche tempo metri elegantissimi, formando un disordine che non è disordine, perchè composto di parti regolari troppo. Nemmeno come quegli altri che affastellano senz' ordine versi minutamente fra loro dissonanti, e ne fan insignificante tritume. Ma come suole il Baruffaldi, che ne' baccanali suoi, cambiando frequente il tema del componimento, sceglie nuove, libere forme, cioè versi di natura analoga alle parole, e li tesse in modo da esprimer le cose che quelle significano. Non faccia caso, ripeto, il genere dell' esempio, perchè l' umile può essere scala al grande. E invero il Baruffaldi meglio de' melodrammatici pose in relazione le forme della versificazione [-135-] co' temi diversi del ragionamento. Altro non essendo dunque la parte cantabile, che l' espressione delle passioni più vive, il metro non dee seguir le liriche forme, ma piegarsi a quelle cui richiede la natura delle cose da dirsi, renderne il significato, assumerne il carattere, la durazione, sacrificar quanto è sollettico dell' orecchie, abitudine, materialismo d' arte alle vere delizie dell' orecchie e del cuore, mercè il canto patetico che conviensi all' imitat' azione. Invece delle solite strofe artificiali sian dunque serie di versi cantabili, della durazione cui prescrivono i concetti che vengon esse esprimendo; e le desinenze, le pause, rendute più frizzanti dalle tronche cadenze, denotino i passaggi da sentimento a sentimento, siccome vengon misurati dalla graduazion della passione. E quei versi ne rendano col loro numero, cioè poetica melodia, l' espressione: or gravi e lenti, or più semplici e andanti, or celeri, or giubilanti, or rapidissimi. La lingua nostra, povera de' versi lunghi per l' epica, è ricchissima di questi più brevi, e n' ha per ogni stile e tempo musicale.

Nè temasi che a tali membra poetiche non sappia il maestro applicare idonee forme di musical pittura, purchè in quelle sia vero sentimento suscettivo di melodia; che anzi troverà nelle poetiche l' idea delle drammatiche proporzioni musicali, meglio che nelle solite uniformi liriche strofette. Peresempio ad un grave, che dee essere lentamente svolto, e frastagliato in una maniera tutta piana, cosa giova l' avere la forma di strettamente rimata quartina? I concetti d' uom che corre decisamente a violenta impresa meglio si esprimeranno in una serie di sdruccioli quinarj, che con misure artifiziali. All' andante nuoceranno le rime troppo liricamente disposte, se debba essere una cosa di mezzo fra il recitativo ed il cantando; e all' allegro suddetto il metro di canzonetta fia pel musicografo un pericolo di trarne antidrammatiche cabalette. Non sono necessarie quant' uomo crede cotali frascherie. Ne darò una prova tratta da dove meno si aspetterebbe, dall' antiquata tragedia del Lazzarini di freddissimo stile.

                     Vedi quel Sole
                     Che in oriente,
                     Sferzando i suoi
                     Pronti destrieri,
[-136-]              Ora incomincia
                     L' invariabile
                     Eterno corso? --
                     O eterna lampa,
                     Che il vasto regno
                     De' sommi Dii,
                     E i lati campi,
                     E d' Anfitrite
                     Illustri il seno
                     Umid' azzurro,
                     Addio per oggi,
                     Addio per sempre!
Quantunque io biasimi non le rime, ma il vincolo delle rime, qui non son rime affatto, nè tronche desinenze. Pure qual musicografo non si terrebbe felice di poter mettere sotto note, quanto altr' aria mai, questa ispirata semplice fuga di versi?

LX. Come per ordin di natura e regola d' arte, tre sono i punti, due estremi che generan il terzo medio fra loro, e come nell' eloquenza tre gli stili, umile, temperato, sublime, così quelli della musica, chiamati muovimenti. Che anzi dodici ne vanta essa, nove de' quali però non potendosi rettoricamente considerar che graduazioni e suddivisioni, ne vien che i tre stili elementari suddividansi in quattro ognuno. Primo: il maestoso in largo, grave, larghetto, adagio; secondo: il medio in andantino, tempo giusto, tempo di minuetto andante; il celere in allegretto, allegro, presto, prestissimo.

LXI. In una scena, o quella parte di essa che dà luogo a patetica situazione espressa in un quadro musicale, però senza ostentar il meccanismo di forme dei moderni rondò e duetti, ma dissimulando l' arte, che sembri natura, ecco l' uso cui farassi de' succennati muovimenti. Allorchè l' interlocutore propone a sè o ad altri qual partito a prendersi richiegga la circostanza ove si ritrova, ciò si ottenga col metodo degli andanti. Passa egli ad esaminar e meditare sopra tale argomento prima di decidersi? e quivi trovano lor luogo i maestosi. Ha già deliberato, e corre bramosamente alla sua sorte? opportuni i celeri muovimenti.

Non sarà troppo inculcar qui la fusione de' pocanzi additati [-137-] ingredienti, onde nascane un assieme che dissimuli la diversità delle parti. Duri l' andante, il maestoso, il mosso quanto le cagioni che li producono; e riproducansi, col ritornare le cagioni stesse, con tal arte però che nelle riproduzioni ricompariscano variati, mercè le quattro suddivisioni cui abbiam veduto avere i tre muovimenti.

LXII. Ad essi corrispondono maravigliosamente i versi della lingua nostra, che voglionsi con egual metodo classificare. E sebbene nessuno l' insegnasse fin qui, la mia regola, nuova però, non ha men forza, appoggiandosi alla ragione. Dico dunque che ai tre diversi stili di muovimenti assegnar debbonsi relative misure di versi, e quelle conservare, onde ne venga doppio vantaggio: l' uno che i musicografi conoscano dalla qualità del verso dov' è la volontà del poeta che collochino il carattere del muovimento, e che dal suono della poesia ne ricevan più l' ispirazione: l' altro che leggendosi melodrammi, abbiasi una specie di musica ne' suoni della versificazione; così, assueffatti una volta, riconosceremo l' adagio, l' andante, l' allegro, senza note ancora. Perciò ben lunge dal comporsi una scena cantabile, peresempio di soli ottonarj, dovran in essa intervenir versi delle principali misure coll' ordin seguente.

Convien ai muovimenti medj, ossieno andanti, il verso settenario, perchè piano e men degli altri sonoro, e unissono col recitativo, al quale spessevolte succede immediatamente, incominciandosi opportunamente da questo il canto, per avere graduazioni sfumate.

Agli adagi giova l' ottonario, di suono maestoso e ritardato, mercè il perpetuo accento sulla terza. È così grande questa sua virtù fra' versi corti, che se n' avessimo un simile fra' lunghi di dodici sillabe, ben felice ne sarebbe l' epica poesia, e l' endecassillabo rimarrebbe verso per umili argomenti, essendo di suon più piano che grave, infatti unisono col settenario non all' ottonario.

Più si accorciano i versi, più ci abbondano, sicchè a quattro muovimenti celeri forse quattro ne possiam assegnare. Il quinario, di suono liscio e labile, per l' allegretto. Pel prestissimo abbiam un verso, il decassillabo, che corre a ruina. Rimangon intermedj l' allegro e il presto; all' uno può servir il senario, che coll' accento sulla seconda, è gongolante e leggiadrissimo; all' altro il quadernario, o lo stesso [-138-] quinario, ma con desinenze sdrucciole sciolte, che gli accrescano velocità.

So che i filarmonici mi potrebber opporre, che queste regole contraddicono alle teorie loro, dalle quali anzi si raccomanda, come pregio dell' opera, l' unità generalmente de' tempi. Non so chè dire: se fu giusto il mio raziocinio, e se tuttavia la consuetudine musicale si oppone, convien dire, che tale non sarebbe l' arte musicale, se nata fosse in altra guisa com' emanazione della poesia, ed abituatasi a ricavar dai tempi pari e dispari quell' effetto, continuamente diverso, e imitativo delle varie alternative d' ogni appassionat' azione, cui ben può trarsi dai versi parissillabi ed imparissillabi. Eguale trascuranza ebber finqui ancora i verseggiatori; nè perciò la miniera esiste meno sotterra, perchè altri ci passi sopra senza curarsene.

LXIII. Ne' canti dialogati convien dissimular apparentemente la simmetrica proporzione delle parti. Non è veramente fuori del naturale che uno, per mettere maggior forza nella confutazione, stiesi alla precisione d' egual quantità di parole. Gli antichi tragici facevano duellar allungo due interlocutori con una serie di versi e sentenze. Nell' opera, cui lo stile misurato è connaturale, la cosa sarà piacevole, nonchè di certa convenzione, conciliandosi la ragion poetica col materialismo dell' armoniche forme. Non siano però le alternative del dialogo tutte di corrispondente quantità; anzi adoperandosene alcuna con ragionevolezza, l' altre seguano una misura non egualissima, come nel recitativo. Il Bellini non metteva a siffatta tortura la Musa del Romani; il duetto d' Arturo e Valdeburgo, nella Straniera, è in gran parte un libero dialogo cantato. Il musicografo prenda poi un più sciolto periodare nella sua melodia, per non imprimere colla musica alla poesia quella troppo misurata rotondità che il poeta si è studiato di non darle.

LXIV. Perchè due persone parlino le stesse parole, o consimili sentimenti, o negativamente corrispondentisi, e perchè si rispondan per le rime, o facciansi parodia, bisogna che si ascoltino; ma udir interlocutori e coristi combinarsi a favellare concordemente, senza preterir lettera, sebbene se la discorrano fra sestessi furtivamente, o mossi da diversissime passioni, è prodigio solo possibile nel mondo [-139-] dell' opera. Questo amore del manieroso stile ne' melodrammatici è così antico, che precede l' usanza de' concerti, come vedesi presso il Metastasio nella Olimpiade, ove all' atto terzo tali inverosimili combinazioni non sono d' alcun' utilità pella musica.

Convien dunque che nei duo e negl' insieme gli attori si parlino l' un l' altro, e quindi anche unanimi di volere. Negli unissoni una voce abbia certa minima antecedenza all' altra, cosicchè sembri che un interlocutor dica primo, e l' altro, od altri con somma prestezza poi ne ripetan o imitino i sentimenti e le parole, nonmai pajano legger tutti su d' una carta.

Quando il canto dialogante va a pari misure, non debbono esser queste materialmente, nè sempre eguali, come il controdanzare, e le mutue riprese de' ballerini. Solamente ciò conviene qualora due o più vogliono confutarsi, o secondarsi a vicenda. Sta bene allora che l' egual misura, e la conformità d' ogni parte nella risposta confrontisi. Ma quando le naturali e discordi passioni mostrano la loro forza, sarebbe un tradirne la verità. Talora nel medio caso può la musica esser pari, e pari il tempo del simultaneo dialogare, ma si adempie alla quantità, quand' anche uno dica men versi dell' altro, e mettansi nel conto i silenzj vocali, riempiti dalla continuata armonia, e dall' azion muta dell' attore.

E quest' armonia strumentale debb' esser sempre uniforme? Abbiamo anzi sublimi esempj di armonie diverse (come diverse, od opposte possono essere le contemporanee azioni), nonsolo accordate nella durazione, ma nelle leggi di contrappunto, solo apparentemente discordante. Certamente gran diffetto, ancorchè non trattisi di parole, si è quello di dare una sola cantilena a chi parla feroci parole, ed a chi risponde teneri sentimenti; ad uno che succede all' altro già partito, con azione totalmente diversa; a due che parlano in luoghi distinti, o cose diverse, o senz' aver chè fare assieme; finalmente al musico che cantò colla cetra in mano, e all' attore che vien dopo parlando pianamente de' suoi affari. Eppure di questi farfalloni sono pieni gli spartiti!

Nei duo, quando i collocutori son concordi, comun' essere può la cantilena; quando discordi, sia nel vocale come [-140-] nell' istrumentale un contrappunto in caratteristica opposizione; ricordato sempre che il colloquere non può essere contemporaneo senza un miracolo, fuorchè nelle repliche; quindi sia opera del contrappuntista nel primo caso prenderlo di contrattempo, con un piccolo vantaggio dall' una parte, che si metta in precedenza all' altra. Difficile si è maggiormente fra tre: fra quattro; nè vorrei però di questa ricchezza privar il melodramma, e può anco divenir richezza drammatica. Ma oh quanto conviene render più solerte allora la suddetta cautela!

Finalmente le riprese, cioè l' interloquire dell' uno durante il canto continuato dell' altro, riassumendo versicoli già detti, dee essere fatto con misure nonmai poeticamente disarmoniche, nè con insipido argomento. Senonchè in ciò la poetica musica del già lodato grave nel terzetto nella Straniera è perfetto modello da studiarsi con più profitto d' una regola scritta. L' adagio a tre voci, contro il solito di siffatto genere, è tutto azione. Mentre un canta l' altro interloquisce, ripetendo cesure di verso, or colla medesima incidenza di rima, ed ora di apparentemente diversa misura; e quello che dicesi d' uno intendasi dell' interloquir in due. Queste interlocuzioni, e queste cesure son parti di verso detto prima, o da dirsi dopo, ed anche tolte dal precedente recitativo, e fino d' invenzione, ma sempre con quantità poetica, senso attivo drammatico, senz' affettata parodia.

Le parodie pure che si fanno i dialoganti non siano, come accade, pappagalesche nel concetto, e stentate ne' modi loro.

LXV. Il coro ha naturale tendenz' a questo difetto. Distinguo due generi del coro. Quando favellano turbe; quando cantano musici. Nel primo caso, è composto d' una moltitudine d' interlocutori secondarj che prendono parte all' azion de' principali, e nel secondo caso d' uno stuolo di cantori, che s' uniscono ad intonar in cotal data occasione cantici, cui si suppone abbiam già premeditati, o sien avvezzi per arte ad improvisare, o prendere senz' intervallo dalla voce guidatrice del Corifeo.

So che i Greci, ancorchè in tragedie, nonsolo ammettevano, ma godevan moltissimo del lor Coro, il qual era un ente fitizio e strano; di più corpi e d' un' anima sola, diffatto parlava in persona singolare. Ma più di Sofocle, più d' Euripide [-141-] dee aver forza il ragionamento, ed è poi bene, che il melodramma, accusato d' assurdità, si mostri scrupoloso ad evitar un difetto della tragedia parlante, ancorchè il suo genere d' azion cantata lo rendesse più scusevole. Dunque il linguaggio de' coristi sia quello di singoli uomini. Ciochè dicesi da tutti venga prima proposto da uno, e ripetuto in coro da molti. Quattro principali voci di coloro, che suppongonsi più saputi, o più ciarlatori infra la moltitudine, proferiscano i principali e brevi concetti; gl' altri ne replichino in segno d' approvazione quelli che son di comune soddisfacimento, e ridicendoli ad unissono, formino il pieno finale. In tal guisa la parte del coro dialogante sarà suddivisa, peresempio, in sei chiamate, quattro pe' coristi del quartetto, distinti colle cifre primo secondo terzo quarto, fra quali va noverato il Corifeo; indi due altri segni, cioè Voci, che vuol dire alcuni fra' secondarj, e Tutti, ossia la ripetizione e pieno generale.

Mi piace applicar questa regola, riportando quivi ad esemplare il coro proemiale nella Bolena del Romani. Come usò con tant' arte il Goldoni nella Moglie saggia, introduce una turba di novellieri da sala, colla lor dicacità a farci conoscere l' antefatto ed i caratteri dei personaggi. Sennonchè l' assurdità di due semicori, che dialogano come due individui, merita esser facilmente corretta così:

Secondo    Nè venne il re?
Primo                      Silenzio.
             Ancor non venne
Terzo                       Ed Ella?
Primo        Ne geme in cor ma simula.
Quarto       Tramonta omai sua stella.
Secondo      D' Enrico il cor volubile
             Arde d' un altro amor.
Voci         D' Enrico il cor volubile
             Arde d' un altro amor.
Tutti        Arde d' un altro amor.
Secondo    Tutto lo dice: il torbido
            Aspetto del Sovrano.
Quarto      Il parlar tronco
Terzo                        Il subito
            Irne da lei lontano.
[-142-]
Primo       Un acquetarsi insolito
            Del suo geloso umor.
Secondo     Oh come ratto il folgore
            Sul capo suo dicese!
Voci        Il folgore sul capo suo dicese!
Primo       Come giustizia vendica
            L' espulsa Aragonese.
Voci        Sì, vendica l' espulsa Aragonese.
Terzo       Fors' è serbata, ahi misera!
            Ad onta e duol maggior.
Tutti       Ahi misera!
Voci        Fors' è serbata ad onta e duol maggior.
Tutti       Tramonta la sua stella.
            Fors' è serbata, ahi misera!
            Ad onta e duol maggior.
Questo coro, che in dieciotto versi nonsolo ti fa la protasi della favola ma fin te ne presagisce lo scioglimento, in tal guisa modificato, ha verità drammatica e musicale varietà. Nell' Arminio mi ricordo averne veduto un più esteso, rappresentante la dieta de' Germani, ove i coristi esponevan come attori lor diversi sentimenti.

Il contrappunto ne' cori scema in qualche maniera l' uniformità del concorrer molti a dire le stesse cose; ma toglie intanto chiarezza, e l' udirsi le parole de' singoli e di tutti assieme. Per questa ragione i cori unissoni, benchè meno artificiosi, sono maggiormente applauditi. Ma la regola posta di sopra toglie di mezzo la quistione, ponendo la ragionevolezza nella poesia primieramente.

LXVI. Molto dirsi potrebbe sull' abuso delle ripetizioni. Sono una proprietà del melodramma, e sebben non si pratichino nella tragedia, hanno il lor tipo d' imitazione (il che è più) nel vero. Convien però che non il capriccio del musicografo, e preteso bisogno dell' arte sua, ma il sentimento stesso le prescriva, ad arbitrio del poeta, o del saggio maestro che sappia tenerne le veci. Nonsolo al sentimento non si oppongano, ma siano appunto laddove è maggiore la passione, accrescano forza e copia alla drammatica poesia direttamente, ed alla musica indirettamente. Bello sarebbe che il poeta stesso nel manoscritto, e fors' anco nel libro stampato ne ponesse le principali. Certamente poi debbono esser dirette da cotal arte, che vengano a formar unite assieme [-143-] novelli versi, o cesure, come versicoli minori, consonanti colla versificazione in campo, quali sono quinarj fra i settenarj, quadrissillabi fra gli ottonarj, e settenarj o quinarj nel recitativo. Basti un esempio, perchè il Lettore ne tragga generale regola, senza entrar in cose minuziose, tantopiù che il riportato precedente coro può servire ancor allo scopo presente.

Sia esempio quell' aria cotanto drammatica di Massimo nell' Ezio, cui parmi già veder rappresentare ad un Galli, secondato dall' azione pantomimica della Pasta nell' età di parere una figlia.

      Va dal furor portata, (sospingendola)
        Palesa il tradimento, (fermandola)
        Ma ti sovvenga, ingrata, (simulato e tenero)
        Ingrata! Ingrata! (quasi piangendo)
        Il traditor chi è.
        Il traditor...
        Il traditor chi è! (Fulvia inorridisce, Massimo trionfa)
      Scopri la frode ordita, (ironico)
        Ma pensa in tal momento (afferrandola austero)
        Ch' io ti donai la vita, (somma espressione)
        Che tu la togli a me. (singhiozzante. Desolazione di Fulvia)
      Va dal furor portata, (veloce)
        Palesa il tradimento,
        Ma pensa in quel momento (abbassando la voce)
        Il traditor chi è.
      Vanne, mi lascia. Ingrata!
        Io ti donai la vita,
        E tu la togli a me.
        Sì... tu la togli a me!
        Sì tu la togli a me!
Dicendo Massimo queste parole, Fulvia vuol trattenerlo, egli va piegando verso il fondo; essa gli s' inginocchia davanti, ma sviluppasi da lei giacente al suolo, e trionfando di averla confusa, dice gli ultimi versi sempre in azione, nel guadagnar proporzionatamente la porta. Nè Massimo si rivolgerà verso il pubblico, nè, applaudito, s' inchinerà, nè, richiamato fuori, tornerà: cioè non dovrà essere richiamato.

LXVII. Intorno ai riempitivi arbitrarj, cioè ai e ai no, sono di sentimento diverso da quello dell' Asioli, che in questo caso si dimentica di parlare da maestro superiore [-144-] a' triviali pregiudizj. Aggiungansi a gotiche anticaglie invalse nell' arte, da rigettare per chi sa farsi superior a simili meschinità. Si adoperino di rado, e associandole ai versi, dimodocchè non rimangan essi frazioni prosaiche da non potersi giustificar nella versificazione. Cosa si direbbe d' un attore, che, recitando tragedie, aggiungesse i e i no sovrabbondanti o stranieri all' inviolabile misura della versificazione? Quanto non fastidirebbe tale viziosa declamazione! Certamente questi e questi no sono nell' opera ciò che nel discorso d' alcuno certi poco onesti intercalari; e mi ricordano almeno que' due Conjugi d' una commedia goldoniana, che scambievolmente si deridono, perchè l' uno dice continuamente: figurarsi! e l' altro: veniamo a dire il merito.

Altre maggiori gemme di musicale sintassi sono le seguenti:

     Questo core il suo furore
     No frenare il cor non sa.
Per dire: No frenare più non sa.
     La gloria mia più bella
     In questo dì sarà.
     Sì la-a-a più bella
     In questo dì sarà.
E quel altro, che nel ripetere sembra cambiare il negativo in affermativo:
     Un' infelice figlia
     Che non si può scolpar.
     Si può scolpar.
LXVIII. Intendo repliche l' assurda usanza di ridire l' arie, ed oggidì le cabalette. È però estrinseca alla fattura della composizione. Ma chè diremo di chi tranquillamente insegna piacer al popolo il ritorno di gradita cosa? So che i ghiotti veggon volontieri ripassar un delicato piatto, ma da nobile mensa, ove si può appagar ognuno con nuove anche migliori delicature, tal villania è sbandita. E poi ben diverse norme han l' arti imitatrici. Dice l' Arteaga: si vider mai figure dipinte con due paja di mani? Ed un giornalista (Francesco Pezzi) che dee farsi interprete del pubblico genio, notò. "Se le cabalette, primachè vengan a noja ad ognuno, voglionsi a poco a poco bandire, si cominci almeno dall' ommetter di replicarle". Non essendo l' aria antica che un' imitazione [-145-] della canzone, come la canzone una rinnuovazione dell' aria, non disconvengono a quella, qual lirico componimento in cui parla il poeta, le metodiche riprese; tuttaltra cosa nell' imitativo favellare. Ma si palesa ovunque il difetto della scenica musica, d' essere plagia derivazione dalla lirica.

Se fossero scusevoli per tolleranza d' uso le ricantazioni, dovrebber pure ammettersi quelle d' un altro genere, cui richiede talvolta a suon d' ululati disgustevoli il Popolo. E non ha tutto il torto; l' esempio di franta scenica illusione vien dallo stesso autografo componimento: si moltiplichi dunque a piacere. L' uditorio richiede siffatte mostruosità ne' più dilettevoli passi dei drammi declamati? E perchè il poeta non ne introdusse primo la possibilità? Contro il da-capo l' Arteaga, tomo 2. capitolo 2, saviamente dice: che procede quest' uso del poco interessamento che prendesi nel proceder dell' azione.

LXIX. Ben più intrinseche son le rifusioni, permezzo delle quali, come dicon i lodatori de' moderni riti, il tema di musical discorso dee rivolgersi in tutt' i suoi possibili aspetti melodici e armonici. A' quali dà una solenne mentita l' Algarotti, dicendo: "Quelle repetizioni poi di parole, e quegli accozzamenti fatti soltanto in grazia della musica, e che non fanno senso veruno, quanto non sono essi mai nojosi ed insoffribili"! Saggio sopra l' opera in musica. Quindi nasce ne' larghi lo stiracchiar, e voltar da capo a piedi poche parole stemperate in un lungo quadro armonico; quindi lo sminuzzar le sillabe con pause, come se fosser altrettante parole; quindi il battere, ribattere quasi a colpi di martello i medesimi vocaboli decine di volte; quindi il dir e ridir volubilmente in più maniere una frase. Tutto ciò vien riprovato dalla ragione, più vecchia dell' opera, nè può aver luogo e ammissione nel nuovo metodo melodrammatico, dove il solo canto veramente scenico, quello cui per ischerno chiamasi canto declamato, ch' ebbe già precursore il Bellini, dee esser applicato alla naturalezza del dialogare.

Ma di questo bello musicale nemmeno dovrebbe crearsi un bisogno, nonchè un ente, nella musica drammatica specialmente, se la ragion poetica conservato avesse il primato. Suo sarebbe il pensiero, e quello della musica l' emanazione. [-146-] E se il poeta fosse, in propria persona od in quella del musicografo, l' arbitro dell' universal concetto, produrrebbe d' un getto il pensier musicale nel poetico. Ma poichè le cose sonosi rivolte dall' opposto lato, protragga piuttosto il melotragico poeta l' eloquenza delle parlate, onde il musico possa raddoppiare il periodo sopra un nuovo membro poetico, ed alle sue riprese nuovi versi prestino nuove appendici e conclusioni. Si vuole replicato quel ultimo concetto? se ne imiti la musica, ma il poeta sia fecondo di protratta passion e versificazione.

LXX. Lo stesso dicasi dell fioriture, sotto il qual titolo intendo ciò che: È far ripiegare la voce sovra sestessa, ritraendone suono dilettevolmente superficiale, anzichè distenderla sulla parola, per seguirne l' espressione. Alcuni conciliatori, che, come accade, non contentano nè gli uni nè gli altri, mettono l' universalmente confessato libertinaggio delle bravure del canto nell' eccesso. Sono anch' esse buone, dicono, parcamente e ragionevolmente usate. Ma la ragionevolezza del canto drammatico sta nel bello che vien dall' espressione: ogn' altra cosa sarà leggiadra e dilettevole: però, secondo la nostra, ch' è la vera regola d' arte, sarà bella nel genere lirico. Sono ad eccettuare i lavorii di voce che in qualche caso esprimono le cose. Accennai già nel primo libro, nell' Oh gioja! di Semiramide il brillar altissimo di voce per opera della Lalande; e nel Pirata il costei È desso! con urlo emulo della corsa che faceva verso l' Amante, che all' orecchio era ciocchè all' occhio quella riga di luce che lascia dietro a sè il baleno. E in fine di questa tragedia ancora, muorendo d' angoscia, emetteva voce che a maraviglia esprimeva l' ululato ch' esce d' un cuor che scoppia di dolore. Pur erano queste vere difficoltà musicali, e diventavano ministre di patetica espressione. Così il tenore Tacchinardi al proferir que' versi nell' Otello: L' ira d' avverso fato Io più non temerò: agitava in un modo tutto suo la voce sempre crescente, con effetto, cui non saprei meglio esprimere, che paragonandolo all' aggirar d' una fionda, finchè n' esca il sasso verso al cielo lanciato. Sono ancor altre bravure consonanti al senso materiale della parola, come trillar sui vocaboli: brilla: sereno: raggio; ma debbesi far cautamente, con senso d' imitazione, non di capriccio musicale.

[-147-] LXXI. Gridano qui nuovamente i partigiani del bel canto: in tal guisa denudarsi d' ogn' abbellimento l' esecuzione, nonchè la composizione, come col privarla de' scientifici accordamenti, si toglie alla musica il nerbo, e la si converte in una indotta, insipida declamazione. Così esprimevasi, appunto in contraddizione al Bellini, uno Scrittore anonimo, credo però maestro di cappella, riportato dal giornale: I Teatri, 1830, pagina 44. "Io cerco in un maestro della poesia, vale a dire ch' egli sappia qualche volta trovare ispirazioni anche dove il poeta dorme; che la musica mi ecciti un diletto d' entusiasmo, non sempre proveniente dalla perfetta concordanza d' una frase musicale con la poetica; cerco insomma anche di quegli effetti per i quali una lettera dettata, un ricapito di casa, uno stormo di campane, mi commove, mi elettrizza, mi strascina fuori di me; uno di quegli effetti per cui non ho bisogno di studiare, di pensare, lo dirò pure, di sentire fortemente per essere scosso, per provare un senso di piacere." Questi sofismi passano ne' giornali, avvezzi parlar dell' odierna moda applicata eziandio agli spettacoli, arti, e belle lettere loro. Ma diversa ragione dà norma ai libri durevoli, ai precetti dell' arte che son di tutt' i tempi. La poesia della musica non può esser altra cosa che la più poetica espressione della poetica idea indicata dalla musica. Capisco però chè vuol dire lo Scrittore: chiama figuratamente poesia il fiore, la crema, dirò così, la voluttà della musica. Ma dee prender a prestanza il nome della poesia per darlo a ciò che all' uopo diverrebbe suo scorno, sua contraddizione? Il poeta dorme? Se s' intende in que' momenti ne' quali la drammatica tela consuma le sue mezzetinte necessarie al chiaroscuro dell' assieme, tristo quel musicografo che non sappia o non voglia far altrettanto nella sua facoltà, e nei corrispondenti luoghi! Se dorme per ignoranza, non è questo un caso da contemplar fra le regole, non ammettendo queste nemmen per eccezione poeti, nè musicografi, che dormano: in ogni modo però mal potrebbe l' ultimo risvegliare il primo, e male farebbe versar i semi sopra un tratto di steril terren sassoso; bensì sorpassarlo veloce piuchemai. Il goder poi delle nonsempre perfettamente concordanti frasi musicali colle poetiche, il non aver bisogno di studiare sopra una musica troppo imitativa, ed il non sentire [-148-] troppo fortemente, sono parole da non perdermi a confutare. Conchiuderò piuttosto che male sono scelte le citazioni. Uno stormo di campane dovrà esprimersi sempre piucchè si può identicamente, cosa essendo in sestessa istrumentale. Una lettera generalmente di sua natura è del genere infimo in letteratura, del genere semplice nella drammatica, e si suol perfino leggere in prosa dagli stessi attori cantanti per convenzione. Circa un recapito di casa poi, od un indirizzo di bottega, e simili, senza cercare qual uso ne facesse questo e quel maestro, e senza indagar come introdotti entro alcun dramma, dirò, prendendo le cose più in generale. O l' autore del libretto non ha preparato al musico le opportune situazioni, e questa è question pratica, che nullaltro prova fuorchè potersi dar un poeta che non adempia la porzione cui nel comun lavoro gli assegnano le regole stesse; od ha composto un dramma suscettivo di ottimamente immaginate, ben distribuite, bastevoli situazioni musicabili, ed il maestro dee far senno altrettanto, e allora solo ne darà della poesia; altrimenti, della musica senza poesia, come pittore che impastasse colori squisiti senza dissegno, fiori, erbe e frondi senza il paesaggio. "Si rimangono soltanto scolpite nella memoria dell' universale quelle arie che dipingono, o esprimono, che chiamansi parlanti, che hanno in sè più di naturalezza; e la bella semplicità, che sola può imitar la natura, viene però sempre preferita a tutte le più ricercate conditure dell' arte". Algarotti, saggio sopra l' opera in musica.

Ben intendo che l' amore del dramma piuchè musicale, specialmente poi, nè a torto, per l' opere incomparabili del Rossini che sono in questo genere, rende restii parecchi a darsi vinti alla ragion chiara del melodramma patetico sobriamente musicale. Per essi aprasi dunque un teatro apposta, e come in Parigi, peresempio, è sopra diverse scene, opera francese, opera italiana, opera comica, vaudeville: e come in Napoli, l' opera italiana, e l' opera in dialetto: diasi quinci l' opera drammatica, quindi l' opera lirica: (ponderate bene il significato di questi due termini). Ma oltrechè queste sarebbero chimeriche divisioni, non si acquieterebbero poi coloro, mentre vogliono il tutto, e l' onor del primato, sostenendo essere l' opera vera, l' opera unica quella, che però non conta nobiltà più antica del secolo [-149-] presente. A vincerli vuolsi un autore, il quale necessarj renda i suoi capilavori nello stile contrario. Allora il fatto sarà eziandio ragionamento.

LXXII. Non accadrebbe però così di leggieri a' maestri largheggiare ne' colori più di quello che richieggano le singole occasioni, se non fosse per desiderio d' andare, nonsolo fuor di graduazione, ma fuor nel genere, cioè passar dal drammatico al lirico. Questa loro ambizione se non puossi direttamente menar buona, è in arbitrio del poeta di secondar qualche volta, introducendo nel dramma opportunamente canzoni, romanze, turbe di coristi che intreccino canti concertati. Ecuba d' Euripide, delirante di dolore, si figura menar l' orgie, e canta qual Baccante. Polieuto di Cornelio nella sua carcere intona un sacro cantico. Canta sull' arpa Davidde dell' Alfieri. Cantano e suonano i Bardi dell' inglese Mason, e con essi gl' interlocutori principali. Ho attinti apposta questi esempi fuori del melodramma. Chi vieta scegliere gl' argomenti suscettivi di canti lirici, e suono vero, infra il canto ch' è azione, e quelli multiplicar generosamente, quando sieno al subbietto veramente naturali?

LXXIII. L' Autore del giornale: il Censore dei teatri, non potè perdonarmi ch' io avessi scritto negli Annali reggiani miei: L' opera sarà perfetta quando non sia più opera. Ma ciocchè dissi da scherzo potrebbesi anco sostener propriamente, poichè se fosse da tanto nonsolo di spogliarsi delle sue frasche, nè più esser l' opera finquì conosciuta e criticata, ma purgarsene fino a diventar una vera tragedia musicale, quale vuolsi quella de' Greci, lagnandosene i filarmonici otterrebbe voto de' saggi, e quelli avrebbero di chè coltivar musica lirica a suo luogo. Intanto, stando anche le cose come sono, si chiede, ed è anzi da farne regola fondamentale, che il poetico autore sappia di scrivere pella musica, quindi le apparecchi tutto il più favorevole campo a segnalarsi, o per meglio dire a illustrare giusta, i metodi, facoltà, e dovizie musicali, la propria poesia; e maggiormente laddove appunto è più intensa la poetica importanza, sicchè contemporaneo riesca l' incremento, e l' esplosione d' entrambe: così le due sorelle indivise, dandosi mano scambievole, salgano la scala del bello, e dell' importante progressivo. Ecco in qual guisa vengono prevenuti [-150-] i sofismi de' critici, ed il falso vanto de' compositori dimostrato uno splendido difetto.

Una grande scena, non di vuot' armonia, o vana pompa di spettacolo, e specialmente se finale, e unita alla catastrofe, è della natura delle stesse tragedie. L' ultima parte della Didone, che chiamerò ultim' atto, nel quale in più scene crescendo, varia e peggiora la situazione di quella infelice protagonista, a quanti dialogati e monologici canti di vario muovimento e stile non dà luogo, fino all' ultimo soliloquio della disperazione, che non vorrei un recitativo, ma più degl' altri impetuosissimo, risoluto canto, a rapidissimi versi appoggitato! Nella scena finale del Regolo, perchè non ispande egli la voce, chè l' ascoltino i sette colli? O, per parlare senz' enfasi, perchè non adopera egli la forza del canto, poichè cantata è la tragedia, essendo quella situazione fra tutte caldissima, se que' suoi consigli sublimi imprimer dee in tutti gl' animi, e farli risuonare dentro tante anche rimote orecchie? Perchè non interloquiscono le turbe, con ragione tragica, ed effetto armonico del pari? Cominciando dalla contesa del Consolo e del Tribuno, che ha le forme d' un duetto, e poscia gl' affetti diversi, i compianti, i teneri addio de' circostanti non offeriscono forse un fondo del quadro, ed un contrastamento di cori da dipingersi con poetico e musical pennello? E nel Tito, quella famosa scena in cinque, ove ad ogni parola cambia d' aspetto l' azione, ove gl' interlocutori con grande loro angustia, e dello spettatore, non s' intendono, perchè virtù comanda ad un fortissimo personaggio tacer grande arcano, e far piuttosto sestesso ed altri vittima di maggior dovere: perchè tuttociò non si raccomand' al canto, e ad un quintetto, non della scuola moderna, ma di quella della ragione? Perchè farne una scena da tragedia declamata, che tal è, adonta delle rime, del recitarlasi in suon di canto, e di quelle tarde ariette che n' eludono l' effetto, mentre cantand' ognuno la sua, sospende l' azione, e la partenza degl' altri quattro, poi di tre, poi di due, per l' ultimo di sestesso? E se l' opera non può cantarsi dove abbisogna maggiormente, facciasi tutta di recitativi. Altrimenti acchè servono dunque quelle canzonette distribuite uniformemente in fine delle scene? Prova è questa di fatto a quanto asserii già parlando del Metastasio, nell' opere del quale son [-151-] così superficiali i metri pel canto, e mancano le forme ove il canto dovrebbe estendersi a paro col bollire dell' azione, ch' io credo, standosi esse fra la tragedia ed il melodramma, di qualche passo avvicinarsi più a quella che a questo. Eppure tanta è la preoccupazione favorevole ad un grande autore, che non ci lascia luogo a pensare di chè sia suscettiva un' arte dopo di lui! Il Milizia nel Trattato del teatro scrisse: "Ma che più regole? Le vere regole dello stile lirico sono i drammi del Metastasio."

Nè voglio dir perciò che s' abbiano a toccar que' poemi. Egli stesso vivo male il potrebbe; ma potrebbe piucchè altri farne de' musicalmente perfetti. Si desidererebbe bensì vedere, che quell' Autore componesse un melodramma, in cui, non colle ariette uniformi, uniformemente collocate, ma con varietà e incremento della distribuzione ne' versi da cantare, con intiere scene colà, ove più raggruppasi 'l nodo, più ferve la passione, svolgesi e scoppia la patetica catastrofe, co' suoi tanto poetici concetti, colle sue tanto tenere misure, co' suoi tanto melodiosi numeri preparasse, dico, all' autor della musica opportuni temi di canti soli, di canti in contrastamento, di secondaria cooperazion de' cori, congiungendo così in uno le delizie de melodramma, la passione della tragedia moderna, lo splendore di quella de' Greci. Quanto è difficile nell' opere degli uomini, che van d' ordinario dall' uno all' altro estremo, avere la via di mezzo! Chi crederebbe che nel melodramma della musica moderna, tuttochè aborto, mostruosamente lontano dalla virtù del metastasiano, tuttochè trascorso all' opposto eccesso di raffinamento musicabile, si trovassero però maggiormente l' idee d' una melica favola, in cui alle forme del canto vadano del pari le situazioni dell' azione, inguisachè i momenti patetici di questa definiscano l' incominciamento, l' incremento, l' intreccio, lo sviluppamento di quello? Che se i moderni poeti per imperizia, ed i filarmonici per insobrietà elusero gl' effetti di così bell' opera, che il caso, credo, aveva loro preparata davanti, non è men verità, che quel canto, in tutta la sua forza vera, non ad appendice di scene recitative, nè per monologhi, ma nell' intrinseco maneggiamento delle scene stesse più patetiche, quindi dialogatamente, dee costituir l' essenza d'una melica tragedia: non contaminato però, se mi è lecita la parola, nè soffuocato [-152-] dalla sua stessa frondosità, dall' inintelligibile contrappunto, dalla confusa eco strumentale. Il chè credomi aver anche troppo diffusamente ragionato.

LXXIV. Il buon collocamento eziandio degl' attori cantanti, non per secondarne la vanità, ma in pro dello scenico quadro, vuolsi diligentemente osservare; quindi, trattando con mezze tinte i secondarj, fare cader il lume sui principali; e talora riservare il luogo di mezzo, e lo splendor più vivace de' colori a chi è il massimo, ed a questi, come a centro, rivolgere tutte le linee della pittoresca composizione. Egualmente le scene loro, come poeticamente, così musicalmente di maggior elaborazion ed effetto, gioveranno di più allo scopo drammatico.

LXXV. E qui appunto vuolsi preveder una dimanda: Quando la poesia, e la musica si sieno ristrett' entro i limiti della ragion drammatica, concorrerà nell' impresa la Virtù cantante? Veramente al mio tutto novello metodo di componimento richiedesi una tutta nuova educazione degli attori; e quale, riserbo all' ultima porzione di quest' opera proporre. Per ora basti dire, che s' egli è vero, nell' istrionica professione dell' opera esistere strana e perniciosa pretensione di cantare pel fasto e gloria personale, non per rappresentare il dramma: più quella serie di folli capricci che fecer ridere talvolta rappresentati 'n commedie, e piangere gl' appaltatori de' spettacoli cui essi servono: bisogna confessar ancora che oggidì è molto ammansato quel gregge indocile. Oltrechè le sue false musicali abitudini sono in gran parte diventate false abitudini de' maestri di cappella, fastosi anch' essi, e ricchi di pregiudizj quanto i cantori. Ed a svellere tali abusi, come svellere si dovrebbono, forse i più ritrosi non se ne mostrerebbero i cantori di oggidì. Piacemi divertire con qualch' esempio il Lettore, non intendendo però farne troppo presto una regola.

Il grande Gargia cantò volontieri il drammaticamente insulso personaggio del Moro nella Semiramide. Lablache assunse una volta la parte dell' Ebreo nella Gazza ladra. Una sera nel teatro San Carlo di Napoli ammalò improvvisamente quel meschino che sosteneva la parte infima del Doge nell' Otello. Nessuno, per triviale che si fosse, voleva umiliarsi ad una trivialità suppletoria. Lablache, che non recitava, udito il bisbigliamento, e saputane la [-153-] cagione, disse: E non ci son io? Immantinente vestissi, e sotto la zimarra di broccato e l' aureo corno dell' adriaco Principe fece risplendere la sua modestia. Questo poteva essere uno scherzo; ma non da scherzo memorabil motto proferì, allorchè pell' apertura del teatro di Parma, nella nuova Zaira del Romani e del Bellini, udì, turbandosi, essergli stato tenuto il principal carattere, d' Un bel turco innamorato. Nè ci er' altra cosa, disse, più al mio dosso? Acci Lusignano, ma non ha che una scena. Meglio, soggiunse, una scena ch' io possa rappresentar opportunamente, d' una lunga fastosa parte estranea alle mie facoltà. Si credette che parlasse con affettata umiltà, nè fu secondato, il perchè nella ruina generale dell' opera ruinò egli parzialmente. Nella Straniera, e nella Sonnambula, la Ungher e la Taccani prime donne furono adoperate come secondarie, e in quell' opere stesse si levarono poi a grande gloria sostenendo il carattere della protagonista. A proposito della Straniera, mi sovviene d' un curioso accidente. L' anno 1832 per le scene di Venezia (male intelligenze d' imprese)! furono scritturate ad un tempo due primissime donne, oltre la consueta altra prima. Nel duplicato venne decisa l' esclusione alla Giuditta Grisi, con diritto però d' esser egualmente pagata. Isdegnando essa mercede così poco guadagnata, richiese cantar almeno un' opera. Ma per continuate confusioni nell' amministrazione erasi sul finir delle rappresentazioni, e non restava più a dar che uno spettacolo, la Straniera, e avrebbesi dovuto toglierne la parte di mano all' altra prima donna secondaria, che n' era già in possesso. - Dunque canterò quella d' Isoletta.- Come! una Grisi far da seconda donna? - Non è parte di seconda donna, rispos' essa, se composta per la Ungher; e per egual ragione posso cantarla io pure. - Non si poteva ciò negare, ma fu d' uopo persuaderla in altra guisa, che, carissim' ai Veneziani, piena di vigore, la sua modestia sarebbe ridondata in umiliazione della Rivale, che per tutte opposte cagioni era in contraddizione col personaggio da rappresentar nell' opera, quindi da prima donna sarebbe risultata seconda: e ne sarebbe avvenuto l' ecclissamento di candida luna accanto al sol d' agosto in un medesimo cielo.

Descritte le parti onde si tesse il melodrammatico andamento, diamo un' occhiata alla complessiva forma del melodramma [-154-] stesso. Ma prima convien parlare delle cose accessorie che concorrono all' edificio del melodramma.

LXXVI. Il nostro melodramma poco abbisogna che se ne descriva mano a mano l' andamento, non constando come l' altro di simetriche parti, e pezzi da scuola, ma facendo suo pregio fonder in sè colla musica le situazioni, e dissimular le forme, le giunture, gli ufficj di sue membra. Non è però che sotto questo velo i due compositori abbiano a trascurar il magistero d' arte da cui viene l' effetto. Perciò, dissi, fino dall' impiegare il valor musicale de' cantanti attori può venir nonsolo ad essi gloria, ma grande splendore alla favola.

Quale divisione d' atti conviene al melodramma? Comincerò dal dramma in genere, giacchè non parmi che, molto quistionando, si sia però mai trattata chiaramente questa materia.

Scena: È una continuata azione senza cambiamento d' attori. Intervallo fra scena e scena, che non ha estensione in quanto a tempo, è: quando alcun attore parte, o viene nell' azione.

Atto: Una successione d' attori e di scene nonmai interrotta. Intervallo d' atti è quello spazio che passa fra la partenza dell' ultimo o ultimi attori, e l' arrivare di nuove persone, nel qual tempo il luogo riman vuoto. Ne' drammi di scena non istabile questa è l' occasione, nè più nè meno, nella quale si può cambiare lo scenario, avendosi prima la cura d' involar agli occhi dello spettatore la vista del palco. Allora l' intervallo d' atti prende un carattere a parte.

Queste sono le elementari regole dell' arte fondate sulla ragione. Chi scrive fra le scene: parte: arriva: non fa che, senza pro e con poca chiarezza, innestar più scene in una. Chi lascia vuoto il palco nel corso d' un atto pecca rozzamente contro l' arte, e viene a far più atti in uno. Maggiormente cade in questo vizio chi cambia scene fra gli atti, nè voglio saper quali gravi autori lo facessero; certa cosa che gli antichi non peccaron in ciò mai. È pregio d' arte che gli atti non sieno più di cinque; è verità di fatto che saranno in effetto tanti, quanti gl' intervalli di scena vuota, e più apparentemente i cambiamenti di luogo. Nè vale averli il poeta dissimulati, e scritto altrimenti. La sua autorità in parole non può contro il suo operato, nè basta [-155-] ad attaccar assieme membri di materia e di forma disgiunti. Dura conseguenza (ma pure, dirò così, filosofica) sarà questa ad alcuni. Tranquillinsi però, che io non intendo per essa esimer nessuno dal fare ogni sforzo d' arte per non eccedere l' atto quinto. Bensì voglio solamente inferirne, che nelle favole già composte, gli atti si conteranno dagl' intervalli reali, fossero anche per diventare di dieci atti e più.

LXXVII. Si potrebbe dimandare se l' opera vada dispensata dalla legge drammatica, che la scena non rimangasi vuota fuorchè nel finir degli atti, perchè colla sua musica può riempir la lacuna, e dar campo ad arrivare dopo un po' di tempo non inverisimilmente altro interlocutore. Ma l' istrumentazione, che dee sempre significar qualche cosa, posta per riempitivo ripiego, null' avrebbe a imitare; quando non servisse a preparazione di avvenimenti successivi, nel qual caso quell' istrumentazione apparterrebbe alla scena susseguente, nè potrebbesi dire veramente nello spirito della cosa, scena vuota.

Cade qui in concio quanto era bene dir prima, della cura ch' ebbe il Bellini di produrre l' armonia istrumentale dopo le scene, or ammorzandola, per riaccenderla continuatamente in quella della scena successiva, or facendola da questa, dirò così, assalire e troncar, ma sempre con drammatico intendimento: cosicchè le sue melopee, anche senza parole, come drammi verseggiati, risultino tutte d'un getto: e ciò in onta degli altri musicografi, cucitori di pezzi.

L' autorità del Metastasio stabilì al melodramma il numero di tre atti. In tempi più moderni furono ristretti a due. Tuttavia non mancaron esempi fra gli antichi di drammi in cinque atti, e n' abbiam per lo Zeno; ed in tre atti anche fra' moderni; in quattro ancora, detti inutilmente di quattro parti. Gli oltremontani seguiron la stessa divisione delle tragedie, e fecer senno.

LXXVIII. I cori, tanto graditi a' nostri musicografi, e così opportuni alla tragedia cantata, pongansi a divider gli atti. Così questi essendo veramente cantici, non parlanti di turbe interlocutrici, avran campo di saziarsene coloro che quelli a questi preferiscono, come più musicali. Ma facendosi la melotragedia tutta seguente, quando riposerà l' orchestra? Giusta riflessione! Non però ammetter deesi un' assoluta [-156-] pausa, che distrugg' affatto l' attenzione, quando fin il dramma declamato ha un riposo in musica. Se tanto piace oggidì la musica sulla scena, facciasi accompagnar il coro dalla banda, e riposi di qua l' orchestra.

Ove si cangi scena, siccome conviene calar la tela (il chè non si adoperi mai ne' drammi di scena stabile, onde non perderne senza pro un difficile caratteristico pregio) parte dell' orchestra dia la vicenda all' altra, come usa in occasion de' balli. Ma soprattutto sarebbe questo il sito per una sinfonia assolo ogni intervallo, onde appagar l' ambizione de sedicenti professori d' istrumenti, e liberar d' alcune incongruenze il melodramma, introdotte onde possan essi mostrare fuor di tempo la loro bravura. Ben adatti all' azione codesti soli, potrebber anco esimere l' intermedio de' cori ne' stessi drammi di scena stabile.

LXXIX. Sono d' opinione contraria a quella che fu finqui generale, ed estimo doversi studiosamente andar in traccia, non altrimenti che si fa nella tragedia, del caso di conservare la scena stabile, e quando poi ciò non venga fatto, consolarsi allora coll' uso che rende meno intollerabile, dirò quasi, il difetto. Difetto ciò che si credette maisempre caratteristico ornamento nel teatro delle illusioni! Io non credo oggimai, che l' opera sia spettacolo dell' illusioni, bensì del cuore, come la tragedia, e nel meno lodevole caso, spettacolo della voluttà dell' orecchie. Quale allettante pompa di scenario introducono una per l' altra le opere del repertorio rossiniano? quale quelle del Bellini, tuttochè di genere drammatico? La deliziosa musica di quell' Autore, il dramma musicale di questo sono nell' uno e nell' altro caso ciocchè invitane al teatro. In altri tempi il fasto delle così dette decorazioni avrà renduti estatici gli spettatori; ora è diventata proprietà del ballo, ed è poi nel medesìmo una virtù secondaria, e inefficace a supplire alle principali. Si chieggono belle scene, perchè non vuolsi veder l' impresario risparmiare; si biasimano brutte, perchè non debbonsi introdurre cose deformi nello spettacolo. Ma una scena stabile maggiormente richiederebbe l' opera diligente di grande artista. Si lodano le tali tele per particolar beltà, ma come quadri di paese, o prospettiva, posti dietro le spalle di figure vive. Fossero eziandio dipinte dal Tiziano, dal Rosa, o dal Veronese, dal Canaletto, avrebber [-157-] vanto d' immensi paesaggi, ovvero prospettive: indipendente vanto dall' azione drammatica!

Ed è ciò veramente un ornamento del melodramma, quand' è tutt' altro nella tragedia? Non è anzi deformità veder uomini veri sovra un campo dipinto? Meschin' accozzamento di viva figura, e di pittura! Io incanutii ormai contemplando l' opere, nè passommi sera che non mi avvisasser di tale incongruenza gli occhi miei con essa irreconciliabili. La maraviglia è della prima recita; in uno spettacolo che per trenta riprese si riproduce, quelle tele diventan più indifferenti della scena stabile, e la loro incongruenza fassi col continuo osservarla semprepiù patente.

Ben altra varietà, magnificenza, ragionevolezza presta lo spettacolo d' una scena stabile, vera, ovunque praticabile, quando abbiasi la sorte di poterla combinar coll' azione. Più opportuna ricchezza offrirà la vera scoltura e architettura, che la finta e non illudente pittura. Si può rinuovar la pompa, la verosimiglianza, e in parte la vastità e moltiplice divisione del greco scenario. Questo convien appunto all' opera, spettacolo, che i suoi ricchi apparecchiamenti mantiene per molti giorni continuati, e mesi.

LXXX. Ma è ormai tempo dalle parti passare alla considerazione della intiera melotragedia, nella quale veggansi quelle poste in azione. Poichè il dramma che proporrò ad esemplare non ha sinfonia, parlerò di questa parte. Nè dispiaccia, perchè io n' abbia favellato altra volta. Le cose più importanti non dissi allora, quando trattavasi seguir le costumanze d' una scuola che tanto non esigeva: una scuola della quale certo grande Maestro scrisse sopra un suo spartito comicissimo senza sinfonia: Chi la ci bramasse, potrà preporgli quella della tale mia opera (ch' era un melodramma eroico).

Un' opera senza sinfonia è un tempio senza vestibolo. Come in quello godesi entrare a cuoperto, prima di penetrar nell' interna cella, così piace la musica istrumentale ad apparecchiamento della vocale; quella stuzzica l' appetito a questa, e mentre raccolgonsi le genti, e l' attenzione, il maggior piacere sospeso da un minore è voluttà più dolce quantopiù ritardata.

Non concorro nel parer dell' Asioli, che la sinfonia colle sue forze istrumentali non poss' abbozzar un' idea drammatica. [-158-] Peresempio in quella della Cenerentola parmi ravvisar che l' ingegnoso Rossini abbia alluso alla novella anile, tratta dal bolognese decamerone a lui notissimo, quasi volendovi dipinger quelle donnicciuole che a vegghia narravansi certe fole, come in quel libro si finge. Che se vo' errato con troppo sottil supposizione, non m' inganno certamente in asserire, che nell' apertura del Tello, la quale sola basterebbe a far che Rossini fosse il Rossini, noi riconosciamo subitamente d' esser in Isvizzera e non altrimenti, tanto ne vien aperta inante con ideal dipintura la scena di quelle amene montagne, ove traggesi arcadica vita; e veggiam cogli occhi della mente quelle verdure, quegli armenti, e udiam quelle sampogne; finchè un lontan rumor di guerra, poi crescente, sparge stupore, sbigottimento, confusione; e cangiandosi così la scena istrumentale, abbiam abbozzata in essa colla prima deliziosa immagine l' altra opposta dell' azion futura, di violenze, di furori guerrieri, e di general desolazione.

Concedo però che nonsempre l' azion del dramma tiene un carattere spiegato, ond' offerisca dirette o indirette circostanze per particolare soggetto al pensiero del compositore. Quindi basterà il più delle volte che la sinfonia sia un quadro musicale negativamente analogo all' azione, cioè non risvegli sensazioni opposte a quella; e meglio ancora sia concepita con un' idea astratta, ma tutta effetto dell' impressione che nel musicografo avrà prodotta la lettura intiera del libro. Parecchie volte poi a preferenza debbesi sceglier il divisamento di preparare nell' istrumental proemio il principio dell' azione, predispor l' uditore alla prima parte di quella. Forse talora il punto stesso in cui apresi la scena mostrerà, da quanto immediatamente l' avrà preceduto, quale debba esser l' oggetto d' imitazione per la sinfonia, senzachè si possa ricusar di seguirlo. Nel por in musica l' Alessandro del Metastasio, l' apertura sarà qualcuna di quelle battaglie istrumentali, che d' un combattimento rappresentan tutta per ordin l' azione, finchè declinando questa, e smorzandosi relativamente la musica, diesi luogo, rimossa la tela, a quanto appunto esprimono i primi versi di quel melodramma.

Suggerirò un altro mezzo da far necessariamente drammatica la sinfonia nel senso della favola, ed è ordinar al [-159-] poeta un prologo all' antica, verseggiato con forme musicali, e quello metter sotto note, senza cantarlo però; ovvero toglierne l' insieme per occasione alla fantasia del maestro. Lessi con mio piacere, non ha molto, che un tal consiglio non era senza pratica, nè senz' autorità, giacchè in Parigi Ettore Berlioz pubblicò colle stampe il programma d' una sinfonia, esprimente le quattro epoche della sua vita. Ed ove vogliasi un esempio italiano più classico ed antico, se il Marcello trasse da una semplice amorosa lettera, trovata per caso, il tema di patetica sinfonia, ben vedesi come fino una prosa può fomentar l' estro creatore del musico valente. Questa, o queste sinfonie descrittive avranno eziandio il carattere progressivo, diverse da quelle d' un genere più triviale, che van ripetendo superficiali decise cantilene, piuttosto aguisa di canzoni e di suonate.

LXXXI. Poichè il miglior ammaestramento è quello degli esempj, vuolsi esaminare un melodramma più degli altri analogo alla bramata riformazione. Sia questo perciò belliniano, e particolarmente Norma.

Dice uno Scrittore periodico, che Bellini il suo progetto di rovinar e perdere, se può, il bel canto dell' opera italiana cominciò col Pirata, proseguì colla Straniera, coronò colla Norma. In questa sentenza cangisi solamente il senso della disapprovazione: rimarrà la verità del fatto a lode del Bellini.

Nessun' opera fu creata con maggior concordia delle multiplici parti onde si compone, per darne un pien effetto non d' illusione de' sensi ma di commozion del cuore. La melotragedia del Romani, se non morale, nè scevra da difetti, è però sublime poesia, e favola eminentemente patetica, anzi tinta di estremo tragico terrore. La musica, ad eccezione di qualche parte, che si risente de' pregiudizj melodrammatici, non facili a sveller tutti ad un tratto, in generale tien il carattere tragico veramente. È fatta d' un getto, non accozzamento di pezzi sconnessi; nè hacci arie o duetti propriamente, ma scene di canto, sfumate l' une sull' arte, quando le parti naturali dell' azione non ne seguino i veri intervalli. Cheanzi manca la Norma delle cose secondarie, a servir di riposo alle principali, che tutte succedansi rapidamente, non lasciando calmar un momento l' appassionat' altrui attenzione. Che in questa melotragedia, ranicchiata, [-160-] dirò così, veggasi una tragedia francese, non è colpa del genere melodrammatico, ma d' una particolar fretta del Romani a farla brevissima, mentre occupandosi solo delle scene principali, delle passioni di Norma, Pollione, Adalgisa, e dell' ardor patrio de' Galli, mercè alcuni robustissimi cori, trascurò affatto di mostrarne i Romani nel lor Proconsolo: tale che un centurione poteva tenerne le veci a far da protagonista. Peraltro rimangon le parti principali della tragedia, e in esse l' oro senza lega, e son cotanto calde di tragica passione, che hanno quella certa epigrammatica forza, nella quale costituir dee la quintessenza del melodramma, ove hassi a raccogliere più viva l' anima quanto circoscritte son le membra.

LXXXII. Colla doppia composizione combinavasi l' esecuzione. La Pasta, somma attrice, nelle parti di fiera passione precipuamente prestante, vera Norma della tragedìa, o, se vuolsi, nella tragedia artisticamente ritratta: Donzelli, attor profondo nell' esprimere passioni, attor leggiadro nel rappresentar l' eroico bello dell' antichità: Giulia Grisi, simile originalmente a quell' Adalgisa, novella bellissima rosa, oggetto innocente di seduzione all' incostante Duce latino: ed un Oroveso finalmente, che aveva certa sua particolar attitudine a fingere veneranda canizie, sebbene contraria alla sua giovanile avvenenza: e l' ammaestramento de' Coristi, anche come attori: musica sotto la direzione del Maestro: direzione del dramma sotto gli occhi del Poeta: e l' opportuna bellezza delle scene: e la ben impiegata ricchezza dello spettacolo: e insolito fervor, e cooperazione di tutti: e lo splendore procedente dal conio recente: e la fragranza di fresca nuovità: e soprattutto un particolare favorevol influsso che viene spontaneo, nè puossi quando si voglia provocare: costituivano tutte queste cose un così delizioso, un così sublime dramma, da tenersene beato chi lo vide, da provarne irremediabile dispiacere coloro che ne furon privi. Ne sia prova, che riprodotta poscia la Norma, eziandio con efficaci, o colla maggior parte degli stessi mezzi, non ne seguì più lo stesso effetto complessivo, a lasciarne appagati coloro che furono testimonj della prima vergin' esposizione.

LXXXIII. Era la prima scena (del famoso Alessandro Sanquirico) un bosco, che sebben dipinto, tuttavia per essere [-161-] profondamente praticabile, ai pregi di pittoresca evidenza nelle verzure, vedute al gelido raggio di luna, a suo tempo nascente come vera, univa quello di servire all' uso della drammatic' azione, all' effetto della musica. Altrettanto son di poca entità i successivi cambiamenti. Il luogo fermo nella prima sullodata scena sarebbe stato più della natura dell'azione, avrebbe schivata qualche inverosimiglianza, ed offerto anche in ciò solenne modello d' un' opera di sito stabile.

Priva di sinfonia (e dica pur chi vuole che quel breve preludio largamente ne compensa) l' introduzione è un canto di Druidi che s' apparrecchiano alle notturne lor ceremonie. Costoro, a' quali era così famigliar il cantare, rendon quasi naturale l' interrogazione che fan simultaneamente al Sacerdote. Potevasi però facilmente dividere fra più voci. Nè debbono i coristi prevenir Oroveso, ma replicarne le parole. Bensì saviamente operò il Bellini, far ridire in coro quell' ultimo concetto:

        E del suo scudo il suono,
        Pari al fragor del tuono,
        Nella città de' Cesari
        Tremendo echeggerà.
Tali versi vengono con tanta chiarezza, sebben da molte voci, intonati, che formano una tutta drammatica espressione. Qual lavoro di elaboratissimo contrappunto può agguagliarsi nell' effetto a così insinuantesi unissonanza? Quale altro coro per maggiore artificio fu mai più applaudito? Ecco in che guisa la musica de' Greci produceva così sublimi effetti! Non occultar le parole ma invigorirne l' espressione. A parlar efficacemente al cuore voglionsi melodici vocaboli, non suoni.

Dopo di ciò se ne vanno giù per la selva, accompagnando tuttavia le voci colla banda (moderna, e invero troppo fastosa per que' Barbari); e le voci ed i suoni, inselvandosi coloro, s' allontanano, s' ammorzano; poi ov' il bosco oppone men ostacolo d' alberi frapposti, sembrano rivivere; alfine si disperdono totalmente: naturalissima, ma in un magica imitazione! Quanto è lodevole il Bellini per aver saputo ritrarre queste verità della natura! Sien pur i cori altrui più ammirati per ardua arte musicale: i belliniani vantansi di trionfante drammatica chiarezza, e di saperne cogliere, con moltissimo dilettamento degli ascoltanti, sin gli effetti [-162-] materiali di voci collocate in particolari posizioni, che or s' allontanano, or s' avvicinano, or odonsi in luogo chiuso velate, e quasi decomposte.

Stavasi in disparte Pollione per coglier il destro a dover vedere la bella Iniziata. Ecco una delle solite scene da tragedia col confidente, mercè il tragico sogno che gli racconta, mentre pur dee ivi in ozio trattenersi. Alla narrazion del qual sogno, fatta con commozione, piena di fantastiche immagini, conviensi il canto; non però ne' versi quel metro di tanto simetriche strofe anacreontiche, e finire il cantabile con un' aria decisa (cui fa naturalmente contrapposto frizzante la casuale musica lontana de' Barbari salutanti l' apparente luna). L' aria è drammatica, ma non drammatico il metro, e il ripeterla, specialmente intiera. Può un uom bravando e minacciando, ridir le sue parole, ma non tutto, nè per ordine, quasi mandato a mente un discorso.

Quanto felicemente questa scena divide l' introduzione, le si frammette, e come quella con questa s' incorpora! Ricomincia sulla scena la ceremonia. Un coro precede. Dopo la parlata di Norma al popolo, con molto avvedimento del Poeta, canta costei la sua cavatina, e la canta veramente, essendo inno, e sacra prece del rito: Ed oh che deliziosa melodia insulla bocca della Pasta! Quanto belle le delizie musicali che non sono in contradizion colla ragione! Continua essa, con diverso stil di canto, a licenziare gli astanti, il chè vien fatto con arte; ma sull' a parte seguente sarebbe chè dire. Quando uno se la discorre fra sè in pubblico, massimamente ove non abbia l' artificio unico della Pasta di condannar all' immobilità le sue membra, meno la favella e l' espression de' sembianti, cos' han intanto a dir di lui gli astanti, nel vederne i muovimenti, quali di chi favella, e non capire il perchè? Primieramente non si replichi questo anche troppo lungo a parte, poi tutti i circostanti, licenziati da Norma, si siano già ritirati al fondo alla scena, e come sul partire, cantino il lor coro, mentre la Sacerdotessa, quasi rimasta in luogo solo, dice il suo soliloquio.

Erano gli a parte ignota mercanzia agli antichi. Saggio chi se ne temperi piucchè può! Ma renderli col canto è un volare a ruina; imperocchè dal tacito pensamento, [-163-] espresso per moderna convenzione in mute parole, che muovano appena le labbra, al canto propriamente sfogato, quanti gradi medii non sono sorvoluti!

L' orare di Adalgisa dà luogo naturalmente ad un canto, quindi altra naturale cavatina. Trascurolla questa volta il Poeta, e ne fece solamente recitativo, di cui la fine venne dal Bellini colorata in guisa di canto. La seguente scena, con duetto d' Adalgisa e Pollione, ad onta di alcune frasi qua e là, che accennano rotti tratti di cinguettìo e quasi conato di cabaletta, è però nel suo assieme così modesta, che richieggonsi due veri attori per farne rilievar il tutto drammatico valore, con poco musicale allettamento.

Il cangiar di luogo, con buona pace del Poeta, costituirebbe quivi l' incominciamento d' un second' atto. La situazione è drammaticamente metastasiana. Di qua presentasi Adalgisa timidamente a Norma, cui rispetta come santa madre, e crede sestessa rea di colpevole amore; di là Norma dolce l' accoglie, poi con profana amorevolezza l' incoraggia ad esporle la sua confessione. La semplice Donzella narra le parole tutte del suo seduttore, che nella scoltante rinnovano troppo simili memorie. Ammirasi qui un bel giuoco musicale. La confessione d' Adalgisa è espressa in un canto semplicissimo come i sentimenti della giovanetta; ciocchè dice a vicenda Norma è invece recitativo, ma colorato con forti accenti: da tale assembramento di canto e recitativo, e questo più energico di quello, risulta una nuovità, che consolida semprepiù l' eguaglianza cui Bellini ebbe arte d' introdurre fra cantabile e declamazione. Sovraggiunge Pollione, ma forse più per volontà del Poeta che per voglia che n' abbia. In questa giornata non gli dee giovar molto venir a Norma, e felice invece se può partir senza vederla! S' accende fra loro una situazione sommamente appassionata. La musicale composizione è più libera, più varia, più scenica del metro nella poesia; e solo chi l' oda può conoscere in quante foggie diverse colle meliche potenze vengano messe a contrastamento quelle opposte passioni, onde dipingesi amplissimo scenico quadro.

Così termina senza finale il prim' atto, nè mai finale alcuno fu, per clamorosa stretta, plaudito, quanto questa scena di passioni, allorchè Norma, seguìta da Adalgisa, come due leonesse che respingono fuor dalla lor tana [-164-] il cacciatore, incalzava il mal difendentesi Pollione con veramente tragico furor e di voce e di parole. Pur ostinati certi Filarmonici a negar tal vanto alla virtù drammatica senza la musicale, o piuttosto senza musical rumore e complicazione, han fabbricata una strofa, a dirsi contemporaneamente di dentro dal coro, volendo inferirne, anche dopo il fatto contrario, che un atto non può finir applaudito senza coro. Quest' aggiunta però è così bislacco soccorso a robustissim' azione, e canto drammatico, che l' uditorio, in essa tutt' occupato, della debole aggiunta nemmen s' avvede. Ma non è debole certamente la tenacità d' essi filarmonici nelle lor opinioni di mestiere!

Il tragico valor della Pasta nella Medea, specialmente ammirato dagli oltremontani, persuase lo stesso poeta Romani a rinnuovarle la situazione di madre che sta inforse se debba ne' figli punir il delitto del padre, o risparmiar il proprio sangue. Ma qui tale momento tragìco, messo come accessorio, senzachè ne segua l' effetto, ed espresso in una scena di recitativo, passò inosservato: pratica prova, che le passioni ed il canto maggiormente sfogato debbono darsi la mano nelle più drammatiche situazioni.

L' altra scena e duetto è con Adalgisa. Nel duo sembra che il nostro Musicografo abbia voluto ardere un granello d' incenso sull' altare della voluttuosa melodia, che trova sempre in teatro amici assai, o per meglio dire chi fra il popolo trascorre subitamente a deliziarsi di ciocch' è più lezioso, senza pensar più oltre. Se questo canto si accosti alle piacevolezze rossiniane, o tale facciano parerlo maggiormente le cantatrici di quella scuola, io non mi fermerò qui a indagare, ma piuttosto noterò che le due donzelle, per quanto unanimi di voleri, non possono improvvisare le stesse parole, senzachè la voce dell' una preceda d' alcun poco quella dell' altra.

Breve è questa terza parte: brevissima la quarta, anzi scena di soli cori, che non portando l' azione verso lo scioglimento, potrebbesi aver piuttosto per un coro intermedio, qualor venisse alla metà della favola. Dicesi che in questo luogo era preparata una scena pel tenore col confidente; ma Donzelli stesso ebbe il criterio di sconsigliarla, come fasto individuale e canto ozioso, senza situazione o utilità. Aggiungi agli altri esempj di docile animo ne' cantori. Il [-165-] coro è sommamente drammatico, e chiaro. Nel fine molto acconciamente le turbe fan eco ai concetti di Oroveso. Il cantico: Guerra, guerra, vien ammirato per una furiosa musica, di robustezza, cui non è solita sollevarsi l' opera, e per certo carattere, giusta l' azione, veramente barbaro, nè manca mai d' applausi. Indipendentemente però da queste lodi, non mi par renduto dalla cantilena il senso de' concetti. Varj son questi e sublimi, da sedici versi espressi; ma l' armonia non lascia intendere i sentimenti, e par sempre ripetere una medesima e sola strofa.

Poche scene, o niuna, vidi mai con tant' energia d' imitazione rappresentate in teatro, come il duetto, o piuttosto dialogo cantato fra la Pasta e Donzelli. Non approvo, dopo una scena tutta canto, pochi versi di recitativo in ultimo. Ciò dico al solo Poeta; giacchè nè per la musica, nè per l' esecuzione si discendeva certamente. Passandosi ad altra scena, e variando in parte cogl' interlocutori i sentimenti, è opportuno luogo da discender al recitativo: quindi potevasi aspettar a riprenderne il metro solamente alla scena che viene.

In essa il canto, dopo le parole: Son io: ricomincia dove ricominciar dee. Il duo di Norma e Pollione, secondato dal pieno degli altri interlocutori, per chi udillo (e chi non l' udì?) non abbisogna di commenti, tant' è tenerissima, genialissima melodia. La cantilena non ha taccia per sestessa d' antidrammatica, sebben la potevano fare sdrucciolar su quella via que' versi quinarj, più proprj d' un allegro, e costringere facilmente la musica ad esser manierosa, mercè il loro manierato metodo. La qual versificazione barbara di quinarj o di senarj, a vicenda uno sciolto ed un rimato, con rozzezza mal palliata dall' essere scritti, come un solo immaginario verso, due per riga, formano certa dissenteria, onde si sono affetti i moderni melici poeti.

L' armonia che li accompagna non è suon d' orchestra, ma dirò così, emanazione del suono, che, come dissi, geme sommessamente e flebilemente. Quest' è il più bel uso che farsi possa della strumentazione: eludere quanto in essa è di meccanico, per lo fregar degli archi sulle corde, e pel giuocar del fiato per entro agl' istrumenti: celar l' effetto or di molti strumenti unissoni, or degli assoli d' alcuni che facciano troppo riconoscer l' operazione isolata del suonatore, [-166-] tanto maggiormente quant' è più bravo: e finalmente il tutto fondere quasi in una liquida armonia, che rappresenti alla mente quantopiù si possa un risultamento morale dalle stesse cose materiali, ma in apparenza sublimemente private d' ogni lor mezzo di materia, e perfin d' arte.

La preghiera di Norma al Padre è pietosissima, e perfino, chi crederebbe? il crescendo, prova tutta musicale, vien opportunamente adoperato ad esprimere certo affannoso singulto di misera gioja in colei, mentre sorge contemporaneamente dai piedi del Genitore, quasi esultante del già ricevuto perdono. Machè! anche quest' aria si replica del tutto, contro l' imitazion del vero, il quale vieta che abbiasi a rifar un' azione patetica, nemica di metodica ripetizione.

Ecco finalmente soddisfatto il mio pronostico, che invocava un' opera in cui stasse il final per finale, non dopo la prima parte. Non è questo una mischia, ed un campo di battaglia d' armonie, d' accordamenti, d' istrumentazione preponderante, bensì campo di drammatici affetti, ove tutta la secondaria schiera cantante fa imitativamente variata eco di subalterne commiserazioni alla patetica scena degl' interlocutori principali: vera catastrofe di tragedia, renduta colle forze melodrammatiche, dipinta co' musicali colori! Pure mi fu detto per certo, che anche la Norma era stata dapprima preparata con rondò e grande scena finale per la prima donna, ma non essendone approvato il concetto morale, Romani nel riprodurla, estendesse l' azione a più d' un personaggio. Fu il caso inverso d' Orazio: volgendo la ruota, un fiasco si cangiò in anfora.

Felice pentimento, di cui l' esito fortunato ben dimostra quanto gioverebbe calpestare ridicole abitudini, e come l' opera eziandio può farsi bella di ciocchè rende importante il dramma generale! Quest' esempio eziandio palesa, che un attor cantante principale coglie viemaggior gloria circondato dalla cooperazione degli altri agenti nella favola, supremo restando egli maisempre nell' innata importanza della tragica situazione. Codesta favola col tragico terror non comune accoppia il maraviglioso metastasiano degli impreveduti avvenimenti. Chi avrebbesi aspettato Norma accusasse sestessa, invece d' Adalgisa? La situazione ultima, il quadro finale, il genere di morte atrocissima senza [-167-] esserne insanguinata la scena, stringon i cuori di profonda tristezza. Così è dimostrato in fatto, che anche una luttuosa catastrofe è tema opportuno per esser espresso co' risplendentissimi musicali colori.

LXXXIV. Quanto la Norma si avvicini alle regole da me tracciate, a render la musica ragionevole ministra di drammatica esposizione, o quanto sia dalla bramata riformazione ancora lontana, lascio a' Lettori nella descrizion precedente giudicare. Mia opinione al suo apparire fu questa. Se da una parte mi compiacqui veder, giusta le mie idee, già creato un melodramma, nella nudità sua fin troppo austero per far ricevere al popolo, altrimenti preoccupato, una cotanta innuovazione, dall' altra tenni per fermo, che se trionfò la prima volta, fosse istraordinario valor d' esecutori; ma che poi, non si potendo più trovarne intieramente di cotali, mal sosterrebbesi, e passerebbe col suo metodo, fralle cose disusate. Il solenne granchiocchio che presi! La Norma diventò esca di tutt' i palati, spettacolo di tutt' i teatri, di tutte le stagioni, di tutt' i cantanti triviali ancora, avvolgendoli nel suo lume, comunicando ad essi lo suo prestigio, o, per meglio dire, facendo diventar attori cotali che non si sarebbe mai creduto: prodigio, ma non contrario all' ordine delle cose; perchè dato il cimento, parecchi deboli diventan prodi dalla necessità. Questo melodramma non può che declamarsi tragicamente. Per poco di criterio che abbia il cantante, per povero che sia dell' arte rappresentativa, s' avvede, che, gettato entro quel pelago, gli convien o farsi nuotatore o affogare. E accade poi coll' occasione, che sviluppasi quel donativo di natura, il quale giacevasi entro di lui occulto e sterile. Così è succeduto a parecchi quondam cantanti diventar pella Norma attori cantanti, e sarebbero riusciti eccellenti drammatici ancora se alla semplice arte degl' istrioni si fossero dapprima consacrati.

LXXXV. Trionfò, dissi, Norma la prima volta, non la prima sera, nè le prime sere. E qui accade serbar memoria d' un caso, non forse necessario all' argomentazion presente, ma piuttosto ad insinuar ne' miei Lettori un canone principalissimo: Che nulla può di certo prevedersi, adonta di esattissime cure, di efficacissimi mezzi adoperati, nella falacissima materia teatrale: quindi doversi avere [-168-] ciò per fermo, che niente ivi è sicuro, niente è impossibile, niente è incredibile. Dite sempre: credo tutto, credo nulla, finchè non veggo, finchè non segue l' effetto. Quella Norma, che poscia per isproporzionati, triviali, quasi sordidi mezzi impiegati, non si rimase dal trionfare, quella quasi naufragò nel suo primo sciogliere con così favorevoli auspìci! Non dispiacerà ch' io narri ciocchè a me un Amico, e amico del Bellini. All' indomane della prima recita incontrandolo Bellini, gli disse: Foste alla Scala jersera? Vedeste il mio fiasco solenne? Io ne son avvilito. Distillai entro quest' opera quanto in me vale: non mi ho a incolpar di negligenza questa volta. Non sono riescito: pazienza! Lascierò la musica, cui m' avveggo non esser nato. Dopo tre recite partì colla stessa mortificazione alla volta di Napoli; dove ricevette poi, attonito, sempre nuove notizie di crescente approvazione, sinchè alfine non capiva in teatro le quotidiana folla accorrente.

LXXXVI. Per quanto si possa creder vicino alla mia riformazione un melodramma composto senz' aversene l' intenzione deliberata, si desidererà forse tuttavia che io agli avvertimenti miei dia corpo e vita, col farli veder messi in pratica, mercè un componimento creato apposta, secondo le abbozzate regole, almeno inquanto alla poesia, e coi commenti a margine delle prescrizioni che il poeta detta al musicografo, perchè le note di questi riescano emanazione della propria favola e nulla più. Ma cui ricorrere? E il por qui una melotragedia da me appositamente creata sarebbe superbo ardimento, e scorno se infima ne fosse ritrovata la poesia. Mi conterrò dunque a tracciare solamente d' una nuova opera il programma.

Avendo i drammatici poeti spigolato pe' campi tutti della mitologia e dell' istoria, può ben dire aver trovata la Fenice chi s' incontri ancora in qualche celebre fatto, intentato sulle scene, od in argomento che delle principali notissime passioni non sia superficiale modificazione. La ventura d' Epaminonda, celebre tema delle rettorich' esercitazioni, non so come, si rimanesse digiuna di scenico sperimento finquì.

Quel sommo Capitano non parmi fosse così generoso nella vittoria, a sacrificar sestesso per sostegno delle patrie leggi, com' era stato nella battaglia a sfidar la morte per [-169-] difendere la patria. Non si potrebbe far vedere quest' Eroe colla lente di Corneille e del Metastasio, che nonsolo ingrandisce, ma purga gli oggetti dell' eroica antichità oltre ancora la scrupolosa istorica verità? Questo pensiero mi ha suggerita la seguente drammatica traccia.

Lo scenario si divide in antiscena, retroscena, ultroscena. L' antiscena, o scena vera dell' azione principale, rappresenta l' atrio nel palazzo del supremo magistrato. Ai lati principio delle scale che ascendono alle parti interne dell' abitazione. Di prospetto colonnata, fra gl' intercolonnj della quale si discende alla piazza di piano più basso. Gl' intercolonnj estremi alle due parti sono murati ed han sedili di pietra, inguisachè chi si trattiene a favellare a destra od a sinistra della scena rimane come in luogo domestico. La retroscena è una piazza, fiancheggiata da due loggie, con sopra l' attico pur praticabile. Sono in comunicazione col suddetto palazzo mercè la terrazza loro, e fanno parte del tempio in fondo. Ai quattro angoli della piazza, sotto altrettante volte, partono quattro strade, che si fingono correre alle porte della città. Le due volte agli angoli anteriori però si sottintendono, rimanend' occulte allo spettatore. L' ultroscena mostra il portico del tempio, al quale si riascende dalla piazza; e per l' aperta porta vedesi l' interiore cella, accessorio della ultroscena.

Gl' interlocutori sono: Il supremo magistrato; che chiamo Creone; Dircea sua figlia; Epaminonda, già duce dell' armi; Meneclide destinatogli successore, eccetera.

Dopo incominciata la sinfonia, sparisce la tela, ed il resto esprime la ceremonia del sacrifizio per ottenere la vittoria all' armi tebane. Nell' atrio è Dircea con matrone della città, e sulle scale sporgonsi fuori i famigliari quinci d' un sesso, quindi dell' altro. Giù nella piazza sta Creone, coi Magistrati e co' principali della città. Le loggie ai due lati sotto e sopra sono popolate di nobili spettatori. La plebe affollasi ai quattro sboccamenti delle contrade. Il portico del tempio è pieno di cantori e suonatori rappresentati da giovanetti di bassa statura, ed altri minori figurano i sacrificanti entro la cella. Il coro de' musici intona un inno di propiziazione. Creone, presa parte nel rito, mediante una prece, e gl' incensi che vengono a lui presentati prima del sagrificio, intona poi una preghiera rituale. Finita regolarmente la [-170-] funzione, tutti partono con opportune azioni. Creone ritornando al suo palazzo, è trattenuto sulla gradinata da un Nunzio che gli reca certo foglio. Leggendolo si turba; Dircea prende parte in quello sbigottimento. Insistenti inchieste di questa; alfine il Padre le svela: Epaminonda aver ricusato di depor il comandamento dell' armi. Esulta la Vergine, sicura sul valor dell' Eroe; ma Creone la spaventa, ricordando la severità della legge contro la militar insubordinazione. Questo è un duetto, ma però piano e semplice, quale conviensi a non violentissima situazione, nonchè all' azione vicina al suo principio. Entrano in casa dalle due parti; e la Donzella vedesi poi continuar il suo cammino per una delle terrazze laterali alla piazza, seguitandola i musici della casa, e poscia entrar in una tribuna del tempio, da dove odesi in sèguito un coro che prega gli Dei, facendo eco ai voti della Vergine in favor del suo Amante. E questo è il primo intermezzo, che riempie l' intervallo precedente al second' atto. L' orchestra di qua intanto riposa.

A misura che si smorzano le voci del coro, sollevansi quelle d' un popolo tumultuante in lontananza, che poi si avvicina. Arriva Meneclide, accompagnato dalla Plebe, che con alte grida chiama fuori Creone. Esce questi, e udendo l' accusazione di costui contro Epaminonda (detta con energici sensi, ed alta voce, e come dicesi con un cantabile) non può a meno di mostrargli certo dispregio; il chè provoca l' ardimento dell' altro a rinfacciargli parzialità pel futuro genero, eccetera: quindi una scena cantata in due coi cori. Interrotta poi dall' arrivar d' un Araldo, che reca affannato: Da Epaminonda messi, al primo scontro, in rotta i nemici; lasciar egli ad altri la cura d' inseguirli; venir con drappello di cavalieri alla volta della città. Cangia opinione l' esultante Plebe, ed a Meneclide, che vorrebbe replicare, volgesi insultante. Torna intanto Dircea dal tempio; quindi con crescente calore termina l' atto, gridando imperiosamente i Popolani verso il tempio: che si canti l' inno di vittoria; e mentr' essi poi sulla piazza danzano, nell' atrio due schiavi ballano un duo.

Lontano squillio di trombe fa correr tutti a quella parte, e rimane vuota la piazza. Atto terzo. Vedesi giunger Epaminonda. Sostano i Cavalieri suoi sull' orlo della contrada. Andando il Duce dirittamente al palagio, è ammezzo l' atrio [-171-] incontrato da Creone. Al quale, ed agl' illustri circostanti, con accento sonoro di canto, espon la sua vittoria. Si accinge il Principe a rimproverargli austero l' illegittimità di quella, quando comparisce Meneclide, citando a' tribunali il Vincitore. I Soldati, e con essi 'l Popolo dalle non più contese vie, scagliansi entro l' atrio, e già son coll' armi sopra Meneclide, se no 'l difendesse da certa morte Epaminonda, coll' autorità, e fin col proprio petto. Quindi comandando a coloro moderazione, si protesta pronto a comparire in giudizio; e termina l' atto con varj sensi, chi di confusione, chi di dubitazione, chi di maraviglia, chi d' altre diverse affezioni. I Soldati per intermezzo ergono un trofeo nel mezzo alla piazza, ed appendono alle colonne attorno l' insegne nemiche, con una specie di pantomimica danza.

Ritornando Epaminonda, suo tenero abboccamento con Dircea, interrotto dal Padre, che la rimanda. Procura questi d' indagar l' animo del futuro Genero, e indurlo a generose privazioni pella patria. Offeso Epaminonda della diffidenza, s' infinge, e ne nasce un dialogo fin a certo segno caldo, quindi canoro. Ma vengono già i Giudici a tener ragione nell' atrio. La scena vassi popolando di guardie, di spettatori. Chiedesi ove sia l' accusatore. Comparisce Meneclide, il quale invece, cangiato dalla gratitudine, prende le parti del difensore. Dunque chi accusa? dice Creone. Tutti tacciono. Dovrà pella patria il Principe assumere così ingrato ufficio? L'accusatore: son io: grida Epaminonda. Universal maraviglia! Si oppongono alcuni; ma egli comincia la ringa: Avere, per salvar Tebe, disubbidito; volere, per salvarne le leggi, perire. In moltopiù pompose parole, esalta Meneclide le prodezze dell' Eroe; la sua stess' accusa, che deesi tener pella maggior difesa; e generoso condanna sestesso. Si oppone il severo Epaminonda, e prova, non doversi per molli affetti conculcar pericolosamente l' assoluta ragion delle leggi. Tutti stan perplessi: queste ragioni convincono, ma il cuor ripugna. Il supremo Magistrato propone, consultarsi la volontà degli Dei permezzo del lor Sacerdote. Ritiransi al tempio i Giudicanti, d' onde s' ascolta un coro che chiede al cielo il suo lume superno, cui succede profondo silenzio. Termina così l' atto quarto, ed il musicale intervallo.

Rimasto Epaminonda nell' atrio, guardato dai custodi, [-172-] vien ivi Dircea. Sue tenere parole. Quegli la dispone prepararsi a dover perderlo. Invettive della Donzella contro questo fanatismo di virtù, e contro la patria. Disdegno di Epaminonda. Alternativa di sentimenti, or fieri, or amorosi, or mesti. Tornano dal tempio i Giudici. Un oracolo del supremo legislatore de' Tebani, suggerito dal Sacerdote, dice: Che il perdere persempre la patria è pena eguale, o maggior di morte. A questa sentenza s' appigliarono i Giudici, e vien commutata la morte in perpetuo esiglio, salve rimanendo così le leggi, l' umanità, la riconoscenza. Partiti i circostanti, espressioni di ammirazione dello Suocero ad Epaminonda, sospese dall' irrompere della esultante Dircea. Vuol essa seguire il suo sposo nell' esiglio: s' oppon Epaminonda, nè tollera che una innocente partecipi le pene, l' onta de' rei: Tutto perde chi perde la patria. No: gli risponde Dircea, tutto perde chi perd' Epaminonda. Creone allora persuade: altro genere di virtù convenirsi agli uomini, altro alle donzelle; ceda l' austero Amante; faccia felice chi tutta in lui ripone la sua felicità. Ma in questo, Meneclide con masnada di Popolo vien per opporsi alla partenza. Epaminonda dall' atrio, con grave ed alta voce (di canto) arringa al popolo. Ricorda i maschi sentimenti che nudrir debbono i figli della sua patria: Aver egli maisempre saputo che la sua vita dovevasi sacrificar infra l' armi, per difendere le vite de' suoi; moltopiù poi le patrie leggi. Ed a Meneclide, insistente tuttavia, rivolgesi severo: Uom fatale, sarai tu sempre la ruina di Tebe, o me perseguiti, o me difenda con mal intesa virtù? Già cedendo il Popolo, e ammutolito, dando il passo, s' invia l' Esule illustre, seguendolo l' amorosa Donzella, abbracciandolo lo Suocero ammirato, confuso restando il sempre infelice emulo Meneclide. Epaminonda comparte gli ultimi addii, gli ultimi ricordamenti, fondati sul proprio esempio, a' Cittadini suoi, de' quali chi gli bacia le vesti, chi le proprie distende avanti a' suoi passi, chi piange, chi grida: il tutto fra un quadro patetico negli affetti, pittoresco nelle figure, melodico nelle parlate del Protagonista, armonico negl' imitativi frastagliati parlanti cori del Popolo, e in quelli canori de' sacerdoti dall' atrio del tempio.

Questo tema è del gener' eroico, che men di frequente amasi oggidì; ma come più difficile, l' ho scelto apposta. [-173-] Così pure la scena stabile: senza volerne inferir perciò che si possa introdur frequentemente. Ma qui offerisce ricchezza, spettacolo, varietà all' azione; è moltiplice come quella degli antichi, ed una come quella de' moderni. Negl' intermezzi degli atti son cori, suoni, danze, pantomime. Finalmente tutta la favola, d' azione grande, in un succinta, dà luogo, e al parlar forte in luoghi pubblici, e col magniloquio de' sentimenti al canto di naturale imitazione, quasi continuo fra pochi recitativi, ed ai cori nonmeno di turbe parlanti, che di cantori. Il tutto dunque costituisce una vera tragedia cantata, ove l' esecuzione del musicografo non abbia altra intenzione che quella di renderne l' effetto drammatico, prescritto a chi sa intendere nè più nè meno dal germe melodrammatico nella poesia contenuto. In altri temi men maravigliosi, più patetici, e, dirò così, più raciniani e meno corneliani, sarà sempre, con colori diversi egual' e forse più facile la ragione del musicale magistero.

Rimane omai nel melodramma favellar solamente: Degli esecutori suoi.

LXXXVII. Que' valenti attori nella Norma dan occasione a dover dire quivi alcun chè intorno la scenica rappresentazione relativamente alla tragedia musicale. Mi sia permesso, che, come Norma fra le opere, scelga in esemplare d' ogni attore cantante la Pasta.

      Ragion lungo invocata, e attesa in vano,
        A fin dà legge in su le scene al canto?
        Non oserò dir tanto:
        Ma fin che venga, in suo poter sovrano,
        A moderare le canore arene,
        Se pur sì bella spene
        Anco nutrir ne lece,
        Pose Giuditta a sostener sua vece.
Altri preferirebbe la Malibran. Dello scegliere a modello la prima farò in appresso vedere la ragione. Udii però molti, nel darle preferenza, dir che il classico valore a vicenda della Pasta è nella parte muta dell' arte. Ma se la Spagnuola veniva lodata pella forza rappresentativa quasi più ancora che pel cantare, e se l' Italiana dee superarla nell' [-174-] azione, quale attrice non sarà questa mai! Senonchè alcuni le appongono un metodo premeditato, uniforme, manieroso, ove nell' altra tutto vario, estemporaneo, naturale. Contro ai quali citerò autorità d' una penna inglese, di cui il fino sentire va del pari all' evidente maniera di pingere le sue idee. Vorrei trascrivere l' intiero articolo, ma farei troppo lunga digressione dall' unità dell' opera. Ne scierrò due sentenze; il restante potranno i Lettori con lor dilettamento ritrovar nel giornale milanese: La Farfalla, fascicolo del luglio 1829, ov' è tradotto dall' almanacco inglese intitolato The Keep-Sake for 1828. "Assumendo alla sua prima comparsa il carattere, col quale la Pasta si è pressochè identificata (Semiramide di Voltaire), madamigella Georges ha provocato un confronto non troppo a lei favorevole.... Ma la grazia spontanea e carezzevole della Pasta, la sua semplicità antica, la italiana sua disinvoltura sono la disperazione d' un attore: essa non è nè di una tale specie, nè di una tale scuola: essa è sola, ed individuale, perciò inimitabile.... tutti i suoi atti sono di regina; e la di lei grande semplicità, e la di lei grazia non mai forzata, dignitosamente affabile, e veramente regale producono un effetto simile a quello d' un quadro di Raffaello a petto d' un dipinto francese del Luxembourg, innanzi al quale i Parigini alzano e mani e occhi, e restano extasiès, come lo erano e il sono innanzi a madamigella Georges." E si noti che il paragone passa fra una cantante italiana, attrice nel meschino angusto campo di cattivo libretto d' opera, ed un' attrice francese, in tragedia di Voltaire. Nè credasi che l' Inglese il faccia per poca estimazione de' Francesi attori famosi, perchè così prosiegue: "La Medea (cantata dalla Pasta) è fuor di dubbio la più grande opera di azione che siasi veduta mai, dopo che la nostra Siddons calcò la scena nel colmo della sua gloria." Il chè importa por la Pasta sopra i suoi stess' istrioni nazionali, che sono i principali attori dell' Europa, e a canto a quella Siddons idolatrata dagl' Inglesi.

Oh come son diversi i genii degli uomini in genere di belle arti, nelle quali giudicasi d' ordinario per passione, nè posson esser convinti e fatti tacere con una dimostrazione matematica! Ma egli è certo ancora che in siffatte cose stan confuse, o complicate le opposte qualità, in modo [-175-] da illudere chi non ha fior di logica, nè scevro sta da passione di sistemi e di partiti.

È verissimo quanto dice l' Inglese della Pasta, e della sua rafaellesca grazia nell' idoleggiare, come si esprime, ogni sua cosa; ma è vero altressì che quest' attica verità, come quel Pittore, pone essa per veste ad una natura sollevata al bello ideale. Ed è a mio credere lode maggiore, non biasimo, aver prescelto sagacemente un metodo tutto adattato al carattere d' azione che trattasi musicalmente. Infatti quanta distanza passa dalle parole parlate alle cantate, tanta corre dal gestir comune a quello che accompagnar dee il canto, e del quale l' espressione al suono della musica fassi vivissima, e può, com' essa musica che l' accompagna, diventar fino ad un certo segno diviso in intervalli. Non fan così i pantomimi? E non è forse il gesticolar de' cantanti più sostenuto da una misura più lunga di note? Ed i pantomimi italiani varian mai di sera in sera quella loro gesticolazione, fedelmente imparata, e rigorosamente misurata dalla musica? Oltrechè alcuni punti di scena non si posson eseguire senonsè ad un modo, perchè non si posson eseguir meglio; e così adoperava in alcuno di tali casi l' estemporanea Malibran ancora. Potè essa mai cangiar in meglio quel vibrar le braccia contro Pollione, torcendone intanto il volto, e volgendosi ad Adalgisa con queste parole: Pria che costui conoscere, T' era il morir men danno! Osservisi anzi, che la Pasta, imitatrice di Talmà, nelle cose più andanti lascia cader giù le braccia, e pianamente cammina a cortissimi passi, abbandonando lo specioso marciare degli antichi melodrammatici italiani, e degli stessi tragici attori.

Dove sono coloro, che vorrebbero, giusta i principj antichissimi delle arti, fonder in uno l' opera e il ballo, facendo contemporaneamente gli attori diventar cantanti, e pantomimi e perfino danzatori? Eppure la tesi loro arringano con grande serietà! Ma se il ballo, e la pantomima in danza muoverebbero per ogni ragione mortal guerra contro la declamazione, non sarebbe strana cosa la piana pantomima, ed eziandio misurata colla musica, e accordata colle note del canto, come questo premeditata e artisticamente composta. Che se a tale arte volesse alludere l' ingegno della Pasta, ne trarrebbe certamente autorità per ischermirsi dalla [-176-] taccia personale d' azione manierata. Senonchè premeditata e manierata sono cose diverse affatto. Premeditata è la pantomima, premeditato il canto drammatico: dunque non può disconvenirgli un' azione di egual metodo. Notai poi nella Pasta un saggio, sebben dissimulato, di quel leggero muovimento delle piante a guisa di danza che potrebbesi cautamente applicare alla pantomima del melodramma, e ciò fu a que' versi nella Semiramide: L' angoscie, i palpiti A tuo supplizio Gli Dei rivolgano, Barbaro cor: nel dire i quali strisciavasi di fianco contro Assure, animando l' invettiva con quella direzione del corpo, e la direzione muovendo con artificio, dirò così, coreografico.

Raccolse la Pasta con poetico pensiero da quadri e antiche statue i profili e gli atti, e ne fece tesoro, per atteggiar sestessa in un modo tutto pittoresco o fantastico. Questi vede siffatte cose premeditate con troppo studio; quegli le ammira come prove d' un' arte imitatrice: quindi la discrepanza sovranotata de' pareri!

LXXXVIII. Il pregio principale della Pasta si è dunque aver con accortissimo ingegno inventata l' azione e l' espressione propria del melodramma, e non altrimenti, e di quella stessa opera antidrammatica, cui ritrovò sulle scene allorchè cominciò calcarle, ed alla quale nonsolo adattò, rendendole anguste, le sublimi sue istrioniche doti, apprese d' oltremonti, e le rivolse ad occultarne i difetti. Son difetti d' un tal genere melodrammatico: e il dover un attore, mentre l' altro perpetuamente prolunga le parole, starsi, come fan i più, inerte, o stemperarsi in gesticolazioni insignificanti: ed il dover poi a vicenda dir sull' orlo della scena, a sestesso, con lunghissime modulazioni, quegli adagi, ne' quali sparisce affatto il drammatico interlocutore. Nè in ciò le potè essere di modello altri, fuorchè il suo ingegno; non l' arte oltremontana, o Talmà stesso; cheanzi maravigliandone, un giorno volle provarsi a rappresentar una scena d' opera italiana; ma restò di sestesso assai malcontento; e disse che gli era affare arduo, e straniero ad un tempo, quel riempir tante non brevi lacune con azione muta, legata tuttavia ai circoscritti periodi, ed al significato d' un' armonia contemporanea.

La Pasta, non co' gesti ed atti di pantomimo, ma con azione di viva pittura, a sè compon nel melodramma una [-177-] seconda parte di muta rappresentazione, qualche volta migliore di quella che il poeta ed il musicografo le hanno scritta a declamare; poi ricavando un giojello d' arte dal vizio del genere, assume quell' immobilità, che un largo, un canone, un a parte richiede, e ciò inquanto alle membra; e trasporta intanto tutta la drammatica situazione sulla sua faccia, della quale la mobilità degli ampii tratti, concessale per singolar favore della natura, tutta rivolge, con istantanei cambiamenti all' espressione de' più minuti passaggi e graduazioni delle passioni. In queste guise è da lei espresso l' adagio a più voci Atroce palpito, eccetera alla vista dell' ombra di Nino sulla soglia della tomba. Così nella scena del giuramento: sul trono, in atto di fredda maestà, alle diverse riprese de' quattro Giuranti, or fa conoscere quando parla personaggio a lei indifferente, ora il turbamento che le cagiona la voce d' Assure ricordatrice del comun delitto, ora quella d' Arsace, che le richiama sul viso e pace e soave voluttà. Nè tacerò del suo incontro con Percy, nella Bolena, che col solo benchè represso istantaneo muovimento del viso mi fece conoscere la prima volta, non avendo letto il libro, la non ispenta fiamma per colui, e il timor del Re presente, e certa sospicione, che il benchè amato Giovine torni in patria funesto alla sua ambizione.

LXXXIX. A tutte queste cose non è capace por mente la turba vulgare, per far un giusto paragon fra la Pasta e la Garcia Malibran. All' apparir della quale accadde in Italia ciocchè nella Francia, quando Cornelio, ammirato come un nume della poesia, fu abbandonato, perchè Racine cominciò a far assaggiare più giovanili, più soavi, più popolari delizie. E pochi son gli uomini profondi e arditi ad un tempo, che perniente disgustati da certa scabrezza esteriore, penetrar sappiano l' intriseco merito di un genere men popolare, ed osino come il Baretti, che decidendo oppostamente all' opinione dei più, non temette dir senza complimenti, che molto maggiore poetico ingegno era in quell' antico Tragico, diquellochè nel suo Successore.

Tutti seppero ammirar nella Malibran la messa di sonora voce che riempie subitamente le orecchie, l' ardita, impetuosa, imperiosa espressione con cui l' accompagnava, la naturale espressione d' un' anima che vivamente sentiva. Tali prerogative vinser gli spettatori, specialmente italiani, [-178-] e da quelli passarono a far forza eziandio alle menti de' freddi critici. È però di questi ultimi saper distinguere che nell' arte sta il principal merito, se non il principale allettamento; e tantopiù, quando arrivi, dovendo solo a sestessa i proprj sussidj, a raggiungere la meta. Vero è che qualor la felice natura, e l' arte intelligentissima si dieno la mano, ne uscirà opera maravigliosa. Ciò fu della Malibran, e non si può farle, nè le fu fatto più grand' elogio. Pure in alcuno può trovarsi l' una delle due prerogative per eccesso, e come per prodigio, e allora risveglierassi ammirazione sovrumana. Il chè accadde della Garcia in quanto all' una prerogativa in modo più abbagliante, e della Pasta in quanto all' altra virtù, ma questa virtù persestessa meno avvertita dalla gente. Tantopiù atta però per farne teorico esemplare, descrizione, trarne regola ed ammaestramento. E ciò particolarmente poi di essa Pasta, inquantochè la comica sua non è l' istrionica in generale, ma quell' appunto tutta propria d' un dialogare musicale. Perciò lei scelsi a preferenza per modello dell' attore particolarmente melodrammatico.

Mi parve tuttavia maisempre, e fui solo in questa mia investigazione, di ravvisar nelle due Attrici nonpoca relazione, da toglier il bisogno di farne distinzione, e paragoni odiosi. Eguali esse certamente per sublime tragica potenza nella melotragedia, poco importava, ed era secondaria osservazione, con quali organi di voce, con qual metodo di gesto ognuna operasse, e meno, con qual carattere drammatico, potendo l' una e l' altra in una sola favola prender le parti, come di Clitennestra ed Elettra, di Cleopatra e Rodoguna. Lo stesso dicasi del canto. Mentre l' inno: Casta diva, ed il crescendo infine della Norma, scritti per la Pasta, non potevano per altra donna esser renduti nella lor originale integrità; la Garcia pronunciava l' Ah m' abbraccia! nella Sonnambula colla voce velata della Pasta, perchè tal voce richiedevasi all' espressione d' una tenera passione. Non viene così l' una a trasformarsi nell' altra? Senonchè accompagnava la Malibran quel sentimento con isfacciato atto traditor del decoro d' una vergine all' ara nuziale. Il chè mi ricorda dir per la pura verità, che parecchie sguajataggini nella Sonnambula, e gli artefatti caratteri, per trarne un falso popolar effetto, nelle opere buffe, Cenerentola, Barbiere, Gazza ladra, erano difetti [-179-] ben più grandi del manieroso metodo rimproverato alla Pasta. Colla quale poi ebbe comune la taccia d' alterare la ragion delle note, e l' opera de' musicografi, ed introdurre inutilmente ne' melodrammi canti stranieri, e di fattura tutta diversa. Così temperansi l' umane azioni di ben e di male agli occhi del savio, che le guarda con imperturbabil giudicio! Questo poi si aggiunga al parallello: che sebbene la Pasta prevalga nelle cose fiere, non è incapace de' teneri caratteri, come pure la sua Rivale, mercè quel innato vigore, rendevasi all' uopo fiera sublimemente. Quindi con curiosa alternativa, la prima canta, tutta tenerezza, la famosa scena di Romeo, nell' antica musica del Zingarelli; e la seconda per opposta via non voleva coglier altri affetti che cupo terrore da tutta drammatica azione: quindi riduceva florida la moderna musica del Vaccai ad una quasi tragica declamazione, e come altri disse al ferreo stile de' Capuleti belliniani; il chè accenna nella Malibran dispotismo di strana dittatura: escludere l' atto terzo del Bellini, poi render belliniano quello del Vaccai.

La Pasta sortì un cantare nelle voci alte fioritissimo, ed un trillare ad ogni prova tutto suo. Perfino di queste così dette bravure fece uso a renderle patetiche al cuore. Le corde medie invece e le basse tenne da natura avara fioche e velate (sebbene ingegnosamente se 'n vaglia talora in pro degli affetti), e fin la sillabazion difficile: pur recita chiarissimamente, perchè a forza d' arte vuol essere sopra ogni cosa recitante. Parve nata dapprima a secondarj destini: meno l' esser cantante d' agilità, e meno l' ingegno, ed una fisonomia parlante sublimi affetti e profonde passioni, con lineamenti, e carni, e forme fra quelle onde van avidamente in traccia i pittori per modelli e per idee. Tutto il restante dee a sestessa, ed a quel talento, che oltremonti trovò gli ammaestramenti e gli esemplari, per trasportare nell' opera italiana eziandio, com' è nella tragedia, la prima importanza sulla drammatica espressione. La Malibran nacque prodigio di natura, di fantasia, e il divenne d' arte facilmente. Della sua voce non si conosce in altri una maggior potenza. Pur il suo punto d' appoggio era aldisotto del vero soprano; se sollevavasi allo sfogato, ed ai capricci degli acuti, come discendeva fino al tenore, o al basso mascolino, era perchè, formata ella stessa un prodigio, poteva vagare per tutti gli [-180-] spazj vocali, fuori ancor del proprio centro. Ma il canto semplice, atto alla declamazione, era suo vero pregio (e credo darle così la somma delle lodi); ed il maggior abbellimento certi bassi rari e piucchè femminili. Furono altre voci nonmen belle, ma mette quella della Malibran sopra tutte un certo accento sonoro, ed una certa vita che l' animava, la quale applicata massimamente alla drammatica, captivavasi dalla prima nota attenzione, sorprendimento, amore. Un' egual prontezza, energia, e vita, simile a quella che diè natura fra i fluidi al mercurio, imprimeva muovimento spontaneo al suo corpo, come caldo erane il suo fantastico ingegno. Nè minore la facoltà mentale, per formarsi un tutto naturale metodo d' esprimere, di rappresentare, d' imitare. Non era propriamente l' arte oltremontana, cui però ebbe comodità d' attingere, ma un' arte più generale, tolta principalmente con facilità imitatrice di prima mano dalla natura. Nè però che in alcune cose non passasse volontariamente all' esagerato, al capriccioso, come abbiam osservato; ma per queste non avevan occhi o lingua gli ammiratori di molto maggiori virtù. I quali più ancora poi, seguendo il costume degli amanti, che suppongono sempre l' avvenenza estrema ove per altre più pregievoli qualità collocano il loro amore, fingevano nella Malibran avvenenza e figura, da non desiderarsi bellezze più teatrali, quando eran invece quelle che non sorpassano la lode di giovane bella. Cheanzi la sua persona addattavasi a simular giovanilmente il sesso maschile: pel quale travisamento aveva grande amore, come pure la Pasta, di cui poi le forme eminentemente femminili contrastavano con siffatte mascherate.

La magica voce della Garcia, la sua spontanea pieghevolezza, la maggior attitudine a dipingere gli affetti popolari, cioè i più teneri, e l' agile giovinezza, dovevano procacciarsi in maggior numero gli ammiratori, che una voce restia, fomentat' a forza d' arte, ed un drammatico metodo da non gustarsi pel volgo. Perciò se alla Pasta venne anteposta da molti, fu cagion nella Pasta una certa sublimità più omerica che virgiliana, o vogliam dire, austerità dantesca, e soprattutto la sua vocazione ai drammatici caratteri fieri anzicchè ai patetici. Fra due classici attori propenderà maggiormente il genio dei più verso quegli nel [-181-] quale abbondino maggiormente le leggiadre che le sublimi prerogative; quindi, peresempio, ne' poeti la tenerezza delle passioni, la grazia delle pitture, il pulimento dello stile faranno agguagliar sovente due diverse altezze, e molti godranno posarsi sulle deliziose vette di quella che solleva men aspre le superbe sue cime. Così Virgilio ad Omero, così Racine a Corneille, così Moliere al Goldoni, per ragioni diverse, vengono sovente preposti, o accarezzati maggiormente: ora più amandosi il forbito esteriore, che la sublime scabrosità; or più gli affetti che son di tutt' i tempi, che l' eroismo dell' antichità; ed ora soprattutto il poco elegante a preferenza del molto, ma privo di quell' aureo stile, ultima in sestessa, ma la prima prerogativa che si sente dagli uomini.

Oh quanti scogli ha questa vita! Quanti l' ardua carriera delle sceniche delizie! La Garcia, nel culmine del giovanil vigore e della gloria, è rapita all' ebbra ammirazione dell' Italia, all' estimazione dell' Europa. Fin quel effetto della sanità, l' impinguare, torna fatale all' illusione, al bello de' spettacoli! La Pasta ha incontrato alquanto questo secondo svantaggio. Maggiormente la Lalande, sebbene più giovane. Io ho fatto paralello tra quelle due prime con altri sensi che quei passaggieri, animatissimi nelle garrule disputazioni, ne' giornali e ne' convegni, mentre vissero competitrici. Ora parlo da storico a' posteri, e parlo di personaggi che nella serie de' tempi son per prendere un carattere in nulla dipendente dalla circostanza di essere vissuti assieme. Quindi quanto dissi delle forme nella stessa superstite Pasta, voglio s' intenda relativamente a quelle che fiorivano in lei colla prima giovinezza. Intorno alla Lalande egualmente retrocedo a' que' bei giorni, nei quali, rivale della Pasta, aveva in Milano, presso i più fervidi capi lo stesso favore della Malibran, pella forza maggior del canto, e pel suo genere d' attrice somma nelle patetiche passioni. E per verità, considerata in generale, è la terza di queste Grazie. Siffatte tre cantatrici, ove l' acqua di Lete le avesse private ad un tratto del sapere musicale, sarebbero restate attrici drammatiche così grandi, che non saprei quali altre ad esse fra l' italiane paragonare, specialmente per certa veramente poetica sublimità.

Non intendo rimontare a' tempi antichi per descrivere attori [-182-] cantanti a me ignoti, e meno poi gli antichissimi, de' quali parlano gl' istorici dell' arte, il Quadrio, il Signorelli, l' Arteaga. Sarebbe però desiderevole che quell' istorie fossero continuate, onde riempir gran lacuna, cui lasciano, passati sotto silenzio, i tanti cantori, de' quali fu fecondissima l' età precedente alla nostra, quando vivevan ad un tempo forse dieci classici per ogni voce.

Fralle donne ricorderò solo quella Todi poco nota, perchè spenta sul primo fiorire, della cui apparizione in Venezia tengomi cara un' istoria, intitolata: Descrizione ragionata del Teatro moderno: che ne fa sì vivo ritratto da non poterle che rassomigliare, come mi accertarono ancora vecchi testimonj di veduta. Emula costei della precedente Tesi, e delle future Pasta e Garcia, pare che sua virtù particolare fosse la grazia, avvolgendo in essa la copia della Malibran, la forza della Lalande, la finezza drammatica della Pasta. L' arte istrionica poi era in lei sì grande, che quando sul fin della Didone staccavasi propriamente da terra per iscagliarsi giù nella voragine, non battevan palpebra i Veneziani attoniti.

Sorpasso quante e quanti non appartengono al vero canto drammatico. Pur bisogna confessare che de' molti musici antichi, inmezzo alle loro morali e canore follie, parecchi avevano grande comica vocazione, ove fossero stati più severamente governati. Chiudono la schiera, per tacer degli altri, il vivace Marchesi, allorchè cominciò a farsi drammatico; il patetico Crescentini; ma penso che niuno agguagliasse il sublime Pacchierotti, e vanti pur l' istoria i Ferri ed i Farinelli: perchè costui con ostinata fatica giunse all' apice, a dispetto della natura che gli aveva dati organi deboli, voce, al dir d' alcuni, dissonante, persona non piacevole. Pervenne tuttavia a dar col canto l' effetto della tragedia, d' insinuarsi pelle fisiche vie al cuore fin all' angustia del pianto, non disgiungendo da ciò la sempre necessaria scenic' azione. E che non sien punto esagerate queste tradizioni mi attesta un cotale, che lo udì solamente in troppo inferiore sperimento. Pacchierotti aveva lasciata assai presto la musica, ed era cosa difficile indur il ritros' uomo a farne sentir una nota; pur un giorno non potè schermirsene da chi aveva sopra di lui autorevole ascendente. Ma nella brigata non si trovò altro accompagnatore che [-183-] la chitarra d' un convitato, nè questi sapeva suonar cosa più atta al canto della canzone: La Biondina in gondoletta. Ebbene: Pacchierotti, allora vecchio, la modulò con tanta tenerezza, che il mio informatore mi disse, aversene sentite agitar così pateticamente le fibre, e il cuore, da persuadersi chiaramente, che con men triviale tema, e d' un genere più melanconico, non avrebbe potuto, anche senza scena, temperarsi dal piangere.

Ricca pur di tenori la passata età, quanto steril la vegnente, Babbini n' era il principe, eccellente nel recitativo e più nel canto, nelle cose dignitose e maggiormente nelle tenere, nonchè completo attore. Men divulgata, ma non men grande è la fama d' Ansani. Poco profondo nella musica, di magniloquente voce, di pittoresc' azione, colpiva di sorprendimento lo spettatore: verace modello del bello ideale d' eroic' antichità! Era poi sua cura sollevar il recitativo verso il canto, e rendere declamante l' aria, dando così alla parte una continuata correlazione di colorito.

Furono a' tempi recenti, in grado minore forse, i successori: del Babbini Tacchinardi, in ogni pregio d' arte perfetto; e dell' Ansani Crivelli, colossale nella voce e nell' azione, il quale può addursi ad esempio del caso qualche volta sulle scene osservato, che una somma vocazione all' arte fin ad un certo segno tenga luogo di talento e di coltura, in preferenza di chi ha piuttosto queste seconde che la prima facoltà. Nè furon meno drammatici Siboni, Ronconi, Nozzari, il dotto Garcia. Nè sì taccia quel Rubini, onde la voee, prodigio di natura, è quale aureola, o fiamma d' uno spirito che arda: più fine, più delicata, più ornata che voce alcuna femminile, benchè in lui naturale. Preterisco poi coloro, di cui al genere si addice quella sentenza in Fedro:

      Vide la Volpe: il come non so dire:
        Un Musico vestito da guerriero,
        E: Peccato! (esclamò) sì gran cimiero
        Quanto poco cervel sembra coprire!
Più opportuno allo scopo nostro è parlar distesamente d' un solo, che sebbene a quelli dapprima secondario, divenne a niun secondo per la circostanza d' essersi oltremonti dedicato al metodo tutto drammatico. Egli è [-184-] Domenico Donzelli, uno di coloro che i maestri dicono non molto scienti dell' arte; di bella voce, di voluttuose forme giovanili, e per queste, piucchè per corrett' azione, leggiadro dapprima sulle scene. Tale andò in Francia, e in Inghilterra, ove molti si fan drammatici. Egli, che non si sarebbe creduto, il diventò soprattutti. L' arte verace, l' arte oltremontana lo ha renduto un attore fra' giovanili forse invan desiderato dalle stesse recitanti compagnie, e pieghevole ancor a' caratteri diversi. Lo vidi una sera classicamente Pollione, e nell' altra Masaniello evidentemente simular la caratteristica trivialità napoletana: con quella diligenza imitativa de' costumi nostri, che, a scorno di noi, coltivano gli oltremontani solamente.

Chiudo questa scelta con quegli che vuolsi forse collocar primo fra' tragici attori cantanti, sebbene sia basso. Filippo Galli, ne' primi tempi suoi triviale tenore per opere buffe, la poca voce che avea venne poi a modo perdendo, che rimase negletto e avvilito. Dopo una malattia cangiossi questa in voce, come altri disse, rara ed unica di basso colossal e profondo, grata però pella maraviglia che destano le cose grandi. Allora fu che il nuovo genere, più suscettivo della varietà de' caratteri, gli diè campo a conoscer in sè una rara drammatica vocazione. Le scene di Milano, amantissime di siffatte vere delizie, gli prestarono lungo campo a provarsi con ogni genere, eroico, grave, senile, truce, piacevole, bernesco. In questa città indelebilmente ricordasi Galli nella catastrofe del Maometto con musica di Winter: e quando nell' ultima estremità del profondo scenario, salmeggiando notturno, dietro l' ara di lunghissimo tempio, intuonava quel cantico sublime: Dei che piangendo invoco! e quando ivi ferito dai Figli, emetteva altissimo mortal grido: e quando strascinavasi carpone fino all' anteriore scena, d' onde ne veniva tragica situazione in sublimi note espressa, da lui fra quattro altri attori, sostenuta. Cantando la Semiramide, massimamente nella scena d' Assure, che rifugge dall' ombra di Nino, pareva un pantomimo istruito alla scuola del Viganò; e udii un vecchio, antico ammirator degli Ansani e dei Babbini, asseverare tuttavia che cosa più grande non aveva veduta sulle musicali scene in vita sua. Nel padre pazzo per amore della figlia atterrì e disgustò gli spettatori (colpa dell' argomento!) I quali poi ripopolando [-185-] appoco appoco il teatro, ammirarono lungamente l' arte dell' attore nell' imitar uno sciaurat' originale. Rammentasi ivi ancora, come lazzo d' inimitabile evidenza ed ispirazione, quel lasciar cader addietro il tabarro nella Gazza ladra. Mercè i Turchi dell' Italiana in Algeri, e della Pietra del paragone, faceva fantastica parodia della sua majuscola gravità.

È insomma Galli generico istrione, e come fu Demarini, profondo nell' imitazione della natura. Non so se d' altrui esempj, o dal suo ingegno traesse questa vera scuola; so che signoreggiava la scena musicale com' altri la pedestre, senz' alzare, o incrocicchiar le braccia come i musici, e senza volgersi alla platea, o cantasse, o secondasse l' altrui cantare, imitando continuamente il vero. La sua voce immensa, il suo gestir colossale, ch'egli abituossi proporzionar alla grande arena della Scala, non sono pe' teatri piccioli. Quindi poco piacque, alquanto invecchiato, in Parigi questo attore tanto simile a que' Francesi.

Strana, luminosa, breve fu la sua carriera. Passò poi con grandi emolumenti regolator di spettacoli nella Spagna, e indi nell' America. Chi più teorico nell' arte della Pasta e di lui? Questi due nomi uniti mi ricordano la comune loro rappresentazione di Semiramide e Assure.

Un melodramma affidato. alla Pasta, alla Malibran, a Galli, e Donzelli sarebbe melotragedia di Esopi, di Roscii, di Talma, delle Siddons. E dove son ora coloro che dicono, essere l' opera lo spettacolo de' sensi?

XC. L' inopia de' tenori ha posti in onore i bassi, de' quali la voce poco agile è destinata all' ombre ne' concerti, ed alpiù fra' caratteri a vestir quelli di cupo tiranno, nè mai alle principali parti di teneri o gravi personaggi.

D' un' antica deformità si è spogliata la scena: le voci bianche in caratteri maschili; quindi non uomini, e chiamati primi, con favella femminile. A quest' assurdità univansi quella di forme donnesche patentissime, che dovevano rappresentar all' incredulo spettatore i giovani eroi, ed i Megacli atleti. E quel vezzo di volersi pure far barbe posticcie, non potendo però modificar la voce in modo che alle barbe si rendesse verosimile! Dell' esclusione menan oggidì rumore i contralti, ed i filarmonici ancora, sulla monotonia declamando di due donne ambedue cantanti in soprano [-186-]. Mi compiaccio intanto veder ogni sesso rappresentato dal suo sesso (quando non si tratti d' alcun giovinetto, come d' un Gioas), e che sieno domate le femminili gelosie di mestiere, a segno, che si possano por più donne assieme in carattere di donne nelle opere come nelle tragedie. Per contentar i contralti poi, facile, anzi provido è il mezzo: delle due donne ognuna abbia voce musicalmente diversa, e come accade fra tenor e basso, reciti il più delle volte colei ch' è soprano la parte tenera, colei che contralto sostenga il robusto carattere d' antagonista. Che se foss' essa di maggior valore che l' altra, non mancheranno argomenti in cui la parte principale sia più robusta o più fiera. Una valente donna contralto poteva esser Norma, e Adalgisa il soprano.

XCI. Resta parlar dell' orchestra, la quale parte sendo meno di mia pertinenza, faronne sol un cenno. Dice uno Scrittore, nè satiricamente, che il Rossini ha ampliate le forze del regno musicale, perchè ha introdotta nell' orchestra la gran cassa. Povero Rossini se non avesse altre glorie che queste malvantate dai panegiristi suoi! Gl' istrumenti da colpo, ed il tintinnio de' scossi metalli non può aver nessun' azione nella musica vocale, e nemmen nell' imitativa, quando si alluda solo in parole a cose rumorose e sonore, e non sieno propriamente insulla scena, come allorchè rappresentansi l' identiche azioni, quali, battaglie, marcie, tempeste; ed è poi una puerilità del secolo, creder che veng' accrescimento di solido diletto all' ottima musica da queste frascherie, le quali son come le dorature, e l' argento, e le gemme vere ne' quadri, cose che guastano l' intonazione de' colori. Colla differenza che nella dipintura convien che l' arte per lo meglio escluda ciocchè l' imitazion del vero richiederebbe si mettesse; laddove nella musica i soli suoni degl' istrumenti da corde, o da fiato possono render le voci umane, ed intonarle; l' aggiunger un basso non umano col timpano, ed un sopracuto col sistro è barbara ignoranza.

XCII. Chè dirò poi di que' musicografi, a' quali basta un' allegoria, come a dire: Opposti pensieri perturbano la mia mente, quale un mare in fortuna: per creare subitamente, allungando quanto basta le parole, la musicale descrizion d' un temporale? Anzi si fanno al poeta introdur [-187-] siffatte figure, ed è allora per essi lo stesso, come se, verbigrazia il prim' atto terminasse con un temporale veramente. Ma come si distingue questa pittura da quella della cosa vera nello stesso spartito, od in altr' opera? E che stile di pingere, o maestri, e qual' economia di colori è la vostra, se adoperate eguali tinte, metodo eguale nel rappresentar le cose vive, o nell' alluder alle medesime col discorso?

XCIII. Perciò dissi che l' imitazione strumentale debb' essere di due sorta. L' una allorchè vedesi propriamente, peresempio, una tempesta, l' altra quando il canto fa allusion ad una tempesta, come se un nunzio viene a raccontarla, nel qual caso nonsolo gl' istrumenti da colpo debbono esser esclusi, ma i migliori, e più vocali ancora solamente con imitativa emanazione del loro suono hanno a rappresentare l' idea della cosa, nongià materialmente la cosa stessa. Ma quest' arte novella non si può insegnar con parole, bensì solo sentirsi. E il darne pratico esempio sarebbe da maestro forse più grande di quanti furono finquì.

XCIV. E poichè il maestro son venuto accennando, e favellai già della musica e de' musici, due parole farò intorno al primo ancora. Sembrerà ch' io debba trattar piuttosto del poeta (ma il feci in tutta l' opera) e che discorrere dell' autor musicale sia temerità. Dironne dunque inguisa di non eccedere le mie facoltà.

XCV. La musica, dicesi, è arte ad un tempo e scienza, come quella che fondata sul calcolo, quindi sulle matematiche. Accadendo spesso all' arti trar soccorso da questa o quella scienza, non veggo che l' altre si chiamino artiscienze perciò. L' architettura, peresempio, che vanta così fastoso nome, non suole aggiungere a questo il titolo di scienza, quantunque tragga presidj dalla geometria certamente più che la musica dall' aritmetica e dall' algebra. Perchè vera geometria è quella che applicata viene all' architettura, laddove la musica richiede solamente una specie di matematica numerica, nè manda gli alunni suoi precedentemente alle scuole proprio di matematica. Debbono l' arti belle, come le lettere, piuttosto essere studiose d' animarsi virtualmente collo spirito della filosofia, chi fisica, chi morale, che d' ambirne il nome, istituendo poi le prime colle seconde, quando la natura loro il permetta, un felice legame, inguisacchè un' arte vada più ancor fastosa [-188-] d' esser letteraria che scientifica, o il sia nella comunione che ha colle belle lettere.

Che se la musica tragge dalle matematiche i nervi, tragge più copiosamente, più evidentemente dalla poesia le idee. Quindi la chiamerei arte letteraria, e semipoesia. Perocchè le note co' caratteri han molt' affinità, e dipingono all' immaginativa quanto quelli spiegano articolatamente, quindi le prime son più nobili ne' lor effetti delle produzioni di pennelli, di scalpelli, di compassi, come quelle che colgono un fine più mentale, e meno dell' opera della mano: perciò possono aversi le note una cosa media fra l' arti e le lettere. E maggiormente poi, perchè la musica si associa colla poesia, per ritraerne, come in uno specchio, le immagini e le frasi, il perchè nell' opera comune così seco s' immedesima, da divenir ella stessa poesia; e quand' anche compone da sè istrumentalmente, o il fa pella poesia, o l' opera sua, dissi, è poesia sottintesa. Perciò non vorrei quell' enfatico dire: filosofia dell' arte: musica filosofica; bensì: rettorica musicale: musica poetica. Povera rettorica, povera eloquenza, povere lettere, se mancassero a loro logica critica, e perfino buongusto, senz' andare ogni volta ad attingerle riservate nelle scuole di filosofia! Le lettere, la poesia debbono essere filosofiche, ma di quella filosofia ch' è innata in esse; la musica dee essere altresì, ma di seconda mano, filosofica nella poesia.

Jattanza, di cui si fa beffe giustamente un critico, è però quella del dire: scrittore, per compositore di note: stile di scrivere, per maniera di compor musica. Scrivere in tal caso non vuol dire menar la penna, ma farsi autore nella letteratura, la qual è cotanto diversa dall' opera non letteraria del musicografo, che ridicola vanità, e falsa maniera di esprimersi è render comuni nomi di cose cotanto distinte.

Intantochè il musico vantasi scienziato (parlo fatti, non animosità), dirado è uom di lettere. Purtroppo la facoltà sua è costituita in modo di non richiederlo. O sia che le astruse sue discipline non gli lascino il tempo di frequentar giovinetto altre scuole, o che poss' arrivare senza ciò alla sua meta, certa cosa, che passa dalle scuole puerili od anche dall' ozio assoluto alla musicale palestra, e contuttociò, come per molti esempj si potrebbe provare, può aver gran nome fra' maestri dell' arte, non conoscendo che appena [-189-] materialmente il suon de' versi, che sono la pasta su cui dee modellare. Fatale conseguenza della separazione di queste due arti!

XCVI. In altro senso intendono i filosofi la filosofia dominante sulla musica. Ma non a torto si lagnano i filarmonici di quella famosa sentenza: che tocchi ai poeti far versi, ai filarmonici compor note, ai pittori dipingere, al solo filosofo giudicarne. Per filosofo intendo chi nelle cose metafisiche pensi sublimemente, o chi le fisiche conosca profondamente. A sentir esquisitamente intorno le belle lettere o l' arti vuolsi la sua vocazione a parte, nè a preferenza si combinerà questa in chi dedicossi con tutto l' uomo a più astruse discipline, che non si curano vestir apparenze in qualche modo somiglievoli al bello nelle facoltà imitatrici, delle quali sarebbe troppo umiliante la condizione, se fuor di sestesse dovessero ricercar i critici solamente fra' cultori delle scienza; nè fosser un ramo di letterati e di artisti coloro che ne professano la parte più sublime, i critici insomma. Forse dirassi che costoro vadan annoverati ai filosofi; il chè mentre diverrebbe una sottrazione alle facoltà delle arti e delle lettere, tornerebbe in poco onore delle scienze, mentre sarebber i critici tanto lungi da misterj della fisica e della metafisica, quanto que' filosofi dal conoscer di professo musica e pittura. Parecchi artisti, accennai testè, con buona dose d' ignoranza delle scienze nonsolo, ma delle lettere ancora, diretti ed ispirati da' un' innata vittoriosa forse da loro stessi non ben intesa vocazione nell' arti loro imitatrici, operarono cose prodigiose; e certi filosofi proferirebbero prodigiosi erronei giudicj, parlando d' arti fondate sopra riservate teorie, ch' esigono lunghi appositi studj.

XCVII. Il giudice vero in materia di lettere, o d' arti belle fia il critico, ch' è cose a sè, filosofo soltanto negativamente, cioè null' avendo di antifilosofico nel suo pensar e ragionare; del restante sia letterato od artista nel tempo stesso, speculativamente almeno; e quest' arte, questa letteratura speculativa è appunto la critica, valeadire una facoltà intellettuale superiore alla pratica, ma fondata almeno sovra un' intima conoscenza della pratica, ma fondata almeno sovra un' intima conoscenza della pratica medesima. Ed ecco, quasi senz' avvedermene, ho fatto cenno, in un col musico e col maestro, del critico ancora.

[-190-] XCVIII. Forse dalla scientifica materia viene quel chiamarsi che fanno professori coloro che professano musica. Il chè vorrei anche menar buono a' compositori, come coloro i quali son autori; ma professori si chiamano i suonatori tutti, sebbene la lor provincia sia esecuzione che non abbisogna le lettere; cheanzi nella sua lunga e laboriosa carriera suol tener occupati lunge dall' altre scuole i giovani, che rimangonsi spessevolte professori illetterati. La quale jattanza di nome non si dovrebbe punto accordare, a istanza specialmente de' professori scientifici e letterarj delle università, che vengono ad essere sinonimi di suonatori d' un armonico legno.

XCIX. Tu sentirai poi generalmente il filarmonico discorrer sempre di musica, e nel senso più scuolastico esaminarne il meccanismo anzichè l' effetto, preferendo la istrumentale alla vocale, il canto al senso drammatico, alla espressiva esecuzione, dalla compagn' azione. Non potendo giunger al possiedimento dell' arte sua, ch' espugnate certe difficoltà, ed acquistate certe laboriose dottrine, tanto se ne innamora, che pone l' importanza principale in quest' ingegni destinati a metter in azione il corpo, non nella vita del corpo medesimo. Spesso lo udirai parlar lungamente de' ferri, e de' lavorii di suo mestiere, come d' affari importantissimi. Se debbe lodare una musica, esamina tostamente il tempo, il modo maggiore e minore, la difficoltà delle note, eccetera, come un critico che indagasse in un poetico componimento se fia ode o canzon petrarchesca, se le rime sien doppie o triple, se ci abbia più versi sdruccioli che piani, invece di commuoversi alla pindarica sublimità od ai patetici sentimenti. Un rispettabile Maestro, autorevolmente menzionato in queste carte, addimandato se andasse a certo grande spettacolo, disse: conosco al cembalo tutte queste musiche: perchè dovrei andar a udirle in teatro malmenate? Sebbene l' arti dell' invenzione sien cosa più pregievole che quelle dell' esecuzione, son però tutte arti belle: ed è più gloria tener nelle seconde il primo seggio, che mediocremente posseder le prime. I musici, è vero, fanno man bassa nell' opere altrui, che voglionsi conservar integre, anche quando mediocri; ma di certi compositori ancor avrebbe molto a dir la critica, sebbene i lor colleghi se ne infingano. Pure concediamo che il Rossini, per [-191-] esempio non poss' aver rivali ne' cantori suoi; ma di musicografi men classici non fia così. Se in un' opera del tale o tal altro maestro, che cautamente non nomino, avessero cantato la Pasta e la Malibran, non dubiterei punto proferir che fui a teatro prima per l' esecuzione, poi pel componimento. Dice uno scrittore che il francese tragedo Talmà valev' assai più del Regolo di Luciano Arnault suo famoso campo di vittoria. E non sarà d' una musica ciocchè d' un dramma?

C. Ogni musica poi è sempre bella per que' filarmonici. Spogliate un palazzo di quadri per venderli all' incanto. Due o tre saranno comprati per gallerie, cento appena troveranno compratori a vil prezzo. Gli ultimi mille andranno forse a far fuoco. Al contrario, di cento spartiti cinque appena conterai, su' quali non facciano maraviglie i dilettanti, sebbene il popolo fugga da que' teatri. Onde avviene tale discrepanza fra due arti cotanto simili? Ma la musica è in certo modo di due sorta; una stassi colle bell' arti più sublimi; l' altra è una necessità della vita, una compagna delle nostre occupazioni, de' nostri solazzi. Questa ne' suoi effetti non è molto superiore alle carte da giuoco, al bigliardo, al ballo, al cavalcare, ai confetti che si van masticando, ed alla moderna pipa geniale.

CI. Non facciam parola di tale applicazione della musica, che da' benemeriti suoi ottiene un' indulgenza per lei poco fastosa, e parliam del primo aspetto in cui deesi considerare, nonsenza però trarne oggetto di più gravi, alquanto ambigue osservazioni.

CII. Parmi avere accennate le opposte opinioni, come sette, che dividono la musica. Chi freddamente consacrossi a' difficili studj, pone in essi la forza e la virtù dell' arte; chi o non volle, o non seppe farsi così dotto, grida, esser anticaglie, spinosità, che insteriliscono l' opere belle fondate sull' immaginativa. La questione si fa più intensa, e prende aspetto di nazionalità, quando mettesi dall' una delle parti la profonda scuola degli oltremontani, dall' altra la bella maniera degl' Italiani. Questi guardano con ischerno quelli, come coloro che fra l' ambagi di matematiche difficoltà inaridiscono la morbidezza della musical dipintura. Quelli disprezzano come fiore superficiale la nostra melodiosa maniera, priva di nervi e dilavata. E invero giudicando [-192-] ognuno giusta le proprie abitudini, parlano gli uni e gli altri ciocchè sentono veramente. Come un bellissimo corpo senz' ossa giacerebbe sul letto salma inane; come delicata donna, usa sentirsi stretto cinta, cade spossata, priva di quella specie di tormento cui abituossi: così scolorata e languida parer dee una musica in cui non sieno gli ordigni delle scientifiche combinazioni che ne formano l' occulta orditura; d' altra parte chi pascolossi maisempre di delizie melodiche trova inutile ciocchè può introdurre in esse l' aridità matematica. Nè sperar puossi così di leggieri che un ingegno sovrano si assida sublime sull' alpi, e di là signoreggi, e indifferenti per lui, congiunga sotto il suo dominio le due scuole diverse italica e oltremontana.

CIII. Più facile si è riconvenire que' critici, e perfino certi maestri, che con tanto danno della musica, la dividono in irreconciliabili opposte, ostinate questioni. Mentre gli uni non san vedere che ambizione o di studiate moltiplici antiche regole, o d' imitate oltremontane faragginose difficoltà; gli altri facendo di tutte un fascio, sorridendo, asseriscono esser la musica un' arte di convenzione, in cui, come furono fatte arbitrariamente leggi sopra leggi, altre si possono rifare, ovvero bastar per tutte seguire la face del così detto genio.

Convengo anch' io che la musica nostra forse poteva essere inventata diversamente; e che piantàti ne furono i fondamenti a secòli non addottrinati, e stabilite le prime regole per opera d' uomini che non erano ingegni sovrani di tempi coltissimi, le quali si venner poi a mano a mano rifacendo e commentando secondochè se ne riconobbe l' imperfezione. E in ogni modo la musica nostra non può aver l' originale semplicità, nè influenza sui costumi, nè legame col carattere nazionale, o colla poesia, perchè non nacque colla società, ma entro barbare scuole; non fu insomma nella sua origine, come appo i Greci, musica di fatto, ma di progetto. Una superba prevenzione, o l' incapacità di figurare un mondo musicale diverso da quello in cui nascemmo, può solo creder impossibile altra musica, e in qualche aspetto migliore. Quindi quel dispregiare la greca, perchè non possiam concepirne l' idea. Serva un esempio. Nelle Indie orientali, presso i Birmani, popoli barbari per noi, è coltivata la musica, ma tutt' altra dalla nostra. Una [-193-] bravissima banda del presidio inglese fece sentir a que' filarmonici le più belle suonate del Rossini, ma s' avvide che non ne provavano alcun dilettamento. Non così de' nostri, che ritrovarono in alcune sue parti gradevole quella musica birmana. Che se risorgessero i Greci a farne conoscere la loro, e udire la nostra, chi sa che non fossero molto più tardi a trarne in tanta complicazione un piacere, che noi ad accomodarci a quella lor espressiva semplicità!

Ma stando le cose come sono, chi sarà di così grande ingegno fornito, ovvero di cotant' audacia, da credersi capace di crear un' arte sull' arte che già tanto profonde ha le radici, da scoraggiare, da ottundere ogni acutezza d' invenzione?

Chi poi ricorda esser arte di convenzione, quindi suscettiva d' essenziali cambiamenti, dee mostrarne il meglio, s' egli è da tanto, non decomporre senza ricomporre in miglior forma. Diversamente colle sue pericolose sentenze persuaderà facilmente alla gioventù filarmonica un lassismo, che farà la ruina loro e della professione. Solamente sudando nelle difficili discipline, si può arrivare ad esser vero maestro, e allora soltanto sarà lecito di negligere quelle difficoltà che si conoscono profondamente, come di sotto le volte puossi levar le forme ed i centini quando la calce abbia fatta buona presa.

Senonchè, come nelle cose del mondo, particolarmente nella musica, non si serbano perlopiù i giusti confini, e l' amor proprio ci persuade far ciocchè più giova la nostra vanità. Quando alcuno abbia con molta fatica e tempo studiate cotanto ardue cose, non vorrà rimanersi di far ogni sua possa perchè il mondo se 'n accorga: simile a' Manderini di lettere chinesi, i quali canuti terminando appena d' imparar l' arduo e lungo lor alfabeto, perchè n' han già consumata la fatica, ne diventano allora i caldissimi sostenitori, contro i giovani, che tolta di mezzo questa lunga scala, giungerebber troppo presto a superarli in così vana scienza.

CIV. Avere studiato a fondo nelle viscere l' arte non s' intende mostrar lo studio nelle opere belle, che debbono celare ogni aridità scuolastica sotto le ridenti esteriori forme dell' imitata cara natura. Quindi contro gli uni e gli altri opposti contendenti partiti, dando ad ambo e torto [-194-] e ragione, dirò cosa novella: che il vero pregio dell' opera, il musicografo perfetto, o come altri dice filosofico, ed io chiamerò poetico, quegli fia, che dottissimo, la dottrina nasconda, inguisachè non veggasi senonse ne' virtuali effetti. Fia lode d' uno scultore aver imparata così l' anatomia, che nel ricavar dalla pietra la statua, vegga sotto le forme di questa cogli occhi dell' immaginativa scorrer il sangue, diramar i muscoli, annodarsi fin entro la carne l' ossa, e direi quasi nell' ossa le midolle. Ma so ancora, che a Michelangelo, non ch' altri, fu apposto a difetto l' aver renduta troppo patente nelle opere sue l' azione delle parti, e de' muovimenti, dirò così, sottocutanei, quasi per ambizione di palesare la tanto studiata notomica scienza.

E non temesi che quelle difficili combinazioni scientifiche di contrappunto, quelle antidrammatiche lotte di voci contro voci, que' concertoni, che non possono in alcun modo aver che fare col drammatico dialogo, sieno simili a quelle statue, che per troppo laboriosa anatomia sembrano fasci di corda, anzichè viva carne? E questo trasportar dalla cantoria nel dramma la meramente musicale suppellettile gli è come introdur nell' amabile scoltura le forme orrende de' scarnati scheletri del così detto anatomico teatro.

Rimangasi dunque il campo di far uso del contrappunto, e de' scientifici concerti che un maestro dee profondamente conoscere, alle musiche della cantoria; in teatro se ne vaglia ove gli venga qualche volta dal poeta data cauta occasione; del restante indirettamente gli giovi, per dar vera forza alla sua musica, nè fia men difficil' opera celar l' arte coll' arte. Giova la scienza nelle stesse melodie; giova perchè un intelligente ravvisi l' occulto sapere del maestro ancora nelle cose piane; giova ne' generi musicali, e nelle parti che la possono ragionevolmente ammettere; giova finalmente a costituire il perfetto maestro, che non può esser tale senz' avere usati, anzi forzati i penetrali della facoltà ch' egli veramente possiede. E qui ammutoliscano una volta coloro, i quali condannano in certe opere il mancar di scientifici pezzi, e s' infingono non capire che la ragion drammatica primachè l' incapacità del compositore li proscrive. Ma quale incapacità! Un Maestro di cappella, volendo commendare certo melodramma, diceva: Non l' apprezzeranno i comunali uditori, perchè scarso di melodie [-195-] che piacciono ai dilettanti, ma hacci dovizia di solenni armonie, che son la parte più ammirata dai professori. E da quando diventò più difficile l' armonia che la melodia? Ed appunto un maestro ha da giudicare così?

Ben diverse autorità sono le seguenti. "Ella è opinione de' migliori nostri maestri che il contrappunto possa ben produrre una certa temperanza, che alla musica di chiesa dà tanto decoro e solennità, ma che a risvegliare nell' animo nostro le passioni non sia atto per niente". Algarotti Saggio sull' opera in musica. E la ragion che adduce si è la mescolanza di parti acute e gravi contemporaneamente. Il chè però trattandosi del vocale è in natura, perchè una ragione maggiore della musicale fa parlare ad un tempo persone di contrarie voci. Ma per lo contrario non la musica, ma la ragion drammatica lo esclude dal dramma, non potendo più persone indovinar le intenzioni gli uni degli altri per parlare ad un tempo estemporaneamente. Non è poi un critico, ma propriamente un musicografo che dice antidrammatico il contrappunto. "Il celebre maestro (Sarti) che ha composto la musica di questo dramma, farà toccar con mano l' impossibilità di aggiungere i Greci, finchè dall' armonia simultanea sia corrotta l' energica melodia, che signoreggiava gli animi colla sua purezza e semplicità: un libro egli ha composto su l' arte sua, nel quale con matematico rigor di prove eccetera. Rezzonico, nell' Alessandro e Timoteo". E l' Arteaga riporta pure il seguente parere dell' abate d' Arnault: "Queste ricchezze che stan così bene che nulla più alla musica istrumentale, non convengono per niente alla vocale. Distinguerò i luoghi, eccetera, da quelli che non servono ad altro che a procacciar fama di scienziato al compositore.... I drammi lirici di tutti i drammi sono certamente i più imperfetti, non essendo per lo più che una serie d' episodj (musicali) staccati fra loro senza veruna verosimiglianza....." Ed il Santucci soggiunge: "La melodia consiste nel canto. Un bel canto è la Venere della musica, ma altresì è la più difficile cosa ad ottenersi. Non vi vuole che studio e fatica per trovar degli accordi, ma inventare una cantilena nuova è impresa del genio".

Tutto è difficile a chi nacque a nulla; ma pure, astrattamente pensando, si può concepire in qualche modo, [-196-] che con laborioso studio appunto da' sussidj delle matematiche arrivisi a possedere le difficoltà del contrappunto, nelle diramate figurate forme onde vien elaborato per opera de' pazienti oltremontani. Ma uno scienziato maestro dicevami che la grande creazione nella musica, e l' intrinseca potenza non è già in queste secondarie armoniche combinazioni sovrappostele (anche senza parlar qui della vana frondosità dell' istrumentazione), ma nel gran piano melodico-armonico, che forma la vera poesia, la vera scienza della musica; restando cosa superficial e facile il restante; e che in tal guisa er' arte antica e perfetta fino ne' vetusti classici nostri. E intendo anch' io che un tempio di romana o palladiana architettura è opera per sestessa completa, senzachè con nuov' arte pittoresca lo venga tutto a cuoprire di addobbi festivi l' industria del felsineo apparatore.

Ma diranno musicografi: dunque della sublime porzione di nostra scienza, e delle sue virtù non avrem mai spettatore il bel mondo elegante, che usa i teatri piucchè altro luogo, ove non portiam a questi la musica delle chiese, o quella poco lusinghiera delle sale! Quando queste ragioni vi pajan buone, farete come que' pittori, che al dir d' Orazio, pongono delfini ne' boschi, e in mezzo al mare un bel cipresso: pianterete giardini sull' acque dell' oceano, e fonderete basi alle colonne di marmoreo tempio sovra un piano di nubi.

Così adoperano que' maestri, ossia i maestri della scuola moderna, che condotti dalla smania di far ogni cosa in ogni luogo, han confuse nonsolo in una le diverse parti della musica, ma gli opposti generi drammatici, cosicchè all' opera buffa resti solamente il nome vano e l' apparenza. Alle quali secondarie sorta della musica, e qualità subalterne di drammi, rest' appunto riservato il seguente ultimo libro.

FINE DEL LIBRO SECONDO.

[-197-] ARGOMENTO

DEL LIBRO TERZO

I. Dell' opera buffa. II. Inabile a giungere il fine della commedia. III. È un genere secondario alla melotragedia. IV. Deesi chiamare buffa non comica. V. In chè consista il suo carattere? VI. Negligenza de' poeti per questo genere drammatico. VII. Prima epoca dell' opera buffa. VIII. Seconda epoca che chiamasi volgarmente antica. IX. Nella musica moderna il carattere buffo si perde nel serio. X. Tentativi per richiamarlo a vita. XI. Quali mezzi unicamente potrebbero ottenere l' intento. XII. Veri temi agli argomenti del dramma buffo. XIII. Quale stile di musica gli s' addica. XIV. Un più libero patto tacito, di quellochè nel dramma serio. XV. Dell' introduzione. XVI. Recitativo e canto. XVII. Duetti. XVIII. Canti concertati; finali; cori; orchestra. XIX. Attori che particolarmente si segnalarono nel buffo. XX. Farse. XXI. L' opera urbana, genere da rigettarsi. [-198-] XXII. Opera eroicomica. XXIII. Del Vaudeville degli stranieri. XXIV. Dell' Oratorio; XXV. e d' un associamento della musica coll' eloquenza. XXVI. Della musica epica, ovvero del poema melodrammatico. XXVII. Della musica dell' odeone o accademica, XXVIII. e della musica lirica. Canzonetta. Cantata. XXIX. La. musica lirica povera di metri. XXX. Pure non li riceve ma prestali alla melodrammatica. XXXI. Alcune maniere di poetiche canzoni atte alla musica. XXXII. Dell' inno. Del salmo. Del cantico. XXXIII. Della musica istrumentale. XXXIV. Considerata in sestessa, o relativa. XXXV. Come se ne poss' abusare nel primo caso. XXXVI. Della musica sacra. XXXVII. Carattere della musica ecclesiastica. XXXVIII. Difficoltà di comporre sulla prosa nella musica sacra. XXXIX. Sua istrumentazione. XL. Musica militare. La sua espressione dee venir dalla forza istrumentale, non farsi parodia di musiche vocali. XLI. La musica del teatro pedestre. Cori delle tragedie. XLII. Sinfonie, tramezzi strumentali. XLIII. I tramezzi cantati e pantomimici disusati oggidì. XLIV. Della corepeja. Suo stato relativamente all' altre arti drammatiche. XLV. Esame sulla ragionevolezza, utilità, beltà sua. Della ragionevolezza. XLVI. Della utilità. XLVII. Della beltà. XLVIII. Fusione di queste tre qualità nella corepeja. XLIX. Esser un genere riservato a particolari casi L. Carattere, titolo di quest' arte. LI. Difficoltà del rappresentar muto. LII. Come si possa giustificarne lo sceglimento. LIII. Con qual mente, con quali cautele porlo in opera. LIV. Due parti della muta esposizione, e prima: espressione delle passioni. LV. Quando possa farsi più opportuna ed efficace della parola. LVI. Seconda: indicazione delle cose. LVII. Il Viganò inventore del coredramma e della pantomima figurata. LVIII. Pittoresco muovimento de' personaggi accessorj, ossia dei coristi. LIX. Acquistano importanza d' attori principali. LX. D' onde il corepeo debb' attingere i modelli di quest' arte. LXI. È pittoresca e in un musicale. LXII. In qual conto abbiasi a tenere l' opposto genere del semplice pantomimodramma. LXIII. Azione sorprendente del tema coregrafico. LXIV. Colpi di scena. LXV. Condotta semplice, intelligibile, di fatto; LXVI. Temi storici; mitologici; misti. LXVII. La coretragedia non dee abbisognare della protasi. LXVIII. Composizione del coredramma dimostrata sopra eletto esemplare. LXIX. Distribuzione dello sceneggiamento. LXX. Quale fia l' associazione, quale la relazione del coredramma cogli altri generi drammatici. LXXI. Della musica che accompagna il dramma corepeo. LXXII. Dee avere i suoi spartiti come il melodramma. LXXIII. Della pantomima e dei pantomimi. LXXIV. Di alcuni celebri pantomimi. LXXV. Delle danze che debbono essere intrinseche alla corepeja. LXXVI. Della corepeja comica. LXXVII. Quali ne sieno le forze, quali i limiti. LXXVIII. Dee aver un carattere a sè. LXXIX. Sua musica. LXXX. Sua pittoresca coregrafia. LXXXI. Esempj di coredrammatica buffa. LXXXII. Della danza in sestessa. LXXXIII. Come debbasi estimar l' arte della danza. LXXXIV. Digressione sul vestire dei danzatori. LXXXV. La danza non può soverchiare l' arti drammatiche fuori del caso di sommo decadimento in queste. LXXXVI. Stato de' teatri musicali al presente. LXXXVII. Delle paghe. LXXXVIII. Delle fastose decorazioni. LXXXIX. Pensamenti per promuovere l' educazione drammatica. XC. Come con questo mezzo si avrebbero economici, buoni, quotidiani spettacoli.

[-199-] LIBRO TERZO

I. Maravigliaron forse parecchi Lettori ch' io parlassi finquì dell' opera seria solamente, quasichè nel teatro musicale come nel drammatico la tragedia e la commedia non abbian il lor campo a parte, anzi questa di quella più ampio, più vario, e più comunemente utile. Sembra però che altre testimonianze indirettamente facciano autorità al mio divisamento, perciocchè in Italia non surse così solenne, nè di pari passo cominciò andar l' opera buffa, e nella Francia pur entrò più tarda, e come inferiore nuovità. L' Arteaga ed altri ne trattan dopo l' opera eroica, e brevemente, Io poi, come finquì ho per antonomasia nominata la sola melotragedia, così tengo fermo esser l' opera buffa nonsolo cadetta sorella, ma cosa secondaria relativamente a quella.

II. E la ragion si è, ch' io non posso impegnarmi, come feci nel primo caso, a dimostrarne la ragionevolezza in arte. Fondai la giustificazione del dialogar cantando sulla supposizione di tempi e costumi eroici e remoti, e sull' invalsa usanza del verseggiare. Ma la commedia non aggirandosi generalmente su questo metodo, e facendo suo pregio dipingerne avanti, noi stessi ed il nostro convivere, come si può mai nè illudere, nè allettarne dipingendo con siffatti colori? Veder uomini con abitino, con ricamato giustacuore, con livrea, con giubba de' nostrali contadini, trattenersi quasi con noi cantando! Proscritta e detestata è perciò la commedia in versi, e sciolti maggiormente, giacchè nei martelliani stessi la rima esime almeno dall' affettata frase poetica.

III. Dunque che vorres' tu inferirne? mi dirà qualcheduno: forse doversi bandir cinicamente l' opera buffa? Non dico ciò, e vano sarebbe, anche colla ragione alla mano, tentar di privare in parole il Mondo d' un piacere, del qual in [-200-] fatto non è già per privarsi, specialmente poi quando l' arte non sa insegnargli modo di ridurlo a più savj nonmeno saporiti dilettamenti. Dunque cos' accadrà del melodramma comico? Non poter concedere che sia conforme alle regole dell' arti belle squisitamente, perchè di tre prerogative richiedute due gli mancano, cioè ragionevolezza d' imitazione, ed utilità d' arte, non è lo stesso che dire, aversi a togliere questa solazzevole ricreazione, ove la gajezza della musica colla capricciosetta Talia si dan la mano, per farne passar qualche ora in un divertimento tutto schietto, cui non ha parte direttamente nemmen quella facile istruzione, o quella malinconia soave che sono i caratteri della commedia principale. Ad un patto solamente puossi ricever il canto nell' opera buffa, che si supponga non esser quella una finzion d' arte, ma una finzion di solazzo, e quasi drammatica mascherata, in cui alcuni prendon' al cospetto dell' uditorio imitative, in un bizzarre forme e larve, senza pretendere d' occultar l' artificio, senon in quanto altri s' infinga di credere, per secondar il divertimento.

IV. Sembra che applaudisse al mio giudicio chi intitolò queste burlette opere buffe, che in Francia men bene furono sollevate al titolo d' opera comica. Buffo è termine propriamente suo e parziale, e cui non piacesse ne ha un altro bellissimo, bernesco cioè, perchè tal è veramente questo genere di dramma; e chi s' adoperasse innalzarlo all' importanza della vera commedia affannerebbesi per far men bene. Primieramente perchè la pianissima e diffusa imitazione del conviver e degl' avvenimenti famigliari ha un nonsocchè di prolisso e prosaico, che mal s' addice alle capricciose melodie d' una musica scherzevole; secondariamente perchè quand' anche si riescisse in succinto a tesser una vera favola comica musicale, l' assurdità del canto farebbela parer moltopiù strana che se trattata fosse con bernesca bizzarria.

V. La poesia epica e la lirica mutansi qualche volta in bernesche. La satira ch' è la commedia dell' epica e della lirica, e la commedia stessa, benchè scherzino, non sono bernesche. Eroicomico è intitolato il poema del Tassoni, ma è anzi tutto bernesco, e lo direi piuttosto eroicobernesco. Fralle commedie è l' ilarodia, ma perlopiù non priva di vera imitazione, sebbene senza istruzione o passioni. Se alcuna [-201-] ilarodia hacci veramente d' una invenzione libera, e argutamente capricciosa, questo genere dee esser quello dell' opera buffa. Le curiose fantasie, i bizzarri sali del Berni, e del milanese Porta riscalderan l' estro del poeta, che saprà porre così nell' invenzion de' fatti quello spirito cui ne' concetti effusero i due nominati Autori. Nè già voglio dir con ciò, che balzane abbiano ad esser le favole destinate al canto, nè il loro stile quello dalle maschere nell' antica commedia estemporanea. Se alcune saranno dettate con piacevole ipotesi e convenzione d' esagerazion fantastica, regolata però da criterio, e maisempre da buon gusto, in altre poi chi vorrà violentar l' imitazione della vera natura, quando spontanea ti rappresenti un fatto semplice, di cui la piacevolezza gli sia intrinseca naturalmente? Ecchè del metodo tedesco, di prendere i temi dalle più assurde fantastiche fole dell' antica credulità! Sono immaginosi pella musica: ma il buon senno!

VI. E invero troppo abusarono tutti gl' autori in questo genere, del quale niun altro ha la poesia più negletto e più strapazzato! Ignoranti generalmente lo coltivarono; e se alcuni dotti, sembrarono credere che trattar si dovesse ignorantemente. Non un Metastasio, non uno Zeno buffo: e fu ben destinazione, giacchè il Goldoni, che, come della commedia, esser doveva principe dell' opera buffa, ne' suoi negletti melodrammi se qualche cosa di buono ha in principio, li volge alfine a strano scioglimento, quasi fosser commedie di burattini. Lodasi il Casti e il suo Re Teodoro; e per questo e pella sua Grotta di Trofonio, stampata nella collezione de' classici italiani, malamente rifusa da penna infedele, lo si dice il principale melodrammatico italiano, ignorandosi frattanto alcuni altri suoi buoni componimenti, e sono: Catilina, Kublai, Orlando furioso, Alboino, Bertoldo, L' Amatista, I Dormienti, Il magnetismo, La Capricciosa, Così fan tutte, Prima la musica, poi le parole. In generale tutti gli autori di libretti giuocosi, meno il Romani che sostenne poetico e lirico lo stile, scrissero come le donnicciuole lor lettere, nè occupandosi punto delle frasi, de' versi, delle rime, accozzarono scipidezze plebee per sali, lasciarono andare la sintassi a sua posta, e fecer uso di oziosi ripieni, accattati da bocche plebee. Ma vuolsi notar prima l' epoche diverse del breve corso delle opere buffe.

[-202-] VII. Il melodramma buffo, a tempi nonmolto remoti, senza indagar quello che fu dell' arte ancor bambina, suoleva perloppiù consister in un' azione giuocosa, sostenuta da quasi soli sei, pressochè del paro principali locutori: tre donne, una seria, l' altra comica, la terza media fra queste, corrispondenti ai tre personaggi maschili, mezzo carattere, buffo comico, buffo cantante. Con questo metodo la music' avrebbe campo di mettere in opera col soprano il tenore, col contralto il basso, e nella coppia media il baritono col mezzosoprano. Ma crescendo le ricchezze della facoltà, cominciossi a ridurre le donne principali a due, quindi la vanità del sesso non sofferse rivalità, nè la borsa dell' impresario il dispendio di più prime donne, che troppo maggiori paghe richiedevano.

VIII. Quella che riconosciamo com' oper' antica, rimanendo la precedente per noi antichissima, traeva le proprie veneri, care a' spettatori suoi, da una burletta, che spesso sentiva un po' del vulgare, e dal canto piano, parlante, specialmente de' bassi, che permetteva loro di recitar e rappresentare un carattere comico e faceto. Fragli stessi personaggi alquanto più serj, cioè la prima donna ed il tenore, questo canto per l' una era spessevolte, come la sua parte in azione, semplice, od anche comico, e per l' altro leggero, e tutto straniero al coturno, chiamandosi perciò costui non tenore ma mezzocarattere. Il totale della musica, servendo fedelmente al genere dell' azione, allo stile delle cose, aveva metodo dirò così prosaico nei recitativi, e semplice nelle arie, senza intempestiva pompa di concertamenti, o con una bravura a sè, che non poteva confondersi coll' opera seria.

IX. Come e quando quella cominciò a farsi parodia di questa? Non ho tempo, e non giova esaminar i gradi di tale impastamento. Mi ricordo che fino dal 1808, allorchè vidi la prima volta col gran teatro della Scala una grande opera buffa, mi fu maraviglia ritrovar nel Rivale di sestesso di Weigl l' apparamento de' cori: quindi, per secondare questa rumorosa moltiplicità delle voci, il rumore, la moltiplicità della istrumentazione. Fu questa certamente la causa prima della mescolanza di due coloriti diversi, poscia dell' ecclissamento di quello ch' era più debole: secondo grado dell' imbastardamento, opera del rossinianismo; cui succedette [-203-] l' ultimo passo, l' opera seria-buffa, rimanendo soltanto nelle parole i titolo ed alcuni sentimenti poetici apparentemente buffi. A tale arrivò l' imperizia degli Ultrorossinianisti, non capaci di dare alla musica concertatissima un color comico, senza servirsi badialmente de' concerti serj, e facendo adagi di Miserere, strette in suono di guerra e di procella, e cabalette quali adoperano essi ancora nel melodramma eroico, sebbene per altra ragione di questo maggiormente improprie. Ajutavano i poeti, o per altrettanta imperizia, o per condiscendenza, lavorando egualmente i libretti colle stessissime combinazioni di laboriosi concerti. Riflette saviamente uno Scrittore, benchè amicissimo del Rossini, che la vera opera buffa italiana finì col Ser Marcantonio nel 1810, epoca in cui cominciò apparir quel Luminare, del quale non fu certamente benefico influsso ecclissarla. Il Pesarese mascherò quelle sembianze, quali di semplice forosetta, con una larva d' artefatta musicale avvenenza; ma da par suo la maschera impresse almeno dell' idea piacevole del volto che gli piacque velare, non cuoprire. Musica di comico sapor è quella della Cenerentola e del Barbiere ne' stessi suoi elaboratissimi concerti: per non parlare dell' Italiana in Algeri, ove la copia musicale, propria del ricco subbietto, è comicamente imitativa, bizzarramente buffa. Non così La Gazza ladra, come dissi altrove, delirio poetico nel semiserio libretto, mal corrispondente perfino alla tenera commedia da cui è ricavato: colpa principalmente del quale ne venne un troppo lusinghiero musical componimento, che chiamai l' opera buffa delle serie, l' opera seria delle buffe. Primo esempio a' pedissequi imitatori, di spegnere l' ultima favilla dell' antico stile, per incapacità di emulare la doviziosa musica buffa del loro gran Maestro! Puerilità in sembiante di gravità si è quella del secol nostro, mercè la quale l' opera buffa va vestita colle spoglie medesime della seria. Eppur nel teatro drammatico la commedia continua esser commedia, nè alcuno sen vergogna. La musica, per una fastosa miseria, e con nota d' ignoranza, confuse gli stili e le forme, ned hacci più che un' opera sola.

X. Recentemente parv' è vero, che i Filarmonici cessassero vergognarsi, a nome del popolo, dell' opera buffa, e fu forse perchè anche i commedianti lasciarono di pronunciare in [-204-] nome del pubblico la proscrizione della vera commedia. Bon ricondusse sulle scene il Goldoni e piacque; il Bellini fece vedere una musica drammatica, fosse l' antica o no, e piacque. Ma nè questo coraggio, nè questi presidj ebbero i Melodrammatici buffi. Si contentarono e si contentano delle apparenze. Sul più bello della commedia eccoti un gran concertone da Zelmira e da Crociato; le cavatine sono sortite da eroi; il rondò finale dee essere rossiniano da opera seria; l' orchestra piena con accordatura in rauco suono di tartarea tromba; recitativi concertati; canti sfogati; ed i buffi, voler o non volere, debbono andar cogli altri di questo passo; fino l' argomento, ancorchè cavato da qualche vera commedia francese o italiana, si respinge ai tempi del medio evo, perchè gli abiti debbono essere di velluto lustrinato, e perchè il popolo, dicesi, vuol così, non per ignoranza che sia in lui, ma per quella che su lui riflettono i datori di tali spettacoli. De' cori poi non si parla. Senza cori è impossibile far opere; ed è più facile che si sostenga un' opera di soli coristi, che colla Malibran, Rubini, Lablache e Tamburini, ma priva di cori.

Fra tanti recenti di nome buffi melodrammi purtroppo solo l' Elisire d' amore con musica del Donizetti è abbastanza buffo in fatto ancora, sicchè possa collocarsi un po' più presso gli antichi. La favola è veramente adattata al genere, ben maneggiata dal Romani. Fino gl' abiti, forse per unico caso, son di commedia; ed i cori ci stanno per uso, e quasi a dimostrare che, come si possono toglier via, si potevan omettere; tuttavolta di carattere piacevole, non imbarazzano i canti de' principali personaggi, e le vere arie di facile popolar melodia e di veramente comici concetti. Che se in essi non è buffa esagerazione, ascrivasi a maggior merito: con seguire il bramato effetto con mezzi al bisogno ancora soperchi. Dicesi che il Donizetti poco tempo, e men applicazione spendesse in questo suo lavorio, quindi per certa superficialità non pesar molt' oro; ma se perciò è il solo che contengasi, eziandio con difetto, nella debita parsimonia, colpa felice! Che se piace tuttavia, cosa sarebbe poi di quell' opera, ove una savia economia mostrasse la mente dell' autore nell' attenersi volontariamente alla scelta de' modesti ornamenti che al comicissimo carattere s' appartengono!

Non si può sperare agevolmente che risorga l' antico buffo [-205-] stile italiano, come permezzo del Bellini rinacque il canto semplice drammatico, perchè diverse son le circostanze. Il Bellini, scrivendo nel genere de' grandi teatri, trovò ivi attori, che s' avvidero con quel metodo più drammatico potersi render eziandio maggiori. Mancò per disgrazia un Bellini comico, e ben n' avea d' uopo un' opera oggidì dai grandi teatri rimandata ai piccoli, indi da questi rifiutata, per voler essi ancora la grand' opera seria, a impiccolirsi costretta per servire a così anguste povere scene.

XI. Io non vedrei altro mezzo per richiamarla in vita: che un Principe, amante dell' antica semplicità, facesse annualmente comporre pel suo teatro melodrammi di stile intrinsecamente antico, cioè veramente buffo. Questi componimenti, nati indipendentemente dalle dicerie, che altrimenti non si possa sostener l' interesse delle imprese, andrebbero poscia sui venali teatri, e vedrebbesi allora che le opere de' repertorj, le opere applaudite non sono quelle della musica concertata, e dei cori, ma quelle maisempre che i buoni autori sapranno dar in luce. Ed è poi dovere di quegli autori far sì che coi sani esemplari sano conservisi il gusto del popolo, che non sarà restio a corrispondere. Non vidi mai, nemmeno la plebe, in gallerie fermarsi avanti le intagliate cornici, ma le dipinte tele, quelle specialmente ove la natura è più evidentemente rappresentata, e vivamente spirante or compassione e terrore, or dolcezza e festività. Credete, o saccenti, che il popolo può ben essere illuso da voi, ma giudicando senza contraria preparazione, colla sola scorta della natura forse più rade volte di voi s' inganna.

XII. I cori sono il vero esterminio dell' opera buffa. Questi, come la cacciarono a fondo, vieteranno maisempre, possa rialzarsi. Piacemi quivi cominciar la breve serie degli ammaestramenti. L' argomento del melodramma non sia ricavato, come accadde oggidì, da solenne commedia: l' autore traggalo invece dalla sua mente; perchè non sarà valente melodrammatico colui che abbia d' uopo verseggiar o tradurre le altrui favole, ch' essendo fatte pel teatro pedestre, non avranno il particolar carattere buffo. Guai a chi non lo intende, nè sa in esso creare! Fia non iscultore, ma verniciatore de' simulacri per altri scolpiti. Quali dunque saranno i suoi temi? Quali! Chiedete al poeta [-206-] comico se distempera in prosa libretti d' opere buffe. E dovrà il buffo poeta metter in torchio le commedie prosaiche? Foss' anche uno l' argomento atto a' due drammi di questi generi diversi, vorrebbesi trattato però in diversissima maniera. Ma il prendere avanti un' altrui commedia, già creata con altre forme e fini, come mostra povertà d' ingegno nell' autore, produrrà un' esecuzione stentata e bastarda.

In generale gli argomenti così detti d' intrigo, e che offeriscono largo campo di piacevolezza, son proprj dell' opera buffa, come vedesi nel Barbiere di Siviglia, sebben sia omai tempo di bandir dalle scene i troppo logori temi di servitori che aggiran i vecchi padroni a pro de' giovani amanti: con falsa supposizione che gente idiota abbia un punto di più in favore, per gabbare chi per educazione dovrebbe saperne maggiormente. Ser Marcantonio è l' esempio contrario. Un vecchio, deliberatosi di prender moglie, aggirato e uccellato in mille guise da gente accorta, e quasi aggirando sestesso, è un comicissimo carattere di protagonista, da cui nasce la favola, che tutta avvolgesi in sestessa, crescendo fino all' ultimo scioglimento. D' un' altra favola poi, la quale abbia in sè, quasi non ricercata, la comica moralità, esempio è la Cenerentola, tolta da una trita e plateal novella, piena però di piacevolezza e castigatezza. È felice ancora per le comiche situazioni che van di paro colle armoniche combinazioni. Nè intendo escludere i teneri subbietti ancora, nè passioni delicate intrecciate al tema buffo; ma siano d' uno stile leggero, totalmente opposto alla gravità della commedia pedestre, nonchè all' affettazione del così detto dramma di sentimento.

Il buon sentir d' un autore dee camminar sul orlo dello stravagante, nè mai caderci. Poeti giuocosi, ma poeti veri, siano quelli che si applichino a questo genere quasi peranco intentato. Dell' antica opera era ornamento e salsa il canto de' buffi, così detto parlante, nel quale, salva l' intonazione, qualunque genere di voce bastava, ed anzi il superfluo nuoceva, a far giuocare la lepidezza de' buffoneschi sali, e della comica espressione, in cui stavasi riposta la maggior importanza di questi semicantanti personaggi. Uno Scrittore intitola il buffo: certa specie di maschera melodrammatica, invenzion del giocondo ingegno italiano. Egli [-207-] è insomma un Berni parlante, che favella bizzarri concetti. Oggidì de' due buffi, un vuolsi cantante, cioè che diletti con tutte le cupe modulazioni di cui è suscettiva la voce di basso; e l' altro, il quale gli dee cantar del paro, e intervenir ne' complicatissimi pezzi concertati, trovasi imbrigliato nell' arte sua, fra difficoltà musicali non combinabili colla propria voce e coll' azione. Il primo poi sostien sovente col nome di buffo caratteri di tiranno, di padre feroce, d' assassino, di pazzo furioso, eccetera; il secondo rimane come un sol filo di vago colore lavorato entr' oscuro drappo: chè tal è il genere dell' opera, in tutto il restante seria, romanzesca, sentimentale. Così non sarebbe, ove da burlette appositamente inventate, non dalle men opportune commedie del teatro drammatico fosse ricavata la favola. Nè credasi però che il buffo abbia perduto diritto di favellar balzano. Ne' comici libretti moderni odesi piucchè mai infilzar grossolane assurde sguajataggini, che poi repugnanti al genere d' un' opera comica, o semiseria, risultano spropositi di crassa ignoranza.

Sembrerà ch' io voglia far materia dell' opera bernesca puerilità non degna del nostro secolo. Ma di biasimo invece noto coloro che questa buffa esagerazione inestano nel dramma comico, e nel semiserio, e ci aggiungono incongruenze, procedenti da imperfezion d' arte, ben altra cosa che una buffa esagerazione conceduta dalla convenzione d' un genere superficiale e sollazzevole. In certa opera comica, e d' argomento istorico in parte, magnifica per molta bella poesia, due villani dal vincastro e dalla marra diventan ad un tratto attori, anzi estemporanei autori tragici e comici, improvisando scene con quella prontezza che avrebbero il tragico Sgricci, e la comica Taddei.

XIII. Se fatica inutile sarebbe cercar perfetta illusione in una commedia dove i mezzi musicali per sestessi la tradiscono, puossi dunque nella music' ancora lasciar libero il campo al maestro, di profondere gli antidrammatici tesori, da' quali tanto inculcai doversi astener la melotragedia. Così però non pensa uno scrittore: il Compilator del Censore universale dei Teatri, che in un articolo di esso giornale, 1831 pagina 149, deplora il vero canto parlante dell' antica opera buffa oggidì perduto, e soffocato sotto le ricercatissime forme musicali comuni coll' opera seria. Trascriverei, [-208-] se non fosse assai lungo, sì bello squarcio, eziandio perchè quanto ivi dicesi in pro d' un semplice canto e piano, convenevole allo scenico dialogare, milita in pro del melodramma eroico principalmente, sebbene non sia che per volontà del Censore applicabile alla sola opera buffa: strana cosa che la melotragedia ancora non debba, colle debite proporzioni, esser declamante, ma la sua musica sia quella delle accademie e delle cantorie!

XIV. Io, presa la questione astrattamente, non avrei per lo contrario difficoltà che l' opera buffa dilettasse in ogni maniera nella music' ancora. Senochè per divertirsi colla piacevolezza di bernesche facezie, caratteri, e avvenimenti vuolsi prediliger una musica intelligibil' e semplice, qual si addice allo stile dal genere bernesco.

XV. Se l' introduzione è antidrammatica nell' opera tragica, è affettazione in una favola comica, e fastosità importuna riesce nella musica buffa. La Sonnambula comincia da un' aria di personaggio secondario, nè però la Sonnambula fu nella prima sera per questo principio fischiata; cheanzi col Barbiere è l' opera d' ogni repertorio. Il qual Barbiere veramente non ha introduzione, ma un' aria di serenata con cori; nè la Clotilde fra l' altra ha introduzione, nè l' Elisir d' amore, abbenchè aprasi la scena con ricchezza di melodie. Il perchè vedesi essere l' ultrorossinianismo quello che goffamente abbisogna d' esordir con un pezzo concertato nelle forme, come l' opera seria. So che il Goldoni ne' Bagni d' Abano fa uscir fuori ad uno ad uno gl' interlocutori con relative misure di canto: e potrebbe questo addursi per un esempio antico delle introduzioni moderne serie o buffe: ma ciocchè si biasima è fare di simili scherzi una regola, introducendo metodo in cose delle quali è natura e pregio una giuocosa semplicità.

XVI. L' azione dee svolgersi con recitativi parlanti, e canti recitativi, cioè con quel canto che lasci ascoltar le parole, e in semplice melodia i concetti. Quale sarà primieramente il dovere del poeta nel tessere i cantabili al musicografo? Forse adoperandosi meno, farà opera più sana. Non accade che l' arie sieno dissimulate come nell' opera seria, ed appianatane la granita rotondità, sfumando il passaggio del recitativo al canto, e fondendo questo con quello. Pelle ragioni suddette, inutile zelo sarebbe privarne [-209-] del piacere di farci assaporare arie propriamente, o canti, tali liricamente. E l' uscir cantando un' arietta (non una pomposa cavatina per ambizione d' affettar bravura di mestiere) ed il risolvere la scena con arie, ancorchè non preparatone il canto, sebbene ammaestrai diversamente parlando della melotragedia, tutto sia pur conceduto. Ma quest' arie, od esprimano sentimenti giuocosi nella parte comica, o teneri nella parte ingenua, siano sempre intelligibili, e del genere di musica buffa, brillassero anche tutte bravura: chè la bravura, ed il vocalizzare non è disdetto all' opera buffa, non potendo accrescere inverosimiglianza in un genere che mal puossi per sestesso fondar sulla imitazione del vero. I rondò altressì, come le arie, non abbiano lo stile di que' grandi componimenti arcimusicali, che se in vero non sono tragici per difetto di scenica verità, non sono nemmen buffi per eccesso di fastosità. Se una cantatrice si addatta recitare nel Ser Marcantonio, non si accomoderà però a dire quel bel comico rondò, ma troncando sul meglio la scena, si risparmierà, per aggiungere, finita l' opera, l' aria finale della Chiara, del Furioso, e fors' anche di qualche dramma serio. Non così volle il Rossini, che alla Cenerentola, od alla Matilde Chabran lavorò arie finali di comico sapor musicale, e il Barbiere poi non chiuse con rondò alcuno.

XVII. Ne' duetti viva piucchè mai la piacevolezza e la semplicità. Se della donna col tenore, suoni la lor musica i concetti di Nice, di Fileno, con quelli di Oreste, d' Ermione. I duetti poi di donna con buffo, e di due buffi sono propriamente la ricreazione dello spettatore. Ne ha eziandio l' opera moderna; ma ti sorridono da un occhio, dall' altro ti guardan trucemente. Tale si è il dialogo d' un buffone con uno sgherro. Oh che tiepida scena quel duetto nell' Elisa a Claudio, del Marchese coll' antipatico e brusco Conte!

XVIII. La scene concertate non sono del carattere buffo, ma non ne van escluse però. Bensì è fuor di proposito il trituramento delle note, l' ostentata scienza degli accordamenti, gli stentati adagi, e soprattutto l' istrumentazione a cuoprir le parole, che dovrebbonsi intendere tutte quante. Lo squarcio Quest' è un nodo avviluppato è un esemplare di musicale virtù, e d' espressione in istile comico. Richiede la sua musica quelle parole propriamente, e l' opera [-210-] buffa. Viva il vero: sembra impossibile come nell' antico Barbiere di Siviglia, preparata la situazione di tanto musicale contrastamento, fosse poi strozzata, e licenziati ad uno ad uno gl' interlocutori. È più strano ciò, che lasciar luogo a quanto nel novello Barbiere nasce spontaneamente. Pur il Poeta è lo stesso; il quale superstite, potè, se non erro, accomodar pel Rossini ciocchè in tempo antico aveva composto pel Paesiello.

Il terminar gli atti, e l' introdur cantabili a pieno di voci non è cosa moderna. Moderna meschinità sono bensì a quelle voci le aggiunte dei cori. I quali non essendo per sestessi che un' eco secondaria delle voci principali, costituiscono appunto colla lor esuberanza e strascico la differenza fra il fasto regale della melica Melpomene, e la modestia della canora Talia. Non ne' concertamenti sta l' opera buffa, sebbene possa eziandio di questi adornarsi, senza perder però il suo sembiante, ma nella sua vera comica melodia, pe' modelli della quale, a dir vero, non potrei mandar gli studiosi senonsè al teatro antico.

Ho osservato di sopra che nelle migliori opere buffe i cori sono più superficialmente adoperati; e basti cennar il Barbiere, ove non entrano con importanza fuorchè nel finale; all' introduzione fanno solo la chiusa; tutte l' arie, sole o dialogate, stanno senza cotal presidio. Eppur è l' opera di tutt' i teatri!

In un tema straniero, come l' Italiana in Algeri, possono esser introdotti senz' affettazione i cori, che d' altronde hanno buffa bizzarria. Ma quale meschinità di mente non è quella, mettere due file di servitori favellanti una voce, vomitati dalla sala, dalla cucina, dalle scuderie, da tutta la casa insomma, per accompagnare arie, duetti, finali nello stile de' Sacerdoti di Belo nella Semiramide, o dei Guerrieri germani nell' Isolina, quasi non si potesse gustar un' opera buffa, senzachè, al dir d' uno Scrittore, ci vengano abbajar in faccia dodici coristi almeno!

Anche l' orchestra dovrebb' essere diversa da quella dell' opera seria, cioè minor di numero, e qualità d' istrumenti. Ma che un impresario licenzii piccola parte de' suonatori, quelle sere che dà opera comica, onde servir alla ragione, con una economia che nulla gli fa risparmiare! ma che gli uditori sieno contenti riempir meno del solito l' orecchie [-211-] di sonora armonia, per soddisfar maggiormente alla mente! ma che il maestro stesso abbia preparata la partitura così povera di ciò che mostra maggiormente il suo vero sapere! oh queste poi sono così strane cose ad insegnare, che la sicurezza di non persuader alcuno consiglia depor qui l' inutile penna. Solo il potrebbe quel Principe indietro dissegnato; e quanto egli volesse diventerebbe condiscendenza in altrui, e la condiscendenza genererebbe persuasione. Suppongasi che quando i Classici francesi modellavano l' eroica tragedia sulla foggia degli eroi e delle eroine innamorate della corte di Francia, fosse nato un Alfieri alla lingua francese, e que' suoi tutti politici temi, quelle severe passioni, que' laconici dialoghi avessero piaciuto al Decimoquarto Luigi. Incontanente i sibariti cortigiani sarebbero diventati fanatici pelle cose tetre, aspre, feroci, e dalla corte a Parigi, da Parigi alla Francia, dalla Francia all' Europa si sarebbe trasfuso quel gusto del solo Re. E come no! Non ha forse il bel mondo cambiato oggidì l' amor delle sdulcinerie in quello dei veleni, dei pugnali, delle truci scene del medio evo? Chi dubiterà viceversa, che ove un Monarca si divertisse alla vera commedia musicale, ogni altro ripetesse: Mal venga alla musica ultrorossiniana, la quale vorrebbe pure, ma invano, ristringerne la bocca a così delizioso ridere!

XIX. Colla vera opera buffa cessarono i veri attori. Accenneronne quasi solamente una compagnia. La Gafforini, di poche corde, di maschia voce profondamente sonora, come il Galli delle cantatrici, atta specialmente al sillabare, al recitare, alla rotonda semplicità del buffo metodo: la Gafforini piena di comica forza, era padrona della scena, e padrona di far delirare nonsolo un Ser Marcantonio, ma qualche Marcantonio più degno di questa Cleopatra delle giuocose arene.

Viganoni fu esclusivamente mellifluo mezzocarattere, quanto Babbini patetico tenore, a que' tempi che il metodo costituiva i cantori dell' opera buffa, nè ce li confinava a forza una decisa trivialità.

Fra tanti buffi nominerò il solo Raffanelli, perchè forse il più bravo ed il più nobile; ma eziandio, perchè, di petto asmatico, di voce fioca fin dall' età più verde, cantava ancora lodatissimo in un età di Nestore; cosicchè per lui è [-212-] scritta importantissima parte in delle più ripetute opere moderne, la Clotilde.

A' nostri giorni Tamburini e Lablache, come li chiamerebbe l' arte dei commedianti, l' uno caratterista brillante, l' altro comico, considerati qui solo comici attori, sono buffi a nessun altro secondi. Quest' ultimo, sebben cantore di facoltà straordinarie, ama moltissimo la musica ed i caratteri buffi delle opere antiche; il che fa vedere, non mancherebbero, data l' occasione, di ricomparir gli attori, se ne venisse ridonato il vero bernesco melodramma. Il primo poi, l' amabile Tamburini, è anello medio fra gli eroici ed i comici recitanti, fra i bassi ed i tenori.

XX. Non lascerò il ragionamento del teatro buffo, senz' accennare, benchè negativamente le farse. Nella prosa sono queste come l' epigramma della commedia, in cui la brevità dee essere compensata da certa maravigliosa argutezza. Non accade ciò nella melodrammatica, in cui l' amenità del canto non permette anche a semplicissima burletta cascare. Ma la ragione de' spettacoli consiglia per altri rispetti astenersi da siffatti componimenti corti, perchè il poco buon senno de' datori, niente curando di geminar due farse, una studiosamente accoppiano a qualche atto gradito d' altra opera. Godono così sulle loro drammatiche scene il privilegio che non ebber mai l' arene, di porre a biga il mulo col bue, ovvero di spingere al corso barbareschi posteriormente cavalli, anteriormente asinelli. Senonchè, senza farse ancora, hanno il bel vezzo d' unire in una due atti d' opere diverse, anche per semplice amor di varietà. E si permette!

XXI. Se la tragicommedia è mostro d' arte nella prosa, è mostro di natura e d' arte nella musica. Per opera semiseria, o piuttosto urbana, non intendo però la mescolanza ingrata de' due diversi generi, che ciò direttamente non nuocerebbe alla melodrammatica verosimiglianza: intendo bensì quel mal gusto di compor opere istoriche, o non istoriche, con serietà, e persuasione, che gente rappresentatane simile a noi possa mai convincere di viver e parlare cantando. Chi tollererà Federico il Grande, che alcun vivente spettatore poteva avere conosciuto, diventare un buffo? Conchiudasi dunque che il melodramma non dee aver il carattere di mezzo. Due soli generi d' opera si possono [-213-] cosiderare ragionevolmente: l' uno appoggiato all' ipotesi d' un tema di viventi nati a' tempi più sublimi de' nostri: l' altro alla facile concessione di mascherare il vero, per divertirsi con una quasi carnevalesca giocondità di bernesca musica.

XXII. È chiaro che prendendo argomenti da istorie antiche, il dialogo cantato non sarà inverosimile, e l' opera buffa varrà la pena in tal caso di essere lavorata colle cautele che assegnai alla seria. Temi veramente comici attinse la commedia da' tempi eroici; e nel melodramma buffo altressì n' è solenne esempio l' accennato Catilina del Casti, ed una Gioventù di Cesare, bel libretto d' anonimo autore, nel quale solamente si desidera veder più largamente ritratta la comicissima ventura di Cesare prigionier de' Pirati, o meno ricordata certa relazione coll' Italiana in Algeri. Ma l' andare in traccia di eroici argomenti, o fingere la scena nel medio evo, per dar campo a introdurre i cori senza mostruosità, e privarsi della giocondità che viene da una burletta più piacevole, mercè i nostri costumi, e temer di folleggiare dirò con Orazio a suo luogo, è scrupolo vano, che deriderò con quella libertà, colla quale dettai austere ragioni all' opera grande.

XXIII. Diedi già un cenno nel secondo libro dell' ingrata mescolanza di prosa e musica nelle opere.

L' ordine mi fa qui nominare il Vaudeville. Ma perchè ne dimostrai altra volta l' incongruenza, non insisterò qui sopra un genere di cui fortunatamente siam privi.

XXIV. Per Oratorio s' intende oggidì un' opera di fatto sacro, sebbene nelle forme, ne' concetti simile a tutte le altre; inutile apparenza perciò, che il lasciare sarebbe pressochè indifferente.

Gli Oratorj dello Zeno e del Metastasio erano prima componimenti di scena solamente supposta, quindi luogo immutabile, perchè destinati al solo sentimento dell' udito. Questo genere fu illustrato da ambedue que' poeti sublimi. Dell' uno son le migliori opere; dell' altro pur alcuni lo asserirono, perchè la religione è così dolce cosa, che anco i miscredenti sogliono preporre un salmo ad una Iliade; ma que' poemi ove ritraggonsi le passioni in tutte le loro diverse forme, ove si esprimono ed introduconsi i vivi caratteri, e gli uomini, ove si dipinge la natura, sono generalmente [-214-] parlando ben più complicata e più difficile poesia. Tuttavia lasciando queste ardue questioni, e non dell' argomento, dirò che salvo il primato a' drammi profani del Metastasio, ricchi di tante, tanto diverse cose, gli oratorj suoi nel lor semplice metodo sono gemme perfette; caldi poi d' un purissimo spirito delle sacre carte, e dettati con carissima tenerezza. Gli argomenti stessi sono scelti a guisa che tutti alludano alla passione di Gesù Cristo.

Vuolsi notare, come gli oratorj dello Zeno, e del Metastasio, divisi in due parti, ognuna finisce con un così detto coro, ma non tale nel metro, e piccolo sermon morale ricavato dall' azione precedente. Sarebbe mai per conservare la prima istituzione dell' oratorio? Di questo prezioso genere siam debitori a san Filippo Neri. Senzache m' impegni a lunghe istoriche ricerche, dirò solamente, che fu l' oratorio in origine un sacro intertenimento, per opera di quel Santo destinato a ritirar i giovani da' profani passatempi, mescolando per essi la musica, e la rappresentazione di sacre istorie alla concione. Oh eccellente accoppiamento dell' eloquenza e della drammatica, perchè sei andato in disusato? Potess' io insinuare di richiamarti a vita! Vorrei confortare coloro almeno, che conservano l' usanza di chiudere i teatri nella quaresima, sostituir queste ricreazioni di così santa istituzione, nè interromper in tal guisa il corso de' musicali diletti, sospeso ancora quello de' spettacoli. Qual uopo, a gustar buona musica ed il sentimento di ben inteso drammatico componimento, di vederlo sempre a rappresentare? Può supplir a ciò il patto tacito dell' uditore, e la mente di questi, meglio che certe assurde rappresentazioni, che rendono increduli gli occhi e le stesse orecchie. Io godett' in tal guisa, con mio sommo dilettamento perfetto, il Mosè secondo del Rossini, che giammai sopra scene italiane fu degnamente, nè integramente cantato.

XXV. Nè già mi contenterei dell' oratorio metastasiano e zeniano, ma il vorrei più simile all' antica sua destinazione. Ecco la mia idea. Formato il sublime divisamento che sia questo il convegno dell' eloquenza, della poesia, e della musica, si potrebbe delle due antiche sacre concioni condonar la seconda alla verosimile intolleranza degli uditori di finire colla parte men dilettevole, e sostituir ad essa [-215-] il breve morale epilogo di que' Poeti. Ma il primo morale ragionamento, frapposto ai due atti, sia propriamente una sacra dissertazione di fiorita eloquenza. Celebri sono le lezioni sulla scrittura. Una di tal fatta potrebbe introdursi, allusiva al fatto stesso del melodramma. Non si ascoltano in accademie i nojosi elogi d' illustri, e non illustri personaggi? Le orazioni funebri, le insulse cicalate delle lodi dell' asino, dell' ignoranza, e che so io? A quale più opportuno ministero non sarebbe consacrata l' eloquenza, per opera di sacro, o di secolar oratore, a far risuonare, in un colla poesia e l' armonia, l' aule reali, le sale accademiche, perfino i teatri, trasformati in odeoni per quelle sere che voglionsi rispettate da' profani pubblici passatempi, ma che non lo son ordinariamente da profani, od oziosi, od insulsi privati convegni?

Nè, introdotta l' usanza, vorrei si limitasse solamente alle sacre occasioni. Invece di unir l' orazione a sonetti e canzoni nelle accademie poetiche, e invece delle musicali, ove fannosi in brani le opere, perchè non cantar certi drammatici componimenti appositamente scritti, sui temi de' quali l' oratore facesse una istorica lezione, congiungendo così con quest' arte l' uno e l' altro genere di forse insipide accademie? Ma dell' accademia più abbasso. Ora la mente mi suggerisce più importante idea.

XXVI. Rammenterà il Lettore che da prima promisi a suo luogo indagar se sia musica epica. Certamente, comechè non usato, o non avvertito ancora, un genere prezioso e sublime sarebbe il poema drammatico, quind' il poema drammatico musicale. L' oratorio stesso ne somministra l' idea, da cui si passa naturalmente a quella di un simile, anco non sacro componimento. Dovendosi rappresentar quello senza scena, si può cantar eziandio narrativamente, con introdotti dialoghi frammisti. Questo poema introdurrebbe nella poesia un bel metodo, che renderebbe varia, viva, breve l' epica, inducendo frammezzo i personaggi ad agire in persona, e la drammatica assolverebbe da parecchie incongruenze di lacune cui l' arte può palliare non riempire. E sarebbe per avventura il mezzo a togliere la questione intorno al romanticismo drammatico. Voglio dir quella irregolarità che fa spiccar enormi salti di luogo e di tempo ad un' azione istorica, che non può essere continua. [-216-] E ne verrebbe quasi modesta confessione, che quando i temi d' un' istoria non possono tuttoquanto senza interruzione trattare il fatto, meglio si è che il poeta li conduca per mano colla narrazion sua, e li lasci opportunamente, data l' occasione, operar eglino stessi e dialogare. Gli spagnuoli hanno un genere di drammatica narrativa. Signorelli tomo 3, capitolo 3.

Ma noi lasciando queste considerazioni alla poesia, ci atterremo a quella ch' è destinata solamente alla musica. La famosa Creazione del Mondo e gli altri componimenti di Haydn ci offrono l' esempio d' un musical poema, cui la fantasia de' poeti può emular e variare in mille guise, meglio che sappiano preveder e ammaestrare le regole. Componimenti, alternati dai dialoghi, ed anche senza, si possono inventare a mille, ne' quali la pindarica mente del poeta offerisca quante occasioni e immagini presenta la natura alla poetic' arte, che ne prepari poscia i quadri alla musica imitatrice. Metastasiani, che con un sofisma volete difendere l' introduzione delle similitudini nelle arie: Rossiniani che volete ne' finali, allusioni a burrasche, a terremuoti, a battaglie, a giardini, a sussuranti aurette (inezie canore!) miglior occasione vi somministrerà la poesia che trasporti sulle scene le descrizioni, le pitture virgiliane, ariostee, i tesori inesausti della natura e dell' arte. Ed a ben riflettere, quand' anche non fosse spessevolte fuor di proposito, non è quella veramente musica imitatrice delle cose, bensì allusione all' imitazione, che la limitat' arte confonde assieme, non sapendo ritenere sull' ardue mezze tinte le sue dipinture.

XXVII. Ora passiamo alla musica delle Accademie, che con altro nome greco meglio impiegato chiamerei musica dell' odeone. Dura sentenza ne proferì l' austero Milizia nel trattato del teatro. "Non occorre parlare di que' centoni di suoni e canti morti e senza azione, che diconsi accademie. Se queste si fanno per esercizj e per istudio vanno benissimo; ma se per diletto, come ordinariamente si pratica, falso diletto!" Ma io, senza negar alla musica lirica questa sua vera provincia, mi contenterò disapprovar quelle accademie, che in due modi fannosi a danno della musica melodrammatica, o indegnamente promuovendole a preferenza di quella più sublime arte, o mettendo in pezzi le membra dell' opere. Non mancano musicomaniaci, che nelle accademie, [-217-] cui una di queste anime fredde intitola: Le più care solennità della vita: ammirino, dirò così, la materia greggia, massimamente se strumentale, quasichè la poesia, la drammatica, la rappresentazione fossero distrazioni dal bearsi del meccanismo dell' arte, e non piuttosto l' oggetto cui dee servir la materia come mezzo a compor insieme capilavori dì bell' arte. Gli è ben vero che parecchie volte tali esercizj rimangono quasi deserti, e pagati di quella sobria moneta che meritano: ma talor eziandio han enfatici accorrenti, e copiose raccolte, sebbene osino richiedere a que' concorrenti tal moneta, che farebbe fuggir ciascheduno dalle soglie dell' opere più solenni. Certamente a promuovere gli spettacoli melodrammatici, che tanto costano agli appaltatori loro, e che soli hanno una universale importanza, sarebbe provvida legge, che chiunque volesse offerir venturiere accademie lasciasse la metà della provenienza, picciola o grande che si fosse, in pro dell' imprese.

Ma tantochè l' accademie vogliono farsi rivali dell' opere, d' altro non si compongono, senon di brani de' melodrammi, ned hanno loro propria merce, ch' è la musica lirica, perchè non vogliono farne la spesa, ma viver dell' altrui. Ed anche ciò sempre in onta dell' opere, perchè: o que' melodrammi da cui stralciansi le scene son già stati rappresentati, ed è fredda la riproduzione priva del prestigio di rappresentazione: o sono nuovi, e tolgono il diritto a' capilavori d' apparir poi novelli nella loro integrità.

XXVIII. Lasciam omai le accademie, per dir più teoricamente qual debba essere la musica lirica, ch' è la vera musica dell' odeone, cioè canzoni e cantate composte appositamente, non iscene di melodrammi: perchè troppo costa fare scrivere per accademie music' accademica, della quale purtroppo riman povera e quasi priva l' arte. Poichè abbiam più volte nominata musica lirica, e veduto quale sia la musica epica, parliam or qui a suo luogo di quella, se la biasimammo straniera nel melodramma. Canzonetta chiamasi vulgarmente la canzone musicale, cioè di metro suscettivo del canto. Notammo che il verso lungo non è atto senonsè al recitativo, perchè è forza che la voce, prendendo fiato, lo divida in due parti, che non riescono eguali. Dunque conviene che la canzone musicalmente tale si serva de' versi che in poesia son anacreontici, e supplisca [-218-] col solo stile diverso a' tenui, ed a' sublimi argomenti.

Dimostrai, benchè ad altro fine, che la volubile rotondità del periodo musicale viene preparata, ed anco eccitata nella strofa dalla proporzione di versi eguali, dalla consonanza delle corrispondenti rime, dalla cadenza nel tronco. Da qui suole venir l' ispirazione della melodia. Due strofe gemelle, uguali o consimili, legate da finale comune rima muta, sono quelle che in musica chiamansi prima e seconda parte, spesso varie di muovimento, ma virtualmente relative. Continua il componimento alla stessa guisa, con molta precisione dal canto del poeta nella distribuzione delle pause, dal lato del musicografo con varietà subalterna e superficiale di riprodotto pensier musicale.

La cantata, come fu dal Metastasio renduta regolare, è una mescolanza di recitativo e di canzonetta. Le semplici sono nella prima parte più piana recitativo, nella seconda più risolvente aria. Le composte riproducono quest' ordine due, od anche più volte. Bisogna però avvertire che in esse parli co' proprj sentimenti il citaredo. Altrimenti quell' eroidi, a guisa del Rolli, non essendo che una specie di scene, non possono dar luogo a tale meccanismo lirico, ed abbisognano delle cautele drammatiche prescritte al parlar cantando.

XXIX. Scrisse saviamente l' Arteaga, contraddetto sofisticamente dal musicale apologista Manfredini, che la musica nostra non ha i corrispondenti metri poetici. L' Asioli stesso è nell' opinione dell' Arteaga, non in quella di quel Maestro di cappella. Infatti, come dice il primo, non metri epici, non elegie, non odi ha la musica moderna, quali avea forse la greca. Nè vale l' asserir del secondo, che un canto del Dante, od un sonetto del Petrarca si sieno fatti musicali. Si adopera con siffatte poesie, come perfino colla prosa; ma la composizione musicale sèguita sempre i suoi metodi generici, nè hacci l' ode, l' ottava, od il sonetto della musica. Infatti quest' ultimo, che sin col nome accenna musica, e nelle sue definite misure, e rigorosissime consonanze par che venga in origine alla poesia dalla musica stessa, non ha in essa vestigio alcuno di consimile metro in melodia. È ripugnante perfin la natura delle due arti, contrarie in ciò, perchè nè terzetti, nè ottave si possono [-219-] porre in vera melodia, chè non zoppichi nella cantilena non sostenuta, a cagione del verso lungo che cangiasi alternativamente in due, un corto, un più corto. Nè alcun uso si fa perciò della musica nell' epica, nella elegiaca, nella lirica, il perchè l' ode stessa è componimento non di cetra. Solamente alcuni popoli, o dialetti dell' Italia han canzoni di versi lunghi, ma di cantilena triviale, come sono le marinaresche che diede alla poesia il Tornielli.

XXX. Ma non è veramente così, che la musica manchi de' metri lirici, bensì del vero metro drammatico; imperocchè la maniera prefata, onde fornita è la canzonetta ed aria, maniera di metro lirico, benchè sola, serve di telajo all' orditura del cantabile nel melodramma ancora. Perciò è necessaria, come a lungo feci vedere, una somma diligenza, quale fu di raro usata, od apposta negletta, onde sciogliere, dissimulare, fare scorrere rapida senza il rivolgigimento apparente di siffatti vortici, la melodia, e la cantilena, poichè bisogna servirsi ad ogni patto di tali meccanismi, e confessare ad un tempo, che come siam poveri, mercè un sol genere di metri nella lirica musica, pel dramma poi di sopra del recitativo non ne abbiamo, senonsè suppletoriamente, con bisogno di occultarne le forme.

XXXI. La poesia ha canzoni che sembrano destinate alla musica, ma converrebbe però ai lor metri unire la versificazione breve. Tale si è la canzone a ballo alla greca. Consiste in una strofa, ogni tre, diversa, e spesso più piccola delle due precedenti, chiamate, ballata, e controballata, ovvero volta, e rivolta, e la terza stanza, credo dallo starsi nel mezzo a danzare tutto il coro. La sua ragione, dicesi, era: che cantandosi l' una, un semicoro entrava in mezzo a ballare; cantandosi l' altra, l' altro semicoro; e colla terza ballava il coro intiero; e così seguitando. Fatta di strofe brevi, di versi corti, di desinenze tronche, si adatterebbe facilmente alla nostra musica, ed usi nostri, avendo relazione cogli assoli e le riprese dei pas-de-deux.

Nè guari dissimil è la lirica canzone a ballo provenzale. Ha questa un preludio: vien la strofa, o serie di strofe: ad ogni strofa si ripete il preludio nelle identiche parole. Le strofe si cantano ad una voce. Perchè il coro sia pronto a cantare dopo ogni strofa, hanno queste una cadenza o due della rima o rime ond' è tessuto il preludio; e così [-220-] viene ad essere non moderno l' uso delle cadenze: uso moderno solo il farle tronche. Il Metastasio rendette musicale questa canzone nell' Achille, componendola di versi brevi.

A tante invenzioni che ha la poesia nostra aggiungerò io il capriccio d' una nuovità! Sarebbe questa un componimento di stanze, come nelle cazoni petrarchesche. Ma la prima parte d' ogni stanza fatta di versi lunghi e brevi, con rime obbligate, serva pel recitativo. La seconda parte al canto, perciò tutta di versi corti, eziandio imparissillabi, perchè così meglio si distaccano dal suono di quelli della prima parte. Nella tessitura però cominci colla rima onde finisce la prima parte; e del resto, simile ad un' arietta d' una sola parte, termini in tronco, da riprodursi nel fine d' ogni stanza.

Questo componimento, se non m' inganno, tiene dell' ode, della canzone, della ballata greca e provenzale, dell' anacreontica, della canzonetta: della poesia lirica insomma e della melica; ed è particolarmente una cantata regolare, cioè con eguali ritorni di recitativo e di canto, l' uno e l' altro così unito, che ogni ritorno formi una cosa sola, benchè doppia. Finalmente se ne potrebbe far uso assai proprio ai cori delle tragedie; nè manca che un valente poeta, il quale componga in tale metro, perchè con quest' unico vero mezzo prenda attività.

XXXII. Dicasi ancor dell' inno. È di due maniere, o si adoperino sole, o unite: narrazione; perorazione. La narrazione consiste in concetti di proporzionata misura, e con apparente artificio connessi, ne' quali si narrano i fasti principali della persona o cosa lodata. La perorazione in non dissimile stile espone i voti, che invocano quanto forma oggetto dell' inno medesimo. Il metro dell' inno suol essere musicale, quindi quello assegnato alla canzonetta. Conviene a' cantici guerrieri la rapidità del verso decassillabo, così nell' eccitamento alla battaglia, come nella baldanza della vittoria.

Il salmo è una serie di sentimenti e preci, che muovendo piuttosto dal cuor che dalla fantasia, sembrino uscir quasi ad uno ad uno da quello, senza un visibile premeditato dissegno. Può essere misto d' arie, può essere di metro tutto recitativo, con misure uniformi, e regolari pause, riempiute d' arpeggi corrispondenti. Il cantico poi è un salmo solenne di laudi piucchè di preci.

[-221-] XXXIII. Parlando d' accademie, intesi quelle che principalmente consistono nella musica vocale. Della strumentale può convenir a quest' opera il favellare? Sì certamente, purchè presa in generale sotto il seguente aspetto. Non credo che compositor alcuno di musica strumentale, o suonatore, pigliando in mano l' istrumento, altra cosa si proponga, che trarne tanta espressione da farlo parlare umana voce, se possibil fosse, ovvero da dar al componimento significazione di ragionamento, e farne intender all' uditore l' assieme, le parti, e l' oggetto; non altrimenti di persuasiva orazione o narrazione. Ecco in qual guisa ogni musica istrumentale non è altrimenti che musica vocale, nell' idea, ne' mezzi, nello scopo; e convien che quel musico sia pieno senza parole ancora di poetiche idee. Dice il Milizia, sull' orme al solito dell' Algarotti: "Il celebre Tartini non componeva sonata che non esprimesse qualche composizione del Petrarca, nè perdeva mai di vista il soggetto proposto. Queste sonate però, per quanto sieno significanti, non hanno che mezza vita, mancando loro l' espressione del canto, che è l' anima della musica".

XXXIV. Io distinguo due sorta di musica strumentale nell' oggetto, e nell' uso suo. Quella che piace in trar tutto l' effetto possibile dagli strumenti e dalla forz' armonica, quale non potrebbe ottenere unitamente al canto, cui dee essere secondaria la strumentazione a ricavar così dilettamento eziandio da questa parte subalterna. Quella poi che serve a' diversi usi della vita, ne' quali si suole adoperar l' armonia, come quasi necessario riempitivo, e animatore sostegno. Della prima sorte nulla mi appartiene il dire, se non fosse per avventura ardimento ricordar a chi porge, a chi gusta siffatti piaceri un poco più di sobrietà. Sebbene non sieno delizie inebbrianti, nè indigeste, come quelle del palato, sono però tali da estimarle maggiormente, facendone parsimonia, di quellochè saziando esuberantemente. Saggio consiglio lasciare alquanto di sete, ed i riposi necessarj al chiaroscuro delle belle arti! Il concerto d' un violino, d' un clarinetto ti riesce così lungo, che diresti propriamente quel tale istrumento, sebbene senza loquela, sia venuto a parlarti di molti affari; e quando il suonatore depone l' arma sua per tergersi il sudore, credi che abbia finito: oibò! rimane l' allegro, e le [-222-] variazioni. So che a' musicomaniaci non par troppo, o se 'n infingono, ma una norma più generale a tutte le belle arti prescrive che la misura stiasi piuttosto sotto il segno del mezzo, e questa regola poi dee esser particolare a quelle che contengono sole astratte idee, non cose di fatto, che nella loro successiva varietà e necessaria azione non possono per sestesse indurre sazietà, nemmeno quella d' un bello troppo sfoggiato. Negli odeonici esercizj bisogna distinguer quelli meno plausibili, che si compongono di mera strumentazione, particolarmente ove un solo o quasi solo strumento fa ambiziosa prova. E qui è appunto che s' ingalluzza l' amor de' dilettanti. Ma codesti suonatori mi sembrano (dissi in altre carte) que' Paladini, che andavano errando intraccia di fantastiche venture, di palagi fatati da distruggere, di mostri chimerici da uccidere, mentre il campo di re Carlo, rimasto co' soli duci vulgari, era tagliato a pezzi dai Saraceni, e costretto a serrarsi entro circoscritto campo. La musica strumentale dee servir alla vocale; questa specialmente a più complessive prove, degne maggiormente della maestà delle belle arti. Ove se ne traggano secondarj lietamenti, sien questi almeno alcuni fiori nati fuor del giardino, ma presso al recinto di esso, e quasi ne facciano parte. Ma tali suonatori, dirassi, arruolati alle orchestre non sarebber a quelle di presidio, quanto sono essi a semedesimi, vagando soli! Non so se questa sia a loro più eletta gloria: so che appunto i premj cui riscuotono, il fanatismo che destano sono conseguenza di una funesta e ingiusta libertà della repubblica musicale. La nostra città: mi diceva contento un Filarmonico: è in questa stagione un convegno di professori europei. Poco conforto: gli risposi: quando gli spettacoli del vostro teatro massimo assonnano per mediocrissimi attori cantanti!

XXXV. Ma fosse almen oggidì lo scopo degl' istrumenti trarne le voci più possibilmente parlanti al cuore! Invece un qualche violinista italiano va oltremonti, od un così detto, con bel vocabolo, pianista alemanno discende in Italia, e bandisce accademia. Accorrono i dilettanti, e dopo aver tant' altre volte per altri maravigliato, strabigliano maggiormente per un prodigio che tutt' i precedenti sorpassa. E cos' è questo prodigio? Quanto maggior affastellamento di [-223-] note screzia la carta musicale, com' irta boscaglia: quantopiù inconcepibile rapidità hanno due mani, che con invisibili minutissimi tocchi deludono l' occhio volando irrequiete pe' tasti del pianoforte, tanto maggior è l' arte del professore, a dispendio sempre della bella natura, del vero bello d' espressione. E quel violino, quel clarinetto! Allora son sicuri d' alzar più intensi plausi, quando l' un va su pel manico a trovar gli estremi suoni acutissimamente sordi, che perciò non son più suoni; e quando l' altro, per eccesso di raffinamento, stride, traendo voci a giudizio di noi vulgari stentatissime. Sono tuttavia professori di grandissimo concetto, visitati, ammirati ne' loro cimenti da coloro che fastidiscono talvolta la musica delle scene. E sono invero mostri d' arte, e voglio concedere, tali che, nella loro professione, valgano quanto Talmà drammatico, la Malibran melodrammatica, il Rossini musicografo, il Metastasio poeta. È grande però la differenza fra profession e professione, e cotanta, che se alcuno camminasse lungo un fil di seta, o ballasse sulla punta d' una picca, avrebbesi la mia immensa ammirazione, ma preferirei da questo migrare a quel teatro, dove un attore mi cantasse la verità di drammatico recitativo, e modulasse patetico facile cantabile.

Penso che questo sia veramente l' abuso della musica, che Platone severamente pronunciò: farsi collo scompagnare dal canto l' istrumentazione. Nè vorrei s' intendesse materialmente. ogniqualvolta uno si mette a suonar senza cantare. Serve agli uffici suoi l' istrumentale, quando a sua volta s' intromette alla musica canora; quando la suppone; quando accompagnasi ad altre cose; quando le circostanze stesse la richieggono, e di preferenza.

XXXVI. E qui viene in campo la musica sacra primieramente, che involve nel ragionamento, coll' istrumentale, la vocale ancora. Tutto il mondo esclama contro il puro stile musicale ecclesiastico, confuso nell' oceano della generale musica teatrale.

          La musica al teatro, ed a la chiesa
            Era invitata, e attesa.
            Al teatro si volse in gran costume,
            Tutta velluto la gonna e il mantello,
            Aspri d' oro e di gemme, e tutta piume,
[-224-]     Tremule su l' ombrifero cappello.
            Ma visto che le spoglie
            Di reggere sè stesse avean possanza,
            E sostener la parte,
            Da quelle si discioglie:
            Per un buco che aperto avea la Danza,
            Cala sotto le tavole, e si parte.
            Poscia dirittamente al tempio andonne,
            Co' Preti ad intonar l' eleisonne.
            E tanto rinnovar l' esperimento
            Trovò facile impresa,
            Ch' indi fu udita cento volte e cento:
            E parve ogn' or la stessa:
            Cantar grave in teatro a vespro e messa:
            Cantar leggiadra, or seria or buffa, in chiesa.
In chè dovrebbe consistere lo stile ecclesiastico? Quando vocale sia la musica, i concetti ispireranno il musicografo dotto: all' indotto vani sarebbero in ciò mille precetti. In generale il suo carattere consiste nella sobrietà degli ornamenti, nella semplicità, nella verità. Ma non sono esse virtù che dee aver ogni musica? Lo stile sacro è piuttosto figlio della mente, o conforme ad una certa virtuale convenzione. È lirico tuttavia. Dunque se lirico, e di a convenzione, e contuttociò viene cotanto biasimato, qualora non abbia un carattere a sè, cosa si dovrà poi dire del confonder che fassi col metodo lirico il drammatico? E mi sia permesso tornar per l' ultima volta su questo punto nell' arte importantissimo e cardinale. La venerazione naturale pelle cose sacre accende ogn' uno di sdegno a vederle trattate con tutt' altre armonie da quelle che la convenzione, col retto sentire prescrivono; ma ed il retto sentir e la tacita voce del fatto distinguono, come cose nonsolo virtualmente, ma fisicamente diverse, melodia da cetra, e dialogante declamazione.

XXXVII. Una messa è il più solenne poema, dirò così, dell' ecclesiastica musica; ma poema lirico, perchè aggregamento di sacri cantici e preci distinte, unite alle parti strumentali, che accompagnano le mute ceremonie. Della salmodia feci un cenno, ed il più di queste cose appartiensi alle regole dell' arte musicale.

[-225-] XXXVIII. Osserverò piuttosto come la religion nostra imponga difficile legge, di comporre sulla prosa, e latina. Un maestro che componga sulla prosa fa come uno scultore che lavori colla povera creta invece del marmo di Carrara. E poi sarà costretto farsi la poesia da sè, senza riceverne le ispirazioni; perchè i musicali motivi non essendo che un' emanazione de' poetici, il musicografo direttamente o indirettamente dall' abitudin è forzato mettere mentalmente ne' canti suoi la rotondità del numero poetico. Pure, chè non ottiene l' abitudine! se ci si mescola qualche volta un inno italiano, sembra languida cosa, profana, e fuor di luogo. La mescolanza del recitativo col canto, ed i passaggi, forza è pure che succedano senza estrema diversità di stile, senza uniformità, ed in modo dissimulato, dove canto e declamazione ha una sola base, e questa è prosa. Grande scuola anche questa de' compositori a moderar il canto drammatico, che ha ragioni cotanto separate dalla lirica!

XXXIX. Come la composizione, castigata esser dee l' esecuzione. Si grida del pari contro la voluttuosa ed effeminata, e contro la fragorosa strumentazione. Pur quest' ultima non è contraria alle antiche pratiche della musica sacra, ove adoperata venga con intendimento di servir all' oggetto. Nella mia Patria un organo di suono colossale, in un tempio del pari augusto, in me destò sempre, unitamente a fisico scuotimento, idee di venerazione per cose soprannaturali che stanno nell' immenso.

Un popolo più minuto di musici da chiesa sono gli organisti. Contro questi abbastanza si è scagliato nelle sue dissertazioni Marco Santucci. Ma non saranno mai vincolati nella loro presunzione di parer leggiadri, suonando colla sacra ceremonia le note melodie delle sirene da teatro, e fin, come colui, durante la Santissima Benedizione il notissimo motivo Maledetti andate via, Ah canaglia via di qua, se non si promulghi una legge, che con norma universale, li costringa niente suonare, che non sia ricavato da componimenti originariamente creati pella chiesa.

XL. Che la musica sia nonsolamente confortatrice compagna dalle fatiche, ma eziandio col suo ritmo sostegno in quelle al corpo, ed impulso perfin morale all' animo, dimostra quella che in ogni tempo giudicossi necessaria nella fatica del cammino, e fin fra gli orrori di sanguinosi combattimenti. [-226-] La musica militare dovrebb' essere appositamente composta, o scelta del genere. Nel primo caso, descrizioni di battaglie, muovimenti atti a regolar le marcie diverse, eccitamenti di coraggio e d' ardimento, simili alle parlate de' capitani composte da Tito Livio, sono temi caratteristici al savio musicografo; ma nel secondo caso, ohimè! tutte le opere, fatte al solito in brani, passano indistintamente al cembalo delle dame, all' organo della chiesa, alla banda del reggimento. Oh il bravo puntatore di musica vocale per banda è il signor professore Ottavio Ottavini! Non è l' eguale a lui, quando si tratti di adattare la cavatina di Rosaura, che nella nuova opera buffa va cogliendo rose pel giardino ad ogni musica militare che non abbia meno di sessanta suonatori! Ma io non credo che i sapienti Maestri alemanni possano intender così. Se la loro robusta, e talor troppo nervosa armonia non ha qui suo luogo, e in generale nella musica strumentale, dove la impiegheranno? Essi oltremontani, che tacciano di scolorata perlopiù l' opera italiana, come non ritroveranno dilavamento nell' armonia ricavata da queste melodie? Io sono persuaso che ogni savio filarmonico intenderà, che solamente musicografi, con particolare vocazion' e studio, possano ricavar l' idonea utilità ed effetto dagli strumenti, e che tale metodo vero riescirà spinoso solamente a que' leggiadri, che sulla piazza d' armi vogliono intanto dipingersi al pensiero la melodia del duetto de' due buffi, e del rondò della prima donna. Eppure nonsolo l' armoniosa musica rossiniana, ma le belliniane cantilene, e, forse piucchè altra cosa, piacciono strumentalmente e perfin militarmente! E non dicevasi, che i componimenti del Bellini nulli diventavano nella nudità del cembalo? Bisogna dunque confessare che alcune delle sue invenzioni ricevano novello merito dalla espressione, che supplisce al loro poco intrinseco musicale. Ma in generale, non dalle parole, ma dalla forza strumentale, in suo stile parlante conforme l' occasione, debbonsi prendere non vocali le sinfonie. Ogni cosa in suo luogo, a suo tempo.

XLI. Ogni scenic' azione, quand' anco sia di prosa, o senza parole, non si scompagna mai totalmente dalla musica. Distinguesi in proemj, ed intermezzi. De' cori, quelli ancora introdotti a semplici tramezzi degli atti, niun uso si fa oggidì nella commedia, rado nella tragedia, avendo [-227-] la musica scenica il suo seggio a parte nel melodramma. Lusso poetico esser sogliono quelle poche volte che se ne compongono, nè si rendono poi quasimai musicali. Qualunque volta però si volessero far rivivere, sarebb' errore che non avessero relazion, e stretta relazione coll' azione; nel che voglionsi lodare i cori nel Giovanni di Giscala del Varano, perchè in tanto lutto, pur è plausibile la lor occasione del canto. Pel metro, il Metastasio nel Giustino adoperò quello dell' opera sua, cioè recitativi ed arie. Anche in ciò son modelli que' nel Giscala, pieni d' altronde di fuoco pindarico, di scritturale sublimità, di maschia numerosità. Cominciano con una strofetta d' intonazione. Vien poi un' aria d' alcune strofe di grave argomento. Voce assolo canta una stanza di recitativo, che ricorda le lezioni frammiste alla salmodia. Torna il coro ad intonare altr' aria che sembra più allegra, ossia più mossa. La strofetta d' intonazion' è ripetuta nel mezzo e nel fine, tre volte in tutto nel coro complessivo.

I prologhi ed intermezzi melodrammatici sono andati in dimenticanza, e non accade parlarne. Come male legan colle commedie di Moliere queste frasche!

XLII. D' uso continuo, e che si crede indispensabile, sono le sinfonie. Chi ha cura di questa musica strumentale, la fa consistere nella maggiore o minor dovizia, ma non nel carattere come si dovrebbe. E si dovrebbe: primo dividerla in due volumi, quella delle tragedie e quella delle commedie; secondo: scegliere per ogni rappresentazione quella musica che adattata sia, non solamente al complessivo, ma alle parti. La sinfonia abbia relazione coll' assieme del dramma, e non ripugni alla prima parte; e nei tramezzi ove un atto finisce, o l' altro sia per cominciare patetico, non s' inserisca suonata vivace, o così viceversa, quando la circostanza richiede altrimenti. Finalmente serva la musica non a controsenso, ma di correzione alla non ben confermata difficile misura del tempo. Dove la sospensione è indifferente s' impieghi una semplice suonatina: ma quando è necessario supporre forse troppo lungo ozioso tempo, che dee consumar il suo corso necessario, ovvero non brevi azioni che accadano intanto fuor di scena, una intiera prolissa sinfonia sarà indispensabile.

Ma cosa significa, per regola generale, la musica in uno [-228-] spettacolo non musicale? Se non ha diretta ragione, gli è per lo meno un tenue filo che distrae meno dell' assolnto silenzio, il quale, licenziata l' attenzione affatto, inviterebbe maggiormente gli spettatori ad entrar fra di loro in estranei propositi. Più efficace però può render questo lieve legamento la cautela cennata, di mantener colla musica, benchè straniera, gli affetti che a mano a mano involve la favola. Ma coloro che sfoggiano ricchezze armoniche, o le bravure d' un qualche signor Professore, salutato poi dagli evviva del popolo, coloro soverchiano l' oggetto principale con parassiti ornamenti, de' quali non è il luogo. Si conciliino anche le bravure in qualche modo coll' azione, negl' intermezzi di drammi musicali e non musicali. E che dirò del poco criterio di suonarsi notissima musica da ballo, alla quale gli uditori provano impulsi contrarj al luogo di sedente attenzione, e la parte di essi più villana palesa cotali sentimenti, con piedi, con mani, e con bastoni battendo l' alternare de' passi!

XLIII. Il canto e la pantomima, parti accessorie del dramma nell' antico teatro, col fiorir e arrichire dell' arti, sono diventati drammi a sestessi. Come ciò sia del canto, abbiam abbastanza veduto; resta esaminare il dramma diventato pantomimico, senza presidio di favella o di canto.

XLIV. Suolevasi dividere la poesia drammatica in tragica e comica; ora cresciuti i generi, si potrebbe distinguere in drammatica pedestre, e melica; ed anco, in pedestre, melica, e pantomimica; e quella prima partizione diventerebbe suddivisione di tutti tre questi generi. Nè sia obbjezione, che l' ultimo dei tre non abbia parole, quindi non poesia, perchè sta questa per metà almeno nell' invenzione drammatica; come anche nel dramma, specialmente comico, è poesia senza versi.

Che i retori ed i critici nulla inventasser mai, anzi le regole ricavassero dagli esempj de' precedenti autori, chiara prova ci dà l' Arteaga, il quale parlando dell' opera, fassi ad esaminare, se dopo il Metastasio possa considerarsi giunta sul culmine di perfezione; poscia inquanto al ballo, ne dichiara mostruosa l' origine, il fine, i mezzi, pronunciando che questo mostro risibile non potrà mai giungere al suo maturamento in sulle vie di ragione. Quale sia il melodramma abbiamo già lungamente disaminato, e quanto gli rimanga [-229-] fare, per giungere a quella meta, cui volendo afferrare, mancangli, nongià mezzi, ma volontà di adoperarli; mentre intanto alcuni seguitano a credere fermamente, mancargli a tal uopo perfino l' intrinseche originali disposizioni. Intantochè l' opera erra lunge ancora dal suo scopo, come quelle fabbriche, cui la rivalità degl' architetti, l' insubordinazione de' troppi e diversi artigiani, l' ascoltato parere del popolo, e dei passaggieri, fanno rimanersi quasi nuova mole di Babelle, il Viganò, uno di que' creatori non preveduti dai retori, con avvedimenti nemmeno immaginati da chi non nacque privilegiato a tai destini, Viganò ad un tratto trae la coregrafia di culla; colle sue mani le dà forme diverse da quelle false che aveale impresse chi prima allevolla, e la conduce al segno di perfezionamento, e beltà d' arte, cui niun drammatico genere può superare, perchè l' unità dell' autore, la semplicità dell' opera, ove composizion ed esecuzione son tutt' uno, gli accordava siffatto privilegio. Trionfo tanto luminoso, quantopiù breve!

Ma perchè i componimenti di questo Classico non sono raccomandati alle carte, mi convien esaminare quale siesi l' arte corepea nella sua ragione, ne' suoi mezzi, ne' fini suoi; nel chè però non ho senonsè a fondere in regole gli esempi di costui, che come d' Omero dice Orazio, nulla giammai imperitamente congegnò. Nè mi sarà novella l' impresa, mentre il suo teatro fu da me descritto, ed esposto alle considerazioni altrui nel Commentario sulla vita ed opere del Viganò; al quale libro istorico mando tutti coloro, che credano dalla mia debole penna imparare cos' è arte coropea, di cui poco si ammaestrò, perchè quasi nata recentemente coll' unico suo vero Autore.

XLV. De' sofismi dell' Arteaga giudichi la Ragione impassibile, e bilancia sia quella triplice nostra regola: ragionevolezza, utilità, beltà. Si presentano esse così fuse assieme dentro la corepea, che basta solamente numerarle negli effetti. La ragione coregrafica è la stessa della pittura. Nè fuor di qualche cinico, alcuno condannò mai di vana l' arte pittrice: quello specchio, dove con tanto dilettamento miriam la bella larva di noi stessi, e l' idea di perfezionata natura. Ma la dipintura manca, non dirò di muovimento, perchè imitazione non verità, ma di successione: in ciò imitazione imperfetta! Nonsenza pena veggiam [-230-] cavalli perpetuamente immobili nel galoppo; pugnali che mai feriscono; fulmini, dardi, perfin palle guerriere, invisibili quasi nel lor passaggio, restarsi immobili infinito numero d' anni, quale non impiegherebbero a correr dalla terra fino al sole. Grande scena rappresentata in complicatissimo quadro istorico non è che un istante, ma questo istante diventa perpetuo. Poco d' intende ad onta di certe suppletorie cautele; e mercè ancora innumerevole serie di quadri, non però verrebbesi a rappresentar l' azione, priva della vita, la qual risulta dalla successione e legamento de' minuti intervalli in cui si divide, o per meglio dire si fonde.

Capisco, mi dirà il Lettore, che ciò le dona la coregrafia, diventando essa una viva pittura, men ingegnosa ne' facili già vivi suoi mezzi, più perfetta ne' suoi effetti. Ma qual uopo di render muto il dramma per far parlare la pittura? Giusta obbiezione a prima vista. Conosco che vuolsi utilità drammatica, non utilità d' arti straniere o generali; e qui colla ragione s' immedesima l' utilità. Perchè la corepeja abbia l' utilità drammatica, conviene (come abbiamo giudicato il melodramma) che abbia a sua volta maggior attitudine del dramma non muto, e in qualch' effetto renda meglio l' espressione, che se parlasse; altrimenti avranno ragione i Lettori di dire follìa, rinunciar alla favella per van' ambizione di favellar con quella steril ed incerta degli atti.

XLVI. Primo: Vedemmo altra volta, come le imitative arti emulano il vero con questi e quei mezzi, più o meno idonei, escludendo alcuni altri; e come la scultura e l' incisione sono senza colorito, il quale quanto a prima vista sembrerebbe ragionevole, od anche sarebbe facile applicare, tanto è contrario al bello particolare delle arti loro. Il dramma vocale nella sua più fedele imitazione ha però non lieve imperfezione dal poter mai fare parlar gl' interlocutori simultaneamente, come pur è nel vero, e come succede maggiormente ne' più caldi momenti dell' azione. La pittoresca pantomima supplisce a questa parte importantissima tanto bene, quanto al restante la parole. Dunque un argomento dove codeste contenzioni sieno frequenti, e molti gl' interlocutori, e che specialmente si passi in luogo pubblico e fra popolari perturbazioni, sarà tema coregrafico [-231-] esquisitamente a preferenza, quanto maggiore, o più importante sia questa parte di quella.

Secondo: I cori particolarmente, quella suppellettile drammatica tanto cara a' Greci, tanto vivace nella musica moderna, i cori che in alcune tragedie introdotti come turbe, dipingono così bene il carattere subitaneo, discorde, variabile del popolo, questi cori, che la tragedia spesso fa parlar simultaneamente con assurdità, o difficoltà, e il melodramma con lezioso artificio concertatamente, non sono perfetti, imitativi, naturali, senonsè con pantomimica pittura rappresentati. Nè solo ciò per convenzion d' arte: ma colla miglior imitazione del vero.

Terzo: Perciò, que' subbietti son propriamente pantomimici, che nella maggiore o più importante lor parte presentati ne' luoghi pubblici e vasti, mercè molti cooperatori, verosimilmente, o necessariamente ammettono la supposizione, che lo spettator remoto, ed anche alquanto vicino, tuttavia porzione solamente, o nulla intenderebbe, fuorchè permezzo del sentimento degli occhi. Nel prim' atto dell' Otello, come potrebbe un osservatore dai portici o dalle loggie di quella grande piazza udire altrochè un fremito popolare indistinto? Tutto il restante sarebbe per lui pantomimico: ed il Vincitore sbarcato, e gli abbracciamenti della Moglie e de' suoi amici, e l' accompagnamento al palagio ducale, le feste popolari, ed il tanto favellar, e additare de' crocchi immensi circostanti.

Quarto: Una convenzione poi, sempre a dispendio del vero, concede che si spinga la voce fuor del naturale, perchè l' uditore dee ad ogni modo intendere. Non così la pantomima. Allora l' azion muta sarà naturale a preferenza, quando i discorsi non s' intenderebbero in platea senza tal esagerazione di voce.

Quinto: La coregrafia ci offre nonmeno il dilettamento d' una viva pittura, che la perfezione d' una rappresentazion pittoresca, invece di quella ingrata distanza che passa dai pochi interlocutori, alle simmetriche file di turbe mal imitate dai coristi, i primi affacciati all' orlo del proscenio, protendenti le faccie, le persone su noi, i secondi rimanentisi addietro inetti e male istruiti.

Sesto: La corepea rappresenta in vasti spazj le persone a più stature diminuite, come allontanandosi diminuisce [-232-] la prospettiva dello scenario. Adopera essa giovinetti e fanciulli per mostrare popolo remoto; ed agli attori stessi, quando si aggirino colà, sostituisce ragazzi che li contraffanno. Il chè può farsi dal dramma vocale, ma non si fa, perchè cosa solo propria della precisione coregrafica; innoltre ha relazione colle facoltà della pantomima; mentre a queste distanze non s' odono le voci, e converrebbe che la recitazione diventasse allora pantomima. Nello sceneggiamento coregrafico un centro comune unisce, proporziona, intreccia tutte le figure, con un punto di veduta, supposto nel vero mezzo, intorno al quale si stringono, e piramidalmente sorgono i principali, mentre gli altri più accessorj se ne allontanano eccentricamente, o facendosi nell' indietro poco appariscenti, od ostentandone nel davanti ben dissegnati scorciamenti delle membra loro.

Settimo: Sono alcuni fatti che hanno affinità intrinseca, e maggiore all' uopo col linguaggio muto, che colle parole. Nel Prometeo quegli uomini belve, fin oltre la metà della favola non aquistano mercè la ragione il favellare. Nè quanto essi richieggono pantomima, gli altri personaggi, o allegorici o agenti entro spazj vastissimi e sopranaturali, richieggono favella. Perciò gli sciagurati, che avvisarono far in versi quel pantomimodramma del Viganò, non furono in ciò particolarmente poetastri, ma nell' arte loro stette il difetto, che rende tanto assurdo il Prometeo scritto, quanto sublime il pantomimico. Lo stesso può dirsi dell' immensa vastità de' Titani. Pantomimico pure converrebbe che fosse a preferenza un dramma, che s' aggirasse sullo scoprimento delle Indie, perchè con falsa supposizione non parlassero assieme due popoli, che nemmeno possono farlo per l' opera d' interpreti. Dovrebbero essere in parole solo le scene d' Europei con Europei, di Americani con Americani; ma come si può sperare che gli stessi attori sien or pantomimi, ora recitanti? In altri temi pure prevale la forza dell' azione tacita, come nella Sonnambula peresempio, la quale fatta con mal consiglio drammatica, canta il più delle volte quando dovrebbe assonnare. Oltrechè di quell' ultima scena perdesi tutto il bello, perchè i molti circostanti debbono rigorosamente tacere, nè i coristi sanno supplir intanto con atti muti al bello del pittoresco quadro.

Ottavo: Talor a ragion d' arte dalla pantomima si trae [-233-] molto miglior partito che dalla elocuzione. Tal è la Mirra. Sebbene temessero alcuni, di cauta oscurità rivestita la tragedia stessa, dovesse questa degenerar in tenebre nello sterile stile di muto sceneggiamento, al guardo maestrevole del Viganò parve altrimenti, e scuoprì essere argomento a preferenza pantomimico, perchè quanto nell' alfieriano capolavoro ne vien detto solamente coll' ultima parola, veggiamo in fatto quivi nascere e crescere, colle sue morali cagioni, nel corso stesso dell' azione.

Nono: Altri soggetti possono essere idonei alla coregrafia egualmente che alla poesia: altri servire a quella, parte per industria del saggio compositore, parte per allargamento del patto tacito collo spettatore, senzachè ne rimanga essenzialmente offesa la ragione dell' arte; mentr' è certo che non si possono adoperar i mezzi d' imitazione più ardui ad ottenere piacevolissimi effetti. Il repertorio del Viganò è modello di drammi pressochè intieramente pantomimici, ora per avvedimento dell' Autore a scegliergli tali, ora per maestrevole artificio in farli diventare.

Decimo: Il metodo corepeo soddisfa il quesito: Ritrovare un dramma intelligibile ad ogni popolo, indipendentemente dalla diversità delle favelle.

Undecimo: Agli argomenti spettacolosi e intrecciati d' azioni materiali sono atti quasi esclusivamente, per eccellenza, i drammi pantomimici. Dice un autorevole Scrittore, essere gli spettacoli un genere buono come gli altri, quando venga con senno e dilettevolmente trattato. Non si niega la proposizione, ma la condizione; imperocchè all' arte de' comici a fingerli plausibilmente. Oltrechè sarebber' ornamento inutile, distrazione, confusione alla buona commedia, alla vera tragedia. Come mai fra l' eloquenza poetica de' dialoghi puoss' introdur un tratto di vasta azione, de' cooperatori secondarj, nulla nelle parole? A ciò supplisce molto meglio la coregrafia; nè vuolsi a termini di bell' arti fare opera di due colori mercè repugnanti mezzi imitativi, ma scelto quello che può aversi per dominante, le facoltà dell' altro adattargli subalterne. Nè ciò fia imperfezione, ma lodevole avvedimento, fintantochè gli attori recitanti non sieno atti a rappresentare come pantomimi di professione, il che costituirebbe in certa guisa l' arte de' mimi, oggi perduta, e di cui farem più oltre un cenno.

[-234-] XLVII. E qui notisi bene, che colla dimostrata ragionevolezza, ed utilità del ballo, quest' ultimo numero involve il dilettamento. E qual cosa più dilettevole del dramma cui esclusivamente son proprie le maraviglie de' spettacoli, e che offre al senso più voluttuoso, cioè l' occhio, un pascolo facile, senzachè costi verun' applicazione all' intelletto: quindi ottien solennemente lo scopo di ricreare? Pur chi crederebbe che l' Arteaga ne' suoi sofismi contro il ballo, perchè merce a lui anco ignota, ricavasse quinci opposto argomento di condannarlo come arte infingarda, che lascia intorpidir oziose le mentali facoltà? Quand' anche non fosse ridicola tale moralità fuor di posto, la riflessione sarebbe sempre di quelle che non van oltre la scorza, perchè assaipiù sublime drammatica sposizion è questa, che non dice le cose, ma lascia il peso non volgare all' applicazione di rilevare dal complessivo e parziale loro aspetto i concetti, diventando così lo spettatore poeta a sestesso. E tuttochè semplici nell' oggetto principale, variati multiplicemente erano i coredrammi del Viganò, cosicchè nonsolo dieci volte ripetuti piacevano, ma dieci volte vedersi conveniva, per tutt' osservare; onde andarne poscia tutte a parte a parte scuoprendo le pittoresche disposizioni era piacevole occupazione delle successive rappresentazioni.

XLVIII. Perciò il prestigio d' una rappresentazione spettacolosa non consiste, come vogliono alcuni, massimamente oltremontani, nel porre sulle scene grandi azioni come succedono: i quali sono spettacoli da piazza d' armi. Il bello in arte non può venir dalla comunale ricchezza de' molti oggetti, uniformi negli effetti, ma dalla varietà imitata con beltà pittoresca. Questo genere dee essere, in primo luogo senza parole, perchè contemporanee, toglierebbero l' attitudine de' muovimenti: frammisto farebber un dramma di due colori, contro le regole dell' uno e del bello. In secondo luogo dee consistere in una particolarmente energica espressione degli atti, per supplir alla favella, ed in una continua contrapposizione de' muovimenti individuali, e plurali, onde introdur nella pantomima l' indispensabile bello della pittura. In terzo luogo con musica contemporanea, senza la quale lo sceneggiamento decaderebbe nel vulgare; ed acciochè tenga essa vece in parte de' taciuti, ed accennati ragionamenti. Quest' arte sublime, quest' arte tutta italiana [-235-] più ancor che il melodramma, questo moderno ritrovamento ignoto a' Greci, questo sforzo dell' umano ingegno, dal Viganò ebbe l' origine o il perfezionamento.

XLIX. Ma con tanti avvedimenti, fia sempre la corepea un genere parzial e suppletorio, nè molti posson essere in esso i componimenti. E chè perciò? Fors' è riprova di minor eccellenza sua? Siano pure circoscritti di numero i coredrammatici capilavori, come circoscritt' i casi di far uso della coregrafia, purchè ripetansi sempre que' principali nelle grandi solennità cui è destinata quest' arte magnifica, e risparmisi a' comunali corepei la briga di fabbricarne de' novelli, triviali nell' opera, come falsi nella supposizione del bisogno di pantomimica esposizione.

Quelle quasi centinaja di rappresentanze consecutive de' balli del Viganò, date a nonmai saziati spettatori, fanno vedere, come si potrebbero moltiplicare all' infinito, distribuite poche all' anno; mentre spettacoli cotanto moltiplici, senza parole, nè scritti, come di drammi che si conoscono precedentemente dagli uditori permezzo delle stampe, si dimenticherebbero quanto basta nelle loro secondarie forme, passando un intervallo di tempo da rappresentazione a rappresentazione, onde riescire sempre nuovi, finchè cambiandosi le generazioni, pei posteri tornerebbero nuovissimi. Quindi non sarà esagerazione il dire, che co' soli repertorj del Viganò e del Gioja, e qualche altro raro componimento altrui, resterebbero forniti a sufficienza i teatri di coredrammi, quando anche non ne nascessero più autori eccellenti.

L. D' onde ricaveremo le regole, se niuno ancor ne trattò finquì? Il secreto stassi occulto nel teatro di colui, che così ben l' intese, e potev' ancora insegnarlo altrui; ma non avendolo fatto, non è opera facile scuoprirlo, e ridurlo alle forme ammaestrative. A mio credere, il tema del coredramma, che dee aver carattere proprio, come particolarissimi sono i suoi mezzi, e co' quali ha strettissimo legamento, consiste in tre cose: Argomento semplicissimo, e parlante quantopiù è possibile ne' proprj fatti: Fecondo di maravigliosi avvenimenti e involventi grandi passioni: Suscettività di tutto rappresentare con muta azione in quadri coregraficamente pittoreschi. La corepea perciò è l' anello che connette, e l' arte media fra drammatica e pittura. Tanta è la sua dignità, e difficoltà nel tempo stesso!

[-236-] Trattiam dunque questi tre punti, ma cominciamo a ristroso dall' ultimo; premesso un cenno sul titolo di quest' arte, che chiamerò più spesso corepea che coregrafia, mentre l' ultimo vocabolo vuol dire: descriver colla danza, e quello: col ballo fare, comporre, eseguire. Invece poi di Ballo, nome ambiguo quanto quello d' Opera, mi piace dir coredramma, coretragedia.

LI. Sterile veramente, e imperfetto è il linguaggio de' gesti, sebbene alcuni scrittori ne facciano panegirico, citando antiche autorità, che avran mirato forse ad altro scopo, il quale non è certamente il nostro. Nè mi dicano che siffatto linguaggio fu chiamato la favella degli Dei, e simili ampollosità, cui contrapporrò forse troppo dura definizione: egli è piuttosto una pittura di soli contorni, che accennano l' esteriore di corpi opachi, e nulla più, anzi un quadro d' ombre, quale sarebbe quello, in cui dopo data ad ogn' imagine l' ombra sua, formata dal riflesso di gran luce, si togliessero e cassasser i corpi, rimanendo tutta la dipintura un intrecciamento di sbattimenti e di effetti. Nè dai gesti destinati generalmente a crescer forza e secondar il ragionamento (taciuto questo), si può intendere maggiormente l' eloquenza dello scenico dialogo.

LII. Gli uomini accompagnano, ed ajutano il favellare con certi atteggiamenti e gesti, a seconda delle circostanze, nonchè del genio loro: il perchè questa gesticolazione, più viva ne' climi caldi, si suole veder quasi nulla fra popoli del settentrione. Alcuni di tali gesti vengono naturalmente dalla cosa, come, colla parola: va: un segno di scacciare. Si potrebbero dire parlanti. Altri di convenzione, come far croce d' un dito attraverso la bocca, per indicare silenzio. In terzo luogo moltissimi sentimenti non si possono esprimere in modo muto, perchè o contengono idee astratte, o complicate, o alludono a cose remote. E come significherassi la primavera, il giorno, e che so io? La mimica, cioè l' arte di secondare il discorso coll' azione del corpo, è secondaria, indiretta, difettiva, come l' istrumentazione alla musica vocale. Ove si sopprimano le parole, alcuni gesti ne terranno luogo, altri le indicheranno in una maniera imprecisa, ma la maggior parte del discorso restandone priva, lascierà grandi lacune, che toglieranno legame, faranno perdere l' intiero complessivo regionamento. A sostituire [-237-] gerghi, cioè lazzi premeditati, sarebbe creare un alfabeto muto, nonpiù imitazione del vero, il quale richiederebbe studio a parte, previo un fine ragionevole, come nelle scuole de' sordimuti; ma tratterebbesi allora di supplire ad un difetto parziale, non di servire ad una generale beltà. Perciò la pantomima, che si distingue dalla mimica, per essere non seconda alle parole, ma da esse iscompagnata, è più morta, più indefinita dell' ombra relativamente al corpo; è arte che mostra il fasto della difficoltà nell' imitare con privazione volontaria de' mezzi migliori ad imitare, senza riuscire a questo intento nè dal lato del bello, nè dal lato dell' utile, nè dalla parte del vero; checchè si dicano que' lodatori, che vantano e l' onor e la celebrità in cui era una volta. E quel Pantomimo che seppe convincere un Filosofo dell' importanza di sua arte, rappresentandogli solo, e facendogl' intendere tutta intiera la favola di Venere, Marte, Vulcano, eccetera! Sarà: ma perchè non possiamo capire come ciò si faccia, non terremo questa ora fralle verità di fatto, finchè alcuno riesca farcela nel fatto veder e capire. Luciano volle i pantomimi, a conseguire il loro intento, forniti di scienze, d' arti, pocomeno ch' enciclopedici; ma noi porremo la loro scienza e la loro filosofia nel conoscere le scarse forze di lor arte, ristringendo a queste cautamente le imprese. E perchè non sia eziandio da noi tenuta per un' arte assurda e irragionevole, abbisognano almeno due cose: che venga usata con qualche perchè; che si adoperi con molto avvedimento, sobrietà, ne' limiti delle sue forze. Impiegata così a supplire certi bisogni delle imitative bell' arti, fino i suoi difetti si cambieranno in pregi, quando servano, e togliere di mezzo in quelle altri difetti maggiori. Dunque sul esempio del Viganò, fonderemo il precetto, che il dramma pantomimico per eccellenza sia quello, del quale il particolare subbietto, nè colla prosa, nè col verso, nè col canto potrebbesi nella sua maggiore, o più importante parte così bellamente trattare, come senza parole. E allora questa, lunge dall' essere una versificazione muta, intrecciata di segni fuori dell' uso comune, sarà eccellente quantopiù toglierà ad esprimere semplici e quasi persestessi parlanti fatti, con meno, ed i più naturali atti che sia possibile; specialmente come veggonsi, e s' intendono da situazione alquanto remota quelle [-238-] azioni di cui non possa fino a noi giungere il suono delle voci.

LIII. L' Arteaga male spiegò: la pantomima involvere supposizione di mortali privati del linguaggio. Deesi piuttosto considerar, dissi, come il ragionamento d' uomini remoti da noi, soccorso dall' arte con maggior espressione, mescolato d' alcuni giudiziosi atti di convenzione indispensabili: quindi piucchè la lingua negli attori, vorrei dire impedito per qualche cagione negli spettatori l' udito. Abbiam nell' istoria romana che un Re barbaro grandemente maravigliossi di Pillade pantomimo, e desiderollo aver interprete de' suoi popoli discordi nelle difficili favelle. O fosse questa virtù di Pillade esagerazione, od artificio ignoto ai nostri tempi, certa cosa che il Viganò stabilì sopra opposti principj le norme dell' arte. Diversamente opinando da' predecessori suoi, mostrò sommo sapere nella sua facoltà, in conoscerne i mezzi sterili, e adoperare il linguaggio pantomimico quantomeno gli fosse possibile, per lo contrario basando l' azione sulla propria chiarezza. E maggiormente vuolsi lodarlo, chè in ogni cosa dell' arte maestro senza emuli, sapeva meglio di tutti render efficace quella così steril maniera; ma riserbonne i prodigi a' soli indispensabili casi.

LIV. Il rappresentare con atti taciti è dunque di due guise. O si fa mediante que' gesti, che altrimenti sogliono accompagnar le parole, soppresse poi queste; ovvero con segni di convenzione, che vagliano a tener luogo di favella: mezzi suppletorj, a dir vero, uno più imperfetto dell' altro!

Favelliamo del primo. Consiste principalmente in certi atti inenarrabili, che accompagnano vivissime commozioni dell' animo, in cui sono esse così evidentemente impresse, che senza parole, o non udite, od ommesse, vagliono, per quanto si può, massimamente al giudizio d' intelligenti spettatori, a tenerne le veci, a renderne l' effetto. Quest' arte, se pur esiste in positivi ammaestramenti, sarebbe a insegnare parzialmente; non qui dov' entra in generale. Puossene consultar l' opera, troppo diffusa ancora, di Engel, ch' esamina in molti casi gli atteggiamenti risultanti da passioni diverse. Ma richiedesi ben più all' unico, continuo rappresentar de' pantomimi. Da chi se ne piglierà l' idea? Oltre quella cui saggio coregrafo saprà libare dall' osservazione sul gestir d' uomini che parlino presi da intense passioni, si può prendere [-239-] dal guardare chi favelli remoto alquanto da noi, quando sia gente che abbia cotal uso di tutto accompagnar co' gesti. In simili casi giunsi alcune volte a capir parecchie cose, o forse il tema generale d' un dialogo non udito. Ancora il vedere la rappresentazione delle tragedie, cercando non udirne i versi, può somministrar molto approssimativo modello di pantomima, perchè l' istrionica è arte anch' essa, con classificati modi e bello ideale, significativa sommamente.

LV. Ma quella pantomima fia più spontanea, che abbia solamente in sè la ragione della distanza dallo spettatore, o di qualche motivo generale, che faccia favellar altrui piuttosto con espressivo silenzio. Di questo genere è l' atto terzo della Vestale, per non dir tutta la tragedia, e principalmente i monologhi della notturna Ministra di quel sacro fuoco. E qui vuolsi aggiungere un novello, perduodecimo agli altri casi, per dimostrar che la pantomima è a preferenza più naturale talvolta delle parole. È vero che parliam fra noi stessi, ma non per regola generale, nè la miglior imitazione dee andar in traccia di menchè bell' eccezioni; oltrechè non è questo il lungo descrivere che fassi negli oratorj soliloquj drammatici ogni pensiero, e quelle circostanze ancora, le quali è vano che l' interlocutore racconti a sestesso. Una tale verbosità snerva la passioni. Oh quanto sono ridicoli certi a parte, inseriti anche in dialoghi, e certi dialoghi che uno ne' soliloquj fa coll' ombra, col ritratto, coll' idea dell' assente, raccontando poi ciò che quell' ente immaginario gli dice in risposta!

Quale poetica penna può agguagliare il coregrafico pennello nelle mani di Salvatore, in quel monologo d' Emilia? quando nel sacro silenzio del tempio ravvolge in suo pensiero l' immagine del veduto Giovane: quando la si vede innanzi, e per iscacciarla tutti recasi alla mente i suoi doveri: quando per domar la novella passione ricorre alla Dea, prega, si pente, propone: quando nuovamente la dolce larva l' è presente seduttrice; ed ora se n' invola, or cede alla lusinga, or ne rifugge subitamente contraffatta, quasi la Dea con altra, e più fiera larva frapposta, la respingesse addietro! Provisi a scrivere questo monologo, e farne una scena di verseggiata tragedia, e si conoscerà quanto le parole sieno un dipiù ozioso, un superfluo ripiego, [-240-] laddove bastano gli atti esterni a chi ha già entro di sè la favella de' sentimenti.

Ma la potenza di pantomimica espressione, unita colla cautela del favellare remoto da chi dee ascoltare, risulta particolarmente chiara in Salvatore, allorchè tenta far oggetto di pantomima perfin l' eloquenza, e la disputazione, nell' arringa di Coriolano e del Tribuno: sforzo tanto contrario alle sue consuete pratiche, giustificato nonsolo dagli applausi de' spettatori, ma più ancora dalla supposta distanza degli uditori pell' ampiezza del foro; nel qual caso gli oratori s' intenderebbero non altrimenti che così, e ben ingegnosi sarebber quelli che con arte tutta nuova facessero, mercè la gesticolazione, capir ai lontani almeno la principale sostanza di ciocchè intieramente odono solo i vicini.

Usavano gli oratori antichi certi gesti che spiegavano senza parole alcuni determinati concetti, e potevano essi allora farsi capire dall' uditore anco remoto; e quest' arte gioverebbe nonsolo nel caso d' una pantomimic' arringa, ma pel dialogo ancora; però converrebbe fosse nota fra 'l popolo, ed invalsa, per parer naturale. Essendo invece disusata, non puossene prevalere la coregrafia.

In altre dialogate scene per sestessa naturale è la pantomima, come nel quartetto in Prepotenza vinta da eroismo del Viganò nostro, dove due coppie d' interlocutori se l' intendono a gesti, più ragionevolmente che cogli aparte parlanti, cui se ode l' uditor lontano, sarebbero assai duri d' udito i vicini attori per non capire. Peggio poi quella gesticolazione caricata di recitanti o cantanti, della quale non s' accorgono però mai gli avversarj, di maravigliosa stupidezza! Per lo contrario nella scena di cabala e calunnia nell' Otello, la forza d' arte con chiarissimo dialogo così chiara risplende, che più per regola generale del genere pantomimico, che per bisogno, si richiede la supposizione, che gli spettatori nel luogo pubblico trovinsi alquanto rimoti.

LVI. Se difficil è rappresentare le stesse violente passioni, cosa sarà poi qualora l' azione discenda narrar freddamente cose più materiali, che richieggono propriamente d' esser dette, e nominate? Si credette supplire con certi segni, che ad esser intesi abbisognerebbe per lo meno un alfabeto avanti, studiato dagli spettatori, quasi alunni della [-241-] scuola di sordimuti, de' quali, avviso, l' arte, o artificio, figlio del loro difetto, non è veramente un linguaggio, ma un alfabeto di gerghi scritti sulla punta delle dita.

Diversamente vuolsi adoperar da quegli antichi, che alcuna tragedia francese gesticolarono distico per distico. Converrebbe anzi inventarne i temi, e sceglierne uno fra cento che maggiormente permetta impicciolir questa parte. Grande maestro ed esemplare ne fu il Viganò. Egli venne così a darne la regola, che quell' arte di accennar cose materiali con gesti non si può meglio insegnare, che consigliando fuggirne a più potere il caso, ed il tirannico bisogno. Nè potendosi ciò conseguire intieramente: eludere certe antiche forme d' un' affettazione ridicola, come accennar cosa che mettasi ad armacollo, per annunziar il signore, il padrone, il marito.

LVII. Comechè nella pantomima, direttamente o indirettamente gran maestro, la parte ove Salvatore appari preclarissimo, creata essendo da lui, fu la coreografia, voglio dir qui quel continuo giuoco di scena, che fassi mercè la disposizione de' principali e secondarj attori, co' scorci, co' gruppi, colle masse in parziali contrapposizioni collocate, molte successive volte, come una volta si vede in ben dissegnato quadro. Primieramente ciò succede un' ad una nelle figure de' pantomimi. Qui non occorre al corepeo senonchè studiare i libri teorici de' pittori, che saranno pure per affinità libri dell' arte sua. Il Viganò nel gruppo della Vestale svenuta, sostenuta dall' Amante, che intento le baciava la man cadente, dissegnava un modello da Fidia e da Canova.

LVIII. L' ornamento secondario, che fece diventar principalissimo, negletto da chi lo precedette, consiste nella cooperazione di accessorie figure cogli attori, come popolo ammiratore, oppure interessato. Le deserte reggie nelle tragedie, ove il re per cortigiani, sudditi, popolo ha ventiquattro soldati che sembrano di legno; le città abitate da una sola famiglia, le piazze, le botteghe, le vie spopolate, ove non viene, non pass' alcuno, sono incongruenze, cui sol l' uso, non la ragione può accomodarsi. Soccorse a ciò il Liveri a Napoli col favore d' un Re protettore munifico de' spettacoli. Lodavami particolarmente un cotale la rappresentazione del Don Carlos di Schiller veduta in Vienna, ove la corte spagnuola, co' ministerj, colle altre cariche veniva [-242-] rappresentata da un cento personaggi muti. Ma il caso del Liveri fu opera più difficile che compor balli, e in quello del Don Carlos è arduo ammaestrar gente volgare a sostener importanti personaggi che nulla dicono nel dramma. Lodevoli ma non comuni son queste prove, le quali la coregrafia tiene squisitamente dal suo genere stesso, comunque un tal genere sia riservato a pochi temi solamente.

LIX. Tali son quelli di pubblica importanza, e cooperazione, tutti proprj del coredramma particolarmente. Ne abbiam l' esempio nella Vestale; senonche i balli dell' Autor nostro sono quas' intieramente lavorati con questo metodo. Avevasi a rappresentar qualche cerimonia solenne? In cento atti distinti e successivi era variata una prece comune. Assistevasi ad un avvenimento strepitoso? Chi spingevasi avanti con ordinato disordine: chi traevasi in disparte componendo i lati del quadro, con pittoresca emozione: qua un gruppo di popolari che additavano uno all' altro il fatto: altrove altri lo spiegavano ai meno intendenti. Era cosa in cui potessero aver parte attiva le turbe? Premevano queste, si raggruppavano, si dividevano. Il popolo stesso divenne per colui attor a sè, quasi protagonista. Basti ricordare quel modello di pitture nella lotta degli uomini ancora irragionevoli: il ferigno furore, gli atletici sforzi de' maschi: la rabbia men forte delle donne soccombenti: il trionfar de' più robusti, ed infine di quel gigantesco che divien il primo oppressore: quadro stupendo di nudi, di scorciamenti, d' innate passioni, ma quadro vivo di successioni, parlante poi nella sua musica!

In primo luogo la moltitudine non dee starsi militarmente in fila, nè muover le braccia uniformemente come nel maneggiamento dell' armi. Eppure quest' assurdità sèguita a lusingar la pigrizia de' coregrafi! So che i Greci avevano certe regole per dispor il coro con simmetria intempestiva, ma oltrechè più dell' autorità de' Greci val la ragione, un coro non parlante quale avrà scusa di non serbare imitativa varietà d' azione? In secondo luogo, se ciò è indispensabile, a termini di ragione, il bello dell' arti poi richiede che se 'n ricavi una poesia, dirò così, ed una pittura muta, la quale alletti e faccia maravigliar continuamente l' occhio con aggradevoli arguti dissegni. Quei del Viganò (così esistessero delineati!) erano tali che non so [-243-] quale fra pittori a grande agio disponesse i più belli. Eppure senza modelli, estemporaneamente componeva que' suoi gruppi d' attori d' ogni genere, ond' era pella maggior parte varia e frequente la scena durante il dramma; e quando veniva poi a farli muovere contemporaneamente, trovavansi a perfetta connessione, relazione, contrapposizione, inguisachè nella prospettiva, o nella pianta nulla gli accadea mutare.

          Poesia disse a Pittura:
            L' arte tua sarà compita,
            Se ne' quadri ogni figura
            Abbia moto ed abbia vita.
            E Pittura: Tu vuoi cose
            Impossibili rispose:
            Per me grida la Natura.
            Ma soggiunse Poesia:
            Senza carmi, Salvatore
            Di novelli a l' arte mia
            Vivi quadri fu pittore.
LX. Il coropeo dee avere sortito un ingegno pittoresco, e tantopiù, che quanto al pittore occorra tessere a grand' agio una volta, gli avviene cento volte successivamente dissegnar e comporre. Come il comico autore è quegli che abbia sortita dalla natura certa imitatrice attitudine ad imprimersi nella mente caratteri d' ogni sorta, e quelli poscia rappresentare più vivi che nel vero: il coregrafo così dall' aspetto d' innumerevoli pitture, sculture, disegni avrà succhiate le idee, le figure, le fantasie, che cangiate quasi in nutrimento, gli renderan la mente feconda d' arguti, varj, pittoreschi muovimenti, atteggiamenti, gruppi a pro de' scenici suoi quadri. I Greci, i Greci sono maestri del vero bello ideale. Ho sentito dir a valente Antiquario, com' egli rimase maravigliato al veder nella sacra danza delle Vestali, ed in certo atto di esse, del librarsi sui piè, del curvar le braccia, del sostener alto sul capo le corone vezzosamente, imitata fedelmemte certa bellissima Vittoria di antica gemma; al chè penso Salvatore non avesse la mente, ma piuttosto da par' ingegno, da greco sapere pel lung' osservare tramandatosi in abitudine, gli venisse un simile pensiero.

[-244-] LXI. Dissi coregrafia poetica, e più ancora, imperocchè Salvatore opinava fermamente, che la pantomima esser dovesse, non quella de' Francesi, che chiamerò prosaica, di azione a soggetto ed a piacer dell' attore sopra un dato tratto d' azione; nemmeno quella del Noverre o del Clerico, regolare, ma pedestre; bensì una pittoresca pantomima, fondata sopra certo muovimento in danza, con acconcio piegare, stendere, ribalzar delle gambe, agitar delle membra, e portamento delle braccia. Ciò conviensi all' accompagnamento della musica, e per cagion di questa dirò il coredramma non esser una tragedia muta ma un' opera muta. Posto ciò, alla sonora rotondità ed oscillazione della voce musicale consuona maravigliosamente l' energia del corpo, del passo, del gesto nella corografia, e ben n' è pietra di paragone la comune musica. A questa ragione altre aggiungeva Salvatore, in un colle risposte alle obbiezioni massimamente della scuola francese, unite in una specie di tesi dal Petracchi, da me registrata nella vita del Viganò, alla quale mando i Lettori. Rifletterò però che i passi debbano essere dissimulati nella pantomima, inguisachè il teorico ne rilievi l' orditura, ma lo spettatore ne gusti solo l' effetto. Allorasì che ci accostumeremo colla pantomima danzata, come colla recitazione de' versi, e più relativamente col canto melodrammatico declamato!

La musica divide l' azione del pantomimo in parti granite, come lo stile tratteggiato de certi pittori, l' opera musaica, e il dissegno lineare degl' incisori, cui l' eccellenza dell' artista ridona quasi sfumatura e impastamento. Così la musica distinguesi in note, nè sembra vero. La pantomima specialmente trae grande partito dal lavorìo, e dirò così, analisi delle battute. Tutto è dunque musicale in lei, tutto regolare, tutto teorico. Puossi dunque egualmente insegnare; puossi anche scrivere, permezzo di quadri di abbozzati contorni, e questi tante volte ripetuti quanto le battute musicali cui contiene un coredramma, le quali son molte ma non infinite; puossi eziandio fare di questi quadri un po' di pianta. Tali cose notai, parlando dell' aversi dovuto conservare i balli di Salvatore, nella vita di lui.

LXII. Dopo ciò non è a dirsi, se un dramma tutto a gesti, che chiamerò pantomimodramma, pantomimotragedia, cioè tragedia voltata in pantomima, sia mal genere, sebbene di [-245-] quivi cominciasse l' arte, e si credesse dover per questa via proseguire. Perciò non accade far episodio su questo, che sarebbe all' uopo genere secondario, ma che a' nostri tempi dobbiam giudicar inutile.

LXIII. Dalla rappresentazione squisitamente coregrafica passiamo all' invenzione sublimemente maravigliosa, che a questi mezzi rappresentativi abbia relazione, offra cagione: secondo dei punti onde divisi la materia. Il carattere della corepea, in un tema eminentemente coregrafico, puossi trovar egualmente negli argomenti maravigliosi, e nei patetici. Sarà questo carattere una successione di fatti mirabili, non per materiali maraviglie, il chè si dice essere spettacoloso, ma per maraviglioso accozzamento di combinazioni che scuotano l' animo: e potrebbesi nominar metodo pindarico drammatico. Lo spettacoloso esser un volgare ornamento della drammatica ben dimostrò Salvatore, se nel sorprendimento della mente anzichè degli occhi fondò il dilettamento della stessa coregrafia, credutasi l' arte de' spettacoli. E si vide chiaramente nel Promèteo, annunciato nonplusultra di meccanici prodigi: ma dove questi fecero conoscere l' impotenza dell' arte in ciò, i veri prodigi della maggior porzione coreograficamente drammatica dilettarono lungamente con quel bello che mai sazia. Lo stesso dicasi ne' colpi di scena, sublime parte del maraviglioso. Citeronne tre esempj, niuno tratto dal nostro grande Classico.

LXIV. Il Goldoni non fu certamente buon tragico. Pure nel suo Belisario, questo duce, fatto acciecare in premio delle ottenute vittorie, vien barcolando pelle nuove tenebre; incerto del cammino, s' adagia lamentevole: e dove? furtuitamente sui gradini di quel soglio ingrato cui egli fu sostegno. Pende un solenne ricevimento d' esteri ambasciatori e di complimenti pelle recenti vittorie. Giunge il Monarca con ampio corteggiamento, e nell' andare al suo seggio, trovasi attraverso quell' ostacolo, che più de' piedi, gl' ingombra il volto di rossore. La sua confusione; l' incertezza del Cieco, a que' rumori sorpreso, e mal cedente ai confortamenti di chi vorrebbe pur toglierlo di lì; varie attitudini de' circostanti diversi esprimenti le riflessioni generate in loro da quel avvenimento, formano un quadro tutto per sestesso pantomimico.

Lo Zeno non ebbe generalmente fantasia vivace in un [-246-] genere vivacissimo. Ma nel Lucio Vero, il Vincitore vuol che nel teatro al suo fianco assidasi una Principessa barbara, di cui è invaghito. Cominciano gli spettacoli: quinci da una carcere è sprigionata una fiera, quindi un prigioniero, che dee combatterla o piuttosto perirne. Non così tosto la Donzella riconosce in esso l' amato Principe, che balzasi giù pe' scaglioni, e salta inmezzo all' arena, per farsi, altro non potendo, troppo debole scudo al petto di lui. L' Imperatore, impotente in tal emergente a soccorrerla, traggesi da fianco l' acciaro, e lo getta giù alla Donzella, perchè si difenda: la quale, riccogliendolo, ed armandone l' Amante, fa che salvi entrambo, uccidendo la fiera. Pittoresca invenzione degna della grandezza coregrafica, e d' un Viganò, piucchè di leziosi musici, pe' quali avrà certamente ricevuta una ridicola esecuzione!

Presso il Gioja, Ulisse, rompendo vicino ad Itaca, salvasi a nuoto in luogo solitario di sepolcri, fra' quali riconosce il monumento alla sua memoria, e sdegnato dassi a sfregiarlo. Telemaco, intraccia di naufraghi, vede quello Straniero insultar al nome del Padre, e l' investe colla spada. Penelope sopraggiungendo, mira il Figlio presso a soccombere sotto il braccio di supposto assassino, ed a costui, qual leonessa, s' avventa. Riconosciuta da Ulisse, mal può daprima intendere i costui confortamenti a ravvisarlo; ma finalmente abbracciando in lui lo sposo, a Telemaco attonito mostra l' ignoto Genitore. Mentore intanto a grande popolo che va riempiendo la scena, addita il reduce Sovrano. Il gruppo dei tre iteratamente abbracciantisi trionfa fra turbe attorno bocconi al suolo riverentemente; ed altre figure adornano i contorni del quadro, inerpicandosi, e sporgendosi fra' monumenti, e coronando l' estremo lido. Questo è un colpo di scena composto di più colpi, con incremento successivi, che parlano permezzo degli occhi al cuore: veramente classica invenzione!

Agli occhi maggiormente, ma eziandio alla mente favellano, con prodigi naturalissimi altre due scene nel Cesare dello stesso Autore. Quella della stanza taciturna ov' è introdotto il Dittatore. Ivi poi, allo sparir la tenda dell' alcova, comparisce opposto' spettacolo di luce, di beltà, di voluttà: Venere, cioè Cleopatra, sopra splendido letto, circondata da tutta la sua lusinghiera corte. L' altro è nel [-247-] fine, quando entro scura carcere, cadendo a colpi d' ariete vasto muro, brilla repente alle contratte ciglia l' azzurro dell' aria aperta, e la possanza del sole, che in sua calda luce riflette in fondo sopra la faccia di vasto edificio, e macchine, ed esercito, e il Duce vincitore.

LXV. Tali essere i principj dell' arte loro nemmeno si figurano que' corepei, che dopo il Viganò ancora, al veder una tragedia di cupe passioni cui la forza della dialogata poesia diede vasto campo ed estensione, anzi perfino al leggere un multiplice romanzo, quella credono esser altrettanto atta alla coretragedia, e questo potersi rannicchiar con esse le circostanze secondarie ancora entro il conio del pantomimodramma. Quindi s' affannano a tradur in perpetui dialoghi le scene stesse, i fatti bisognevoli di mille commenti; e più s' affaticano, meno se n' intende, perchè nulla essi han inteso delle forze di lor mestiere. Espongono avvenimenti d' istorie, o romanzi oscurissimi, senza soccorso de' versi, perchè sperano da passioni, situazioni, agitazioni vedute mille volte in teatro far conoscere approssimativamente ciò che particolarmente non s' intende; ed ingombrano così gli animi di astratte commozioni, prive del fondamento e di preventiva intelligenza. Sieno mitologici, eroici, storici gli argomenti, l' arte consiste in una maniera tutta propria di lei, nel trattare colle sue forze ogni soggetto. Intenda chi sogna trar dal romanticismo nuove coreografiche fonti. Al programma stesso vorrebbesi in soccorso una narrazione, da recitare fra le lacune di tempo e luogo.

LXVI. Quei della favola piacquer a preferenza agli antichi, e quasi sempre ai Francesi: allo stesso Viganò giovarono per programmi di preziosa invenzione. Si sa l' avversione de' moderni per questa sorta di poesia; nè dirò che possa omai più trovare nuovità di dilettamento, sebbene sia innegabile una particolar sua relazione col ballo. Il Promèteo però, ed i Titani furono drammi ben superiormente diversi da quelli di Quinnault: drammi di sempre viva importanza, perchè in essi Salvatore ci fece veder i principj del mondo morale, nonchè sotto allegorico velo l' origine delle passioni, de' costumi, dell' arti, del viver socievole; e mostrandosi del pari teologo, filosofo, poeta, pittore, ne pascè d' idee sublimi la mente, facendo, dirò così, le viste d' allettare i sensi. Questa scuola era solo di lui, nè troverà forse imitatori capaci.

[-248-] Varj sono gli stili ne' tragici diversi: e l' idea della vera tragedia, che forse in alcuno intiera non si trova, è in tutti, considerati complessivamente. Il coredramma alcontrario pel Viganò è tale, che nè più bello, nè più buono, nè più completo, nè diverso si può concepire. Fors' anco è questa sterilità del genere, che, come i drammi vocali, non soffre varietà: ma quindi ancora viene maggior merito al nostro Autore, aver tuttaquanta abbracciata, e fino al fondo esaurita quest' unica ma fecondissima sorgente. Egli certamente ad uno sceneggiamento così fra Shakespeare e l' Alfieri accoppiò esposizione da Raffaello e da Tiziano. Ma lunge dall' aver esaurita, come potrebbesi credere, la materia, pensava, dicesi, compor altra coregrafica favola di seguimento al Prometeo; ed avrebbe fatto ciò, e più, perchè gl' ingegni ricchi di fantasia scuoprono intentati mondi, oltre quell' orizzonte, che ad uomini di comune vedere sembra esistere unicamente.

Oh! Autore, caposcuola piucchè altri, e quant' altri classico principalissimo, perchè mai l' arte tua, a cagione di certa sua fatalità, non ti fa conoscere comunemente al pari d' ogni principalissimo ingegno del secol nostro, e, peresempio, quanto un Canova!

          Fra Viganò e Canova dubbia stasse
            Natura a giudicar chi sia maggiore.
            L' un diè favella a i marmi,
            L' altro a l' uom le tolse, onde parlasse
            Meglio co' muti carmi
            Per le pupille al core.
Hacci una maniera di mescolar la mitologia nell' istoria, tutta propria del dramma muto; perchè, oltre al donar così alla drammatica l' intervenimento di facoltà morali proprio dell' epica, supplisce alle parole nel far conoscere le cause delle cose. Nella Mirra veggiamo Venere, sdegnata dell' irreverenza di quella infelice, venir sulla terra, armar Amore; questi in guisa corporea ferire la Donzella: col frutto, che lo spettatore dai fatti rimane persuaso maggiormente che dalle parole di lei: che supporrebbero già sempre idee soprannaturali. Questo intrecciamento de' Numi d' una religione fra noi non accreditata non iscema di verosimiglianza e di pregio, perchè adattato al genere; e mentre [-249-] diletta superficialmente il volgo, dà largo pascolo alle menti pensatrici.

Ma quel Savio, che seppe render così drammatica la mitologia nella Mirra, ommise nella Didone, come inutile, questa che' ogn' altro ci avrebber materialmente conservata, dando così alla sua coretragedia istorico argomento. E sebbene prediligesse il mistico, pure abbiam di lui drammi d' ogni guisa, di eroico, romano o greco, argomento, del medio evo, fino de' romantici e di vera istoria, come predicano alcuni dover essere coretragedia; ma non la sanno modellare in maniera tutta coredrammatica.

LXVII. Dei tre caratteri che aver dee la coregrafia uno rimane ancora, ed è la semplicità dell' argomento, parlante nel proprio fatto. E primieramente un dramma muto convien che stia senza protasi, perchè non può aver narrazione; nè hassi a ricavare che da quegli avvenimenti, di cui la cagione è nella stessa cominciata azione. La disinvoltura italiana, permezzo de' nostri classici nonsolamente, ma eziandio di parecchi secondarj autori, seppe render comune lo scioglimento di quel problema, rade volte superato da' Francesi: istruir l' uditore degli antefatti, senza svelar l' arte, e senz' annojare. Fecero di più: seppero trovare argomenti naturali che non richieggono protasi. Il Viganò rendette necessariamente proprio della drammatica sua questo caso. Quasi tutt' i drammi suoi ne son esempj, nè per citarne un solenne, escludo la generalità della cosa. Nella Vestale nulla è avvenuto all' aprir della scena. Entriamo in una grande città in occasione di solenni feste. Non importa saperne la religione, la nazione, l' occasione: tutto apprenderemo come novello. Una fra certe Vergini sacre, dal lor ministero destinate a pubbliche ceremonie, ed un nobile Giovanetto, segnalatosi in que' spettacoli, s' accendono di amore cui contrastano que' divietamenti, e che hanno per pena i supplizj che formano poi l' intrecciamento, la catastrofe dalla tragedia. Basta questa citazione a convincere coloro che accusano d' oscurità la coregrafia. Puossi con versi far conoscere più chiaramente il tutto e le parti d' alcuna tragedia? E notisi ancora in questa preazione un esemplare di feste, che cotanto impropriamente molti premettono al fatto, perchè non san ove annicchiar le danze; quasichè le confezioni dovessero preceder le vivande: difetto madornale [-250-] in drammatica, perchè assistiamo ad uno spettacolo prima di assistere ad un' azione, nè sappiamo per lungotempo a quale oggetto di fatto siam invitati.

Da ciò si vede quanto errassero lunge dal vero coloro che vollero raccomandata l' intelligenza del dramma muto all' inevitabile programma. Fra' quali Engel dice chiaramente, non aver quest' arte altra speranza per fars' intendere, che di trattar sempre argomenti notissimi; come se avesse altre norme da quelle comuni, ed essenziali alla drammatica in generale; e come se esistesse veramente argomento noto alla generalità, che come tale, deesi ritenere indotta; cheanzi hanno diritto gl' istessi dotti d' essere dal poeta considerati ignari della favola. Il perchè, con tutto rispetto di chi autorevolmente scrisse in altra guisa, non vorrei leggere, peresempio: La morte di Cesare: mentre l' importanza dell' azione consiste appunto nel macchinare co' più efficaci mezzi la congiura, senza sapersi se riusciranno ad espugnar la forza che vuolsi abbattere, e trionfare delle sempre incerte umane vicende: il chè fia scopo tutto improvviso della catastrofe. Un programma è l' argomento dell' azione, che non essendo vocale, ha da essere in qualche luogo registrato. Del restante il coredramma, parlando ne' fatti, dee escludere il bisogno delle parole. Tali erano quelli del Viganò. Gli atti della Vestale ci sono analizzati con poche righe. Non così coloro, che per fare sfoggiamento di novellar boccaccicole, abbisogni o no il componimento di tale sussidio, scrivono quelle cose che un' azion muta non può mai esprimere, e talora nemmeno la tragedia, ma solo l' epica o l' istorica narrazione. È scritto in un di questi programmi: Vile! ei grida, con voce di tuono.

LXVIII. Per far conoscere in qualche modo questa scelta di chiaro soggetto, questa invenzione di maravigliosi avvenimenti, questa rappresentazione di pittoreschi quadri, il miglior mezzo sarà riandar ad esaminare alcun coredramma del Viganò. Fra' mitologici, sublimi furono certamente il Promèteo ed i Titani. In questi l' atto primo appariva tutto poetico e pittoresco per albanesca rappresentazione della beata vita degli uomini nel secol d' oro. Il secondo lo assaliva con opposta ombra, e terribili forme d' enti malnati abitatori del Tartaro, e congiuranti contro gl' innocenti mortali: fantasie emule del Tasso e del Miltono! [-251-] Nel terzo era abbozzato (perchè la tela, e la galleria fu angusta per distendere un tanto disegno) il corrompimento dell' umana razza per la perdita della naturale innocenza; e nel quarto il depravamento di questa razza, fino a sparger del primo sangue innocente la terra: il chè (così permettendo il Fato) può aprire il Tartaro a' costretti fin allora Giganti. Da ultimo vedesi l' assalto dato da costoro al cielo, ridotto però, pella vastità dello spazio e la lontananza dallo spettatore, a ben intonata prospettiva; e finalmente la caduta degli assalitori, e della folle macchina d' accatastate montagne.

Ma questa è materia di poema, ridotta però per l' arte del Viganò a quell' unità d' azione, di tempo, e in certo modo di luogo, che aver non sogliono altri drammi mitologici, benchè di minore e parziale argomento. Consulti cotali temi chi vuol seguire il genere mitologico; per coloro che in maggior numero amano l' istorico scerrò l' Otello, affinchè veggasi, come in tutto tragico argomento le passioni debbano vivere primieramente ne' fatti, ed all' estremo parlar ne' gesti, che però ascondano e dissimulino l' arte.

Nel prim' atto l' azione principale, l' arrivo d' Otello, e accoglimenti pubblici e privati che ne derivano, e le nazionali danze tanto proprie d' un dramma coregrafico, e la multiplicità della popolosa scena, formano una pittura d' evidente imitazione.

Nel secondo la potenza pantomimica tenta i riservati sforzi per trionfar di sue sterili facoltà. Tal è la scena di dialogo chiarissimo, sebbene svolga una trama, che per sestessa dee occultar il vero. Questo è un quintetto come quello nel Tito del Metastasio, ove ad ogni tratto l' azione progredendo, semprepiù si rende complicata fra persone cui un arcano vieta spiegarsi. Ma qui poi la successiva parte, come conviene alla ricchezza a carattere della corepea, mostra in luogo pubblico multiplicità d' intervenienti spettatori, che con pittoreschi atteggiamenti prendono parte all' azione.

Nè men difficile nell' atto terzo la molta scenica materia: e il guadagnar che fa Jago a' suoi disegni la Damigella di Desdemona; e gli avvenimenti dall' Impostore contro lei preparati, che colla loro fals' apparenza la fanno sembrar evidentemente infedele al marito; e il prorompere di questi [-252-] a mal represse smanie, ed al delirio: cose tutte le quali, come molto sceneggiar muto richieggono naturalmente, danno a faticar assai al Coregrafo, perchè non paja inverosimile quanto deesi schiettamente parlare col suppletorio gesto.

Le danze tornano a condir l' atto quarto, e di genere più ricco che nel primo, appunto come l' azione si fa più intensa e grande. Nè solamente naturali, ma con modello veramente raro, tali che da esse nasce l' azion e preparasi la catastrofe, nonchè accordate allo stesso dialogo. Imperocchè, mentre con cagione giustissima si tiene solenne festa di ballo, per la sala consumasi la trama, colla quale Jago conduce Desdemona a dover dare al Marito indizj apparenti d' infedeltà (e tuttociò non potrebb' essere altrimenti che pantomimicamente infra il generale silenzio); onde avvien che alfine scocchi il furor dell' ingannato Marito. E ben naturale che anco ciò succeda meno con parole, che co' muovimenti attivi seguìti da tacita, varia, general confusione.

Nell' atto quinto i soliloqui della trista Desdemona, come tali, amano il genere pantomimico; e gli altri, maggiormente d' Otello entrato tacito nella camera della dormiente. Il lor dialogo poi (sebbene a sì violente emozioni molte cose si convengano espresse senza parole, e sebbene con finissimo avvedimento il Viganò profitasse del lampeggiar continuo, perchè non rimanesse assurdo il gesticolare in luogo bujo) pur è una di quelle parti che richiedettero tutta l' arte del profondo pantomimico Autore, a far un duetto di gesti; e così bene ci riescì Salvatore, che fu delle sue cose più elaborate questa scena, quant' altra mai piena di terrore, di pietà, di verità. L' azione coregrafica, intrecciata con opportunissima distribuzione di danze, termina con un atto di vera tragedia; cosicchè dalla miserevole catastrofe, senza pompa e senza vastità della scena, mediocremente popolata, ricavasi tutto tragico effetto pel cuore, non maraviglia pe' sensi. E notisi ancora che l' ordine del programma, dal Petracchi esaminato nella mia Vita di Salvatore, costituisce l' invenzione d' una favola, che per condotta dell' avvenimento e per giudiziosissimi avvedimenti, può dirsi superar quella d' ogni altr' Otello.

LXIX. Osservate le tre qualità principali che aver dee un [-253-] coregrafico componimento, e propostone un saggio, dicasi di quelli che ne sono ingredienti ausiliarj, come la danza, la musica, gli attori suoi; ma prima di tutto veggiamone la partizione, lo sceneggiamento.

Non dirò che il coredramma non poss' avere scena stabile, ma però difficilmente, perchè spesso aggirandosi sopra pubblici argomenti, e grandi avvenimenti d' azione piucchè di dialogo, rapidamente, maravigliosamente succedentisi, richieggono questi varietà di luoghi. Saranno per conseguenza spesso necessarie le scene dipinte, sebbene non sia impossibile avvicendarle almeno con altre architettoniche o scolpite. Ne vidi alcune di siffatte. Si sa che la meccanica fa piucchè mai prodigi ne' praticabili che richieggono i coregrafi, da cambiar a vista. Siano i cambiamenti di scena quanti gli atti, e non più. Senonchè avvezza la corepea non frappor intervalli, fuse l' una nell' altra regola, eccedendo il numero dei cinque, poco tenendone conto. Ben esaminate le origini d' ambo queste pratiche, ne cesserà la maraviglia. Cominciò il coredramma dall' essere un intermezzo; sollevato poi alle proporzioni di vero dramma, seguitossi così, senza pensarci, anche per la continuata usanza di metterlo ammezzo l' opera; nè si riflettè che nulla contrastava alla debita cautela, di nascondere lo scenario, allorchè deformemente cambiansi le tele a vista dello spettatore, specialmente in uno spettacolo ove cotanto si accarezza l' illusione.

Circa il numero eccedente degli atti, adoperarono i coreografi come tanti drammatici scrittori; senonchè più sinceri, dissero ciocchè gli altri occultarono, ed il loro peccato a preferenza di coloro apparì agl' occhi degl' incauti, perchè non dissimulato, come accade in più gravi cose ancora nell' umane vicende. Càlino essi dunque, come in ogni dramma, la tenda fra gli atti, il che tantopiù è necessario, quantochè ogni volta si suol cambiare la scena. Vidi un ballo del malgenere romantico, nel quale il suo Compositore, a palliare l' incongruenza di non so quanti giorni od anni, che scorrere dovevano fra un atto e l' altro, calava il sipario, lasciando così alcuni minuti di riposo. Nè farassi a pro della ragionevolezza ciocchè pur si potè concedere alla stravaganza? Il coreografo, nè più nè meno che il verseggiatore, faccia di ridurre la sua materia in cinque [-254-] parti, giacchè non deesi a quello estimar inferiore, e richiedere poco onorevole compatimento.

LXX. L' Arteaga, il Rezzonico, ed altri scrittori, copiandosi vicendevolmente, tenàci nella falsa idea: "Che l' opera non si scompagna mai dalla danza, e che il ballo è quasi parte essenziale del melodramma" (parole di quel primo Autore) fino alla noja si divertono a mostrare l' assurdità del coredramma, perchè vengono a ballar, peresempio, inglesi marinaj ove cantarono eroi romani. Come la smania di declamare fa perder il tema del ragionamento! Ed è diffetto di dramma pantomimico, anzichè cantato, e recitato? È risultamento dell' usanza di rappresentar due drammi nella stessa sera. Nè rifletterono que' critici ai tanti casi possibili, de' quali, per non amplificar anch' io declamando, noterò tre soli. Opera con recitazione, come in carnevale al teatro Valle di Roma. Recitazione con coredramma, come al teatro Carcano a Milano pure di carnovale. Opera senza ballo, come è l' uso più frequente oggidì; uso che, senon prevedere, almeno idealmente suppor naturale ben si poteva. Resterebbe un quarto caso: Il coredramma solo, che a molti sembrerà difficile effettuare, ma non sarebbe stato impossibile al Viganò, allorchè reggendo le sorti del teatro massimo di Milano, i balli suoi, non l' opera, n' erano il verace scopo.

Suppongasi che quando apparvero i Titani, la più grande creazione di lui, parto però non formato fuorchè nelle due prime sue parti, un principe invaghitosi di quest' opera, ordinato avesse chiudersi per allora il teatro, e darsi al Compositore tempo, materiali, campo quanto richiedevasi a maturare, compire, estendere l' edificio suo. Quindi regolarsi gli spettacoli del carnevale successivo nella seguente maniera: Su queste massime scene si rappresenteranno I Titani, dramma coregrafico del Viganò. Sarà seguìto da due farse buffe, l' una melodrammatica, l' altra pantomimica. Per secondo spettacolo, Le Sabine (anch' esse con tutto l' agio ricomposte da Salvatore) succedute da due nuove farse coll' ordine delle precedenti.

Ma il modo di servir all' opera, al ballo, al dramma si è che ognuno vadasi a sua posta. Come i commedianti pospongono al dramma la farsa, nè s' avvisano inserirvela nel seno barbaramente tagliato, così dee esser il coredramma, [-255-] unito, e se piaccia, posposto all' opera; ed in questa alleanza sarà lode, con frizzante contrapposito, por appresso un muto spettacolo ad un canoro, mentre sono d' altronde fratelli nella musica comune. Se così si fa in qualche teatro, e tempo, perchè non sempre, ed ovunque? Basti dire, che quando nell' autunno 1835 la Malibran era autorevole sulle scene del massimo teatro di Milano, quelle sole sere ch' essa recitava, davasi tutta l' opera seguentemente, riserbando il ballo dopo. Ora si alleghino quivi le ragioni dell' essersi sempre fatto così, dell' uopo che han di riposo i cantanti, del non voler i ballerini danzar alle panche: ragioni tutte dal prefato esempio confutate! Che se un' attrice volgeva le regole a' comodi suoi, non avrebbe potuto il Viganò, come autore, accomodarle alla ragione, ai vantaggi dell' arte?

LXXI. L' Arteaga vilipende il coredramma eziandio nella sua musica. Mala critica! quasichè la pantomima non prestasse ogni sorta di materia alla musical espressione! Non così Weigl che componendo sotto la direzione del Viganò, pieno d' ammirazione, diceva riconoscere ne' suoi spartiti coregrafici virtù peranco a lui stesso ignote. Cheanzi, contro l' Arteaga, la musica, mercè la pantomima, sale ad un carattere novello, unico, sublime: a quello di tener le veci della poesia; imperocchè in una drammatica muta parla quella co' gesti di questa; il che accade quantunquevolte vivamente esprima le cose; più esquisitamente poi allorchè quello faccia sentire che l' azion muta non vale ad esprimere. A tale sublime uffizio sollevolla parecchie volte il nostro Corepeo, ora con ispartiti fatti scrivere apposta, ora con altri a centone di perspicace scelta, impiegando in essi la propria penna nell' adattamento delle cose altrui, non meno che componendo isquarci di sua fattura, così espressivi, che niun maestro in tali circostanze avrebbe potuto far più opportunamente.

LXXII. Però non approvo queste melopee colletizie, che mal possono aver l' unità d' opere tutte d' un getto, quale dovrebbero, simile a quella de' spartiti per melodrammi. Oltrechè quantopiù belli sono i pezzi di cotali tarsìe, tantopiù note le cave da cui derivano, onde ricordano poi le idee di cose conosciute popolarmente, talvolta opposte, di raro similissime, nè mai di proprietà tale, che ogni secondaria [-256-] parte ci trovi la sua forma musicale. Perciò fia senno non risparmiare quelle spese d' uno spartito, che l' economia, non la ragione può solamente isconsigliare.

Nè solamente de' musicali colori faceva il Viganò sorridere figuratamente di vive grazie gl' imitativi suoi quadri, ma di quelli propriamente della pittura, distribuendoli, con arte particolare, negli attori, anzi nelle masse delle figure in contrapposizioni fra loro. Della quale pratica eziandio vuolsi raccomandar l' imitazione, ma nel tempo stesso che si sfugga quella leziosità troppo generale, di vestir le schiere d' individui con abito comune, come fossero divise di altrettanti reggimenti. Il chè tantopiù è stoltezza nella coregrafia, la quale può distinguere i cori con individuali azioni. Tre cose in essi debbono andar di pari nella varietà individuale, qualunque, più e meno, sia il genere drammatico, cioè: varietà di parlari, varietà di atteggiamenti, varietà di vestiarj: quando particolari ragioni non richieggano farsi altrimenti.

LXXIII. Se il corepeo ha collega il musicografo, ha ministra la schiera de' ballerini, o pantomimi, con rozzo vocabolo di mestiere chiamati ballerini per le parti. Nè meno improprie parole, benchè vadano su tanti fogli e libri, sono Mimi, e Mimica, quasichè non si potesse dir Pantomimi e Pantomimica, senza bisogno di confondere due arti presso i Greci separate. Conciossiachè i mimi erano attori, i quali quanto declamavano contraffacevano con certa pantomima, scurile così, che aveva indotta infamia su coloro che la esercitavano: la qual arte inutile, secondo le nostre idee, giova perciò che sia ita in dimenticanza. E nemmeno parmi sanamente detta mimica l' azione drammatica, compagna delle parole, perchè questo semplice naturale gestir è ben lungi dall' artefatta, simultanea o successiva contraffazione de' greci mimi.

La pantomima non ha scuole. Se si è cominciato insegnarla, consiste questa palestra in sostanza nel semplice sgrossare la materia, e render i giovani atti a ricevere i veri ammaestramenti del corepeo, che sono la pratica stessa. Il compositor del ballo insegna battuta per battuta con impreteribili atteggiamenti la parte ad ogni attore, il mestier del quale, oltre all' essere, almen mediocremente, danzatore, consiste nell' aver attitudine a rifarla, con [-257-] quell' artistica evidenza, che il maestro materialmente, e virtualmente gl' insegna. Il valor d' un pantomimo consiste in dare vita ed espressione agli atteggiamenti del corpo e del volto, l' invenzion drammatica de' quali non è menomamente sua. Da ballo a ballo niuna cosa rimansi presso di lui delle rappresentate parti, perchè nulla può senza il compositor ed i compagni. Dell' insieme d' un coredramma non è anzi egli nemmeno spettatore, nè conscio talora. Il pantomimo insomma fia come l' incisore, cui non iscema pregio non esser inventore del quadro, e nemmeno non aver fatto quel dissegno, che solo il tradurre ne' segni pastosi di fino bulino è per lui somma virtù.

LXXIV. Non si può parlar dell' età del Viganò, ch' è l' età del coredramma, senza mentovar la Pallerini. Nacque costei con attitudine straordinaria pell' arte; attitudine però che sarebbe rimasta inutile ed occulta, quando l' arte stessa non fosse stata creata dal Viganò ne' tempi appunto che la Pallerini fiorì. Egli trovò nel marmo i contorni di greca idea; trovò pure la favilla vitale cui seppe suscitare. Ma come abbiam veduto, il comporle i caratteri era tutt' opera del Corepeo. E tanto si valse di lei, che il personaggio della prim' attrice fu sempre l' anima de' suoi coredrammi; sebbene piucchè per alcun altro autore, piucchè in qualunque altro genere, ne' drammi di Salvatore fosse solenne l' universale accordamento d' infinite parti ad un complessivo evidente effetto. Nessun attore o attrice in qualsiasi drammatica facoltà ebbe così lunga, completa, preponderante serie di scenici trionfi, ove si considerino le circostanze loro. La Pallerini, relativamente al teatro del Viganò, va noverata fra i Roscii, gli Esopii, i Garik, i Talmà, le Siddons, le Pasta, le Malibran.

Fu eccellente attor pantomimico con essa Nicola Molinari nelle parti patetiche, nonchè nelle fiere; ed in quest' ultime specialmente Costa nella sua prima maniera, Bocci, con altri pantomimi e pantomime, de' quali parlai più diffusamente nella vita del Viganò.

Se brevemente degli attori, più diffusamente favellar dovrei degli autori coredrammatici, fra' quali tiene un singolar seggio, sotto il Viganò, Gaetano Gioja. Ma ripeto che perciò, e per tutt' altro rimando i Lettori alla mia vita del Viganò, e specialmente pella descrizione de' coredrammi [-258-] di questo Autore. Ho tentato trarne le regole principali dell' arte; ma stavasi questa tuttavia nell' opere di lui, viva e intiera, nè però facile ad essere ritratta; ed alcuni morti contorni se ne conservano nel mio libro. Il quale, solo essendo di tal genere, finchè in un migliore venga meglio adempito il suo scopo, esser dovrebbe la grammatica de' corepei; e perciò nessuno d' essi volle farne l' acquisto, sebbene parecchi semplici Ballerini, per venerazione al loro gran Maestro, godettero non esserne privi.

LXXV. Le danze altre sono necessarie all' azione, o del carattere suo, altre, dirò così, di recreazione. Le prime, quando vien data naturalmente occasione a qualche festa di ballo, il chè accadrà o per industria del corepeo, o per analogia d' un fatto scelto, naturale al danzare. Eccellenti son quelle da cui nasce l' azione, o la sua catastrofe. Vidi un ballo nel quale solennizzandosi con danze certi sponsali, lo Sposo danzando accendevasi d' altra donzella. Così nuovi sponsali davan campo ad altra festa nel mezzo. In fine nella danza nuziale i parenti della prim' abbandonata sposa mettevano una mina sotto il palazzo. Gelavano gli spettatori di quelle liete carole, consapevoli che a momenti l' infido pavimento dovea cambiar in lutto cotanta letizia. Il Viganò fu nonsolamente maestro in ciò, e più, per una regola sua d' introdur sovente danze proprie di quella nazione, di quell' azion' esclusivamente.

Ma que' duetti di carole squisite, quante mai n' abbia la Senna, sono gemme fuor di luogo. Dicasi pure satiricamente: ballo dove non si balla! Rispondeva il Viganò: In tutt' i miei coredrammi si balla da capo a fondo, essendo in danza la pantomima stessa. Però in alcuni, come il Promèteo, in qual guisa annicchieresti unpas-de-deux? Abbiam veduti i veri caratteri de' subbietti nati alla coregrafia. Possono combinarsi questi caratteri eminentemente, nè darsi caso in tutta l' azione di far una carole, che s' introdurrà talvolta facilmente in un melodramma, in una tragedia. E infatti usano i Francesi nell' opera una festa di ballo, come noi nel coredramma. In tutti però il carolare dà luogo nè più nè meno alle stesse incongruenze. Imperocchè altra cosa starsi a veder ballare, altra esser ammessi alla rappresentazione d' uno scenico avvenimento, in cui possono esser danze, ma l' arte dee moderarle, onde [-259-] non dimentichiamo il fatto per Monsieur e Madamoiselle, che con interminabile lacuna facciano dileguar tutta l' illusione. Eccezione sarà quando se ne ricavi un ripiego a riempir lacuna naturale. Nella Vestale il ballo di due schiavi rallegra un banchetto, che senza ciò in dramma vocale sarebbe innetto, e inverosimilmente affrettato. Altrimenti il pas-de-deux si confini nel ballo buffo, ovvero, pongasi per intermezzo fra spettacolo e spettacolo. Non è nuovo il caso. Nel carnevale 1835 in Milano alla Scala, piacendo poco que' ballerini, furono esentati dal ballar due volte. E notisi che restando le danze al ballo buffo, ne andò senza il serio. Il quale non aggradito, perchè di poco valore, può ciascuno immaginarsi come rimanevasi tutto pantomima solamente. Che se veniva tollerato tuttavia, cosa sarebbe accaduto d' un eccellente ballo del Viganò, esclusane solamente, perchè inopportuna, la coppia de' danzatori francesi? Mi ricordo ancora d' un caso de' due intervalli fra i tre atti dell' opera, riempiti una dal coredramma, l' altro dall' estrattone pas-de-deux.

LXXVI. E poichè sono entrato a favellare del ballo comico, ne seguiterò il discorso, e riprenderò dopo quello della danza, o in sestessa considerata, o comune ad entrambo i generi, accessoria nel melodramma, senza essere drammatica.

Non è meno dell' opera buffa difficile per ardua tenuità il ballo comico, povero perciò anch' esso di cultori, che l' abbiano governato fra una malintesa comunanza col gran genere, ed una pedestre trivialità. Esaminiamo fino a qual segno la corepea eziandio possa ristringersi e contenersi fra' limiti angusti del socco.

LXXVII. Essendo questa una viva pittura, può abbracciar ogni subbietto. I pubblici avvenimenti, ma di moderno argomento, e de' quali ommisi parlare trattando del ballo serio, i comici tutti, ed i domestici temi non dirò improprj del coredramma, come diss' improprj del melodramma, perchè in quest' ultimo non si può creder sul serio che uomini de' nostri giorni vivan cantando. Ma possiamo ben vederli agir e non udirne le parole. Però accadrà in argomenti di pubblica importanza, di multiplice azione, di vasto luogo. Non così di leggieri nella commedia che si passa fralle domestiche pareti. Oltrechè [-260-] la commedia vera, più ancor della tragedia, diffondesi a molte parole, opportune a svolgere lievi, e lunghe controversie, caratteri varj solo per particolari costumi non per accese passioni, e si adorna di festivi sali ond' è fiorito il mutuo conversare: la commedia, dissi, non è certamente atta ai pantomimici mezzi del dialogare. Ne vien dunque, che per altra ragione, ma per eguali effetti, la coregrafica favola debba essere anch' essa buffa non comica, e debba appoggiarsi all' indulgente convenzione di mera finzione, per trarne solazzo, anzichè alla supposizione, che vien a mancare, di azione spesso grande che accade in grande spazio, a noi remota, e della quale il più non si possa senonsè vedere. Un altro limite più stretto mi sembra che costringa il balletto entro angustissimi limiti, quali quei della farsa. Imperocchè nonsolo piacevolmente lieve dee esserne il subbietto, ma eziandio corto il più delle volte, quindi commedia breve, o come suol dirsi, burletta.

LXXVIII. Qui però battono ad uno de' soliti scogli gli autori, perchè vanno a prendere farse, per tradurle dalla prosa in pantomima, emuli de' loro colleghi maggiori, che voltano i versi delle tragedie in gesticolazione. Oltre al solito errore di non aver mai favole del proprio genere squisitamente, giacchè inventate per altri mezzi d' esecuzione, mettono una riga di separazione fralla pantomima e la danza, che non fan punto presa fra di loro. Tu vedi gente che va, e viene, e se la discorre in gesti, senza motivo, de' quali capisci solamente il significato perchè hai udita recitarne a' commedianti la farsa, e tuttociò al suono d' una suonata nojosamente ripetuta, con relazione forse di misure, ma niuna di scenica espressione successiva; e finalmente, allorchè pur termina questa favola (troppo brev' e troppo lunga ad un tempo, perchè quinci storpiata, quindi caricata di lazzi sguajati e generici), ed allorchè nulla più resterebbe a vedere, si cambia tela: siam in un giardino: pastori e pastorelle, stranieri all' azione precedente, cominciano una serie di danze, le quali con ordine perfettamente inverso, tanto han chè fare colla commedia, quanto la pantomima de' saltatori colle funambule danze, cui tien sempre dietro. Altri compositori poi mettono sulle scene azioni che non son tali, ma brevi, plebee, insulse inezie.

Il balletto dee avere per norma principale quella che [-261-] assegnai ad ogn' altro genere maggiore. Il corepeo, vero compositore, inventi l' argomento, se vuole averne dalla stessa sua mente creatrice altrettanto efficaci e proporzionati mezzi dell' esecuzione: quindi stretto rapportamento della pantomimica suppellettile colla natura della favola. Sarà così naturale per quant' occorre, ma soprattutto gustoso lo sceneggiamento muto; e non fia difficile ciocchè vuolsi raccomandato di ricercare, che le danze succedano spontanee, importanti, nè comincino consumata l' azione, ma entro essa, e in più d' un luogo ancora, se fia possibile, distribuite.

LXXIX. Dee poi tutta la pantomimica esposizione non essere pantomima corrente, nè musica perpetuamente ripetentesi, ma quella coregraficamente pittoresca, come il metodo del Viganò, ed essa elaborata nella guisa di continua, fedele, variata espressione d' azioni suscettive di musicali dipinture. Nè solamente la pantomima de' principali attori sia piena di continui colpi di scena comicissimi, che ricopiino quelle bizzarre combinazioni cui la giuocosa fantasìa sa esagerando attinger dal vero, come nell' opposto genere abbiam detto de' grandi colpi di scena ne' patetici avvenimenti, ma eziandio la scena sia a quand' a quando popolata di quella moltiplicità e varietà de' personaggi subalterni, e spettatori, che anche coi comici fatti possono combinarsi, a trarne variato effetto di pittoresca evidenza e dissegno. Non si tema che accada qui la goffaggine de' cori nell' opera buffa, in cui un branco di servitori, o di vicini parla una stessa favella eroicamente, perchè qui, dissi, è spontanea nell' azion muta la varietà.

LXXX. E mi conviene mandar egualmente i compositori alle pitture che in gran copia si hanno, massimamente del genere così detto fiammingo, ch' è genere poi di tutt' i paesi, e le scuole italiane ne son ricchissime: e consistente in una esagerata espressione degli atti e de' sembianti, che specialmente a vulgar subbietto accresce vita ed evidenza. Nè ciò solamente, ma la maestra de' pittori Natura offre di prima mano al pittor corepeo in questa parte ancora suoi vivi quadri infiniti.

LXXXI. Il Viganò, sebbene a questa minor parte non applicasse altrettanto, pure fu leggiadrissimo in alcune sue farsette, sempre poi dipintor armonissimo, e felice nell' innestar [-262-] naturali le danze. Ma soprattutto nel suo Noce di Benevento accoppiò felicemente in lunga, ed anche troppo lunga azione la bizzarria dello stil fantastico, la vivacità del coregrafico sceneggiamento, l' allegoria delle fiabe, l' evidenza della musica. Il Clerico, colla sua Famiglia, nella prima età, rappresentava farse del buon genere. Il Gioja, sebbene molte ne traesse dai repertorj de' comici, fu in altre assai lodato. Ma Luigi Henry particolarmente segnalossi nel metodo, dirò così, del Viganò, applicato alla coregrafia dello socco: egli che perfino nella sua Festa di ballo con maschere introdusse in un finto veglione infinità di oggetti, da osservarsi per molte sere, e caricature di misteriosa satira giovenalesca: il tutto perfino non disgiunto a certa specie d' azione.

LXXXII. A me non s' appartiene parlar della danza nella sua composizione, piucche della musica non applicata; perciò mi rimetto in questa parte agl' istitutori suoi. Nè calmi filosofare, se quello di tutta l' Europa oggiddì, onde son principali maestri i Francesi, sia il ballo per eccellenza. Quest' arte, di convenzione nelle sue teorie come la musica, non acquista poi nel suo effetto la facoltà imitativa de' modelli nella natura, quindi niun dovere di uniformarsi a quelli. Indulgentissimo, concederò che quanto in essa più piace sia sempre il migliore. Lungi dunque le indagini, se nelle sue vicende di moda sia da preferir l' antico arduo lavorìo de' taglienti passi a quella leggiadria di muovimenti, co' quali la danza sembra oggiddì sorvolare tutte le scuolastiche difficoltà.

Sol osserverò cosa relativa il suo intrinseco, non le successioni sue. Ne' duetti di danza la femmina si compone in dipinti atteggiamenti, e sostiene gravemente i passi. Quando il maschio, che contr' ogni galanteria, e per incomprensibile abitudine, si riserva in fine, subentra ballare, scatenasi a ribalzare con saltanti e rapide capriolette. Diresti che colei balla serio, e costui di mezzo carattere, o almeno che si sono divise le due parti del componimento, cosicchè l' una fa il grave, l' altro l' allegro. Dicono i maestri, che s' imita con ciò il doppio carattere, quinci della modestia nella donna, quindi d' ardimento nell' uomo. Ma ho alcun dubbio contro questa maniera di caratterizzarli mentre la gravità è virtù tutt' altro che [-263-] all' uomo straniera; e in arte specialmente non mi sembra doverlosi condannare ad una specie de ballo che sente dell' inferiore.

Considerandosi la danza in sestessa, non è tragica nè comica, come quella che non ha concetti, nè li suppone, come la musica. Pure una certa maniera di convenzione, troppo facile ad impararsi, classificherà i passi, gli atteggiamenti, la compostezza cui deesi a quelle caròle che sono destinate alla coretragedia, ovvero al balletto.

LXXXIII. La danza dell' arti teatrali men poetica, è forse d' ogni bell' arte la meno nobile, come quella che tien manco dell' espressione parlante alla mente, e perfino dell' imitazione. È anzi arte, a mio intendere, prima da esercitarsi, che da vedersi: cosicchè fia più utile dilettamento ballar mediocremente che veder ballare splendidamente. Al chè s' adireranno coloro i quali trattandone, con istoriche citazioni, fecero panegirici. Ma si sa che ogni didascalico si fa prima panegirista, per dimostrar la sua essere principalissima fralle professioni. Pur una dee esser ultima, e se non vuol esser tale l' arte de' piedi, dica essa quale altra tacendo, lascierassi mettere sotto di lei. Nè solo i grammatici della danza, ma gli spettatori sogliono spessevolte ricrearsi indulgenti al contemplare un carolar mediocre, e annojarsi, severamente censurando un melodramma od un coredramma, importanti maisempre nel loro vasto, ancorchè mediocre componimento. Ma giova a svogliati appetiti masticar confezioni, e spesso mangiar acerbe frutta, legumi amari, anzichè nutritive ben cucinate vivande. Ne' drammatici poemi non va mai disgiunto il piacere da certo studio e applicazione, tantopiù, quanto sono maggiormente gravi e imitativi. L' uom non è indulgente giammai con chi voglia non richiesto istruirlo, qualora il faccia menchè squisitamente. L' arte del ballo è la più lontana da istruzione o imitazione. Dolce si è, oziando sugli scanni, starsi a veder lusinghieri scorci, e sforzi che fan maravigliare gratuitamente. Oltrechè non sono scompagnate le danze da certa voluttà, o licenza fra' sessi, il promiscuo vezzeggiarsi de' quali forma l' essenza del ballare. L' amoreggiare, che senza fine legittimo è difetto, il quale rend' effeminata la favola drammatica d' ogni genere, da parecchi autori sfuggito, in molti altri ripreso, e dagli ammaestratori proscritto: [-264-] questo amoreggiar è sempre l' oggetto apparente d' ogni carola; accompagnato da tale libertà negli atti, che corrisponde alle parole licenziose delle antiche commedie.

LXXXIV. Aggiungasi un cieco abuso nel vestire, passato in uso così, che non s' estima dover in questo genere proscriver ciò che in altre cose moltomen licenzioso si proibirebbe severamente. Chepiù! fino la ragion d' imitazione, che basterebbe qui a far le veci di moralità, viene sacrificata ad una supposta necessità d' arte, ch' è veramente assurdità inveterata. Il ballar quasi nudi, esponendo all' arbitrio del vento le poche lievi diafane vesti, si fa nonsolo infaccia di costumato uditorio, ma nelle rappresentate reggie, piazze, pubbliche adunanze di supposti popoli che non sono Zingari, e perfino di quelli fra' quali le donzelle van condannate a rigorosissimi vestimenti. Ed a chi addentro estima, cotal imitazione di vestire, pella verità non è sufficiente, mentre a danno del pudor è eccedente. Dicono tuttavia certuni con autorevole legislazione teatrale, che una modica tolleranza è necessaria pelle operazioni della danza. Quasichè le foggie più attillate e strette sieno maggiormente comode delle molli e larghe! quasichè le gambe non possano spiccar capriole quando sieno vestite di succinto calzone anzichè di maglia color della pelle? Ma soggiungerassi che il giuocar artificioso delle membra non si vede altrettanto bene. Rispondo che la danza nel dramma è imitazione de quella che fassi nel vero, dalla favola imitato. E dov' è che nella società espongasi alcuno a spiccar salti nudo sotto misere vesti? La danza è forse un' accademia del dissegno? Dicasi piuttosto che si vuol abbellirla di quanto s' ammira nella scuola del nudo, che non è però spettacolo, nè di pubblico accesso. Nella pittura si riprende severamente la nudità, massimamente fuor di luogo introdotta, per maggior pompa d' arte, di virtù nell' autore: quindi biasimato in ciò quel prodigio della scoltura, il Laocoonte. La drammatica ha anche più severe leggi: evitarsi perfino gli argomenti ov' è necessaria la nudità, o donar alla ragion del vero la ragion della pubblica modestia. E nella danza drammatica si sacrifica il vero alla pubblica voluttà! Ma mi maraviglio che danzatrici, parecchie costumate figlie, o mogli oneste, sacrifichino in parte l' innato pudore ad una finta nudità, ch' è già mezza strada della vera. Cecita, [-265-] effetto di possente abitudine, cui si accostuma senz' avvedersene! Supponiamo che la Taglioni si ricusasse a quanto in questa usanza nuoce alla verecondia senza giovar direttamente all' arte sarebbe perciò meno la Taglioni, prima ballerina europea? sarebbe meno applaudita? sarebbe meno pagata? sarebbe ricercata meno, a preferenza di qualunque altra?

Sembrerà lunga, e forse troppo episodica questa digressione, ma zelo del teatro me la dettò; il quale ha tanti nemici, che attribuiscono a sua mala natura ciocchè abuso, e può diventare, oppostamente operando, virtù. Solo nella danza, senza possibile utilità è innata voluttà; e negl' introdotti vestiri è indecenza, non necessaria, ed assurda eziandio.

LXXXV. Allorchè al sublime dilettamento, che dee porgere una tragic' azione, sia poi cantata, o rappresentata, vadino avanti i non drammatici, non mentali piaceri, di vagheggiar l' arguto lavorìo di due volubili gambe, i molli scorciamenti di voluttuose forme, e soprattutto le moine in arte di famosa danzatrice, in cui tengon immoti gli occhi attoniti silenti spettatori, facondi solo a quando a quando di sdulcinati epigrammetti, allora è segno infallibile o di svogliato gusto negli uditori o di tempi falliti ommai delle teatrali più elette dovizie. Questo pensiero era nella mia mente non ha molto in occasione che sovra massime scene, per massima circostanza, il buono e l' aggradevole, fra l' opera ed il ballo, restringevasi a' danzatori; il che sarebbe come in un convivio di sciapite pietanze di deboli vini, tutto ridursi a finissime confetture, anzi nemmeno a queste, sibbene ad una portata di odoriferi zigari dell' Avana, con cui coronansi oggiddì certe mense galanti pour la bonne bouche.

Tuttavia dalla mia opinione mi fece poi ricredere un altro avvenimento, a cui pienamente mi rassegno, ed è il seguente:

          Fallito era il Parnaso, e nuda gìa
            Euterpe, con Melpomene e Talia;
            Sol per comun salute,
            Restavan le febee bell' arti mute.
            Mademoiselle Tersicoré monsieur
            Pegasus balleranno il pas-de-deux,
[-266-]     A total benefizio
            D' un vergognoso di Falliti ospizio.
            E sonnacchiose logge, e vacua arena
            Al grande annunzio innonda immensa piena.
            Quinci de l' uno aerei salti, audaci,
            Quindi de l' altra i molli atti loquaci
            In pinte membra a facil voluttade,
            Ma più quello che ogn' or vergin Beltade
            Tributo a' cori impera,
            Destan procella impetuosa e fera,
            Che per tutto si spande, e 'l lume involve:
            In folta pioggia d' oro al fin si solve.
            E non è maraviglia,
            Se poesia, già de' la mente figlia,
            Scesa al talone, e tutta ivi raccolta,
            Favella a la ragione un' altra volta.
LXXXVI. Tutto passa quaggiù. La società riproducesi con imprevedute risorse; ma talor anco volgon per lei lunghe età di sterilità ostinata, e spesso allorchè l' istruzione, il coltivamento delle arti dovrebbero rendere i campi più fecondi. Trascorsero a' nostri giorni, per non riascendere ai più antichi, e le giocondissime buffe recitazioni della Gafforini, e le moltiplici prove che fece gustare agli stessi Milanesi quel Roscio del melodramma, Galli. Trascorsero ivi, come impetuoso torrente, gli altissimi trionfi del Viganò, raro prodigio dell' umana mente creatrice. Risuonarono ovunque le melodie, l' armonie del Rossini, pròvidi soccorsi contro qualunque carestia di cantori e attori capaci a sostenersi Marte proprio; e tacque egli finalmente, imponendo a sestesso immemore silenzio: vaghezza d' umana mente! La Pasta, la Lalande, la Malibran frattanto in paese straniero imparavano l' arte istrionica, e facevano veder ai filarmonici che la musica dee esser, e può essere ancora, la secondaria parte, nel suo accoppiamento colla drammatica poesia. Il giovin melopeo Bellini con egual intendimento veniva offerendo melodrammi, ove all' abilità di queste Attrici fosse largo e non impedito il campo. Giovane infelice! il suo canto dolcissimo fu canto del cigno. Quelle valorose Donne compiron, o vanno consumando la lor carriera, nè men innoltrata è quella d' alcuni altri pochi superstiti attori cantanti.

[-267-] Tutti sogliono piangere la sterilità de' lor tempi, desiderar la copia de' precedenti. Ma s' egli è pur certo che puossi dare tal penuria, è dessa presentemente verace, o m' inganno! comechè altri la lamentasse prima del tempo. Vedemmo già come niuno stil novello abbia oggi la musica, niun metodo che non sia timido e incerto fra il rossiniano ed il belliniano, niun nuovo pensiero fuorchè in apparenza, onde spesso accade pronunziare ciò che si disse d' un tale:

          Oh quanti, oh quanti viva
            A la tua nova musica! S' udiva:
          Viva Marcel! Mozart! viva Rossini!
            E viva Paisel! Mayr! Bellini!
Alla vacuità intrinseca tale si pensa supplire colla copia esteriore, oltremontana o no che sia, distruggitrice certamente d' ogni senso verbale; onde ritornando a quel caso cantato nel primo libro, osserverò che Virgilio ebbe a dire presso il suo libero Traduttore:
          Era notte e piovea: de' lo spettacolo
            A l' apparire il nembo, oh gran miracolo!
            Cede la piazza, e il ciel si rasserena.
            Co' l' opera novella
            Si son divisi il tuono e la procella
            L' impero de' la scena.
Purtroppo sembra decretata una futura carestia, che si palesa alla nullità de' sforzi che pur fanno tanti Iniziati, pieni di bell' amore di gloria! Ma poi si torna a rimettere in iscena qualche vecchio componimento del Rossini, e del Bellini, o qualche nuova opera del Donizetti, o di nuova salsa condita.
          De' Maestri lo stuol, che dopo un saggio,
            Se ne va giù per Lete a buon viaggio,
          Solo ha una speme per produrre effetti:
            (Sia vana ogn' or)! che moja Donizetti.
È universale l' indifferenza oggidì pel teatro, dopochè tante [-268-] volte fummo delusi di sperata nuovità. E perchè giova sul finir dell' opera ricreare, come dopo il lungo cammino con rinfreschi e confezioni, co' versi, dipingerò que' tanti naufragi, onde ridondano le novelle della seconda sera di Natale.
     IL GIORNO DOPO UNA PRIMA RAPPRESENTAZIONE

   Con prove inespugnabili il Mastro di cappella,
     Quelle ch' è suo naufragio appone ad ogni stella.
   La prima Donna, dubbia nel doppio suo malore,
     Quinci si volge al Medico, e quinci al Protettore.
   Sul palco il Coreografo i ballerini aduna,
     E fa con tagli orribili ne' l' opra sua lacuna.
   In tanto l' Impresario i prezzi tutti abbassa,
     Onde al partir più agile all' uopo sia la cassa.
   Cento leggiadri Spiriti al caffè tutti insieme
     Declamano, e si vendicano di lor tradita speme.
   Ma i Giornalisti, impavidi, mille di vento gonfi
     Fanno volare articoli: Palme, furor', trionfi!
   Tal dopo gran battaglia misto il campo si mira;
     Chi fugge, o insegue, o appiattasi, chi giace al suol, chi spira.
   Qui tagliar gambe e braccia, là seppellir gli estinti.
     Pure d' Ambrogio cantano l' inno perfino i vinti!
LXXXVII. Ben si predilige il metodo tragico, ma con quale copia nelle creazioni, con quale forza nelle esecuzioni? Le cantatrici, che ne' posti rimasti vuoti si sono cacciate avanti, a chiamarsi le principali, coltivano la forza della declamazione; la coltivano altresì le subalterne; ma richiedesi prima originalità. Null' altro è restato in rettaggio ad esse de' veri modelli loro, che le introdotte paghe esterminate.

Alcuni si dilettarono istituir declamazioni su questo inconvenevole abuso di tributare a chi professa il canto que' stipendj de' quali non sono rimunerati a proporzione uomini ch' esercitano ben più sublimi, ben più vantaggiose virtù. Io non sono d' umore d' adirarmi, massimamente che mi converrebbe prima trattare i seguenti temi. Quando fu che il valor dell' umano ingegno si regolasse coll' utilità? Chi lo possiede ha diritto di metter all' opera sua quel prezzo che vuole, nè fu mai stabilito in cose che per prezzo [-269-] non si possono conseguire. L' arti d' invenzione non han diritto di porsi sotto a' piedi quelle dell' esecuzione. Immense sono le memorie che l' istoria conserva di smisurati premj accordati dagli ammiratori agli artisti.

Senonchè può dirsi veramente, alla Pasta, ed alla Malibran essere stati deliberati mille fiorini ogni sera che recitarono? A me piace con un paradosso dir la loro mercede d' un fiorino, chè tanto pagavasi per esser introdotto a' loro spettacoli. Ma perchè mille persone erano vaghe di goderne, ned era giusto che venali appaltatori fruissero il premio degli artisti, ne veniva di conseguenza che quelle sapendoselo, chiedevano esse quanto l' impresario pel lor merito avrebbe lucrato. E non si paga forse altrettanto per veder un quadro, una statua? Senonchè quell' ammirazione riman tutta negli occhi, e passa indi alla mente. Lo spettacolo d' una drammatica rappresentazione m' empie propriamente le vene, il cuore, la fantasia; e se nel guardar un quadro penso che veggo tesoro altrui, nel partir dal teatro parmi portarne tutto l' effetto, quasi dato a me solo, ed a nudrimento del mio spirito. E perchè poi non declamasi invece contro chi con un violino, con un pajo d' agili gambe rapì ben altri premj, ed eco interminabile d' ammirazioni: cangiato così l' ordine delle cose, e dandosi più onori alle parti subalterne che al complessivo? I drammatici recitanti oltremontani per lo conrario son pagati come i cantanti nostri. Ma quando questi sieno veraci attori, non possiedon essi un' arte doppia? non uniscono alla drammatica una facoltà più scientifica? nè rinunciano perciò alla facoltà di muovere gli affetti. Allorchè io vado al teatro per ben degna cagione, non grido come tanti: furore, per l' attrice o pel cantore, sebbene il canto coll' invincibil sua possanza ottenesse sovente premj immensi; ma intendo andare a udir l' Alfieri, il Metastasio, la musica d' eccellente melodrammatico compositore; de' quali però l' opere sublimi furono tacitamente create non a piacer sole; quindi chi ad esse dia perfetta commuovente l' esecuzione vien a farsi ministro dell' intenzione di quelli autori, e confondere l' opera sua nell' opera loro. Se queste cose avessero ponderate prima i declamatori, si sarebbero avveduti che dov' è molta declamazione perlopiù non è ragionamento.

[-270-] Riflessioni assaipiù di fatto richieggono, a mio credere, i nostri tempi, ne' quali, passato ad ogni maniera il supremo valore, è rimasto l' abuso dell' enormi paghe ereditate da chi non ha classiche virtù. Quindi farommi ad esaminare se potrebbesi per l' una parte por riparo all' esorbitanza de' prezzi, per l' altra fecondar quella penuria, da cui minacciati sembrano i teatrali divertimenti, ove non sieno affatto sterili d' influssi delle costellazioni. E con ciò concluderò la già esaurita mia materia.

Ma prima di fare appendice agli Ammaestramenti, parlando da ultimo della educazione musicale, piacemi riprodurre con queste stampe un mio componimento, che come infine si riferisce a tale educazione, nel suo principio fa quasi epilogo all' opera, o almeno è poetica ripresa di quanto ne' libri addietro fu diffusamente trattato.

            A MELIPSELO

                ODE

         Il pungolo satirico
           Oggi depongo, e l' ira,
           E tempro al mio Melìpselo
           Di lode in suon la lira.
           Non sempre il Dio di Licia
           Ne' germi Niobei
           Volge, e nel rio Piton gl' infetti calami,
           Ma spesso illustri e bei
           Nomi è suo vanto a l' aureo plettro unir.
         E tu, Flacco, pampineo
           Tirso così brandisti,
           Co' carmi acuti e liberi
           Guerra movendo a i tristi;
           A Mecenate e Cesare
           Bel serto in Dirce colto
           Poscia tessevi. O mio protervo genio
           In fondo al cor sepolto
           Sta, nè, dicace, il fausto inno impedir.
[-271-]  ...............
           ....
         ...............
           ....
         Perchè più presto a nascere
           Non eri, o Melipsèlo,
           Quando vestia sul Tevere
           Quel Grande umano velo,
           Che a te Catoni e Atilii
           Creati avrebbe! Oppressa
           Or giace poesia: prevalse musica,
           Che in brev' ora sè stessa
           Sotto soverchie spoglie oppresse ancor.
         Minor sorella, docile
           Dovea seguirla ancella,
           Crescerle fregi e grazie,
           Ma insorse al fin rubella.
           Fer eco a l' illegittimo
           Trionfo rauchi bossi,
           E brevi tibie, e immani tube, e barbari
           Sistri acuti, e percossi
           Timpani con lunghissimo fragor.
         Da l' odiate selici
           Se sprigiona Eolo i venti,
           Che a l' ocean precipitano,
           Urtandosi frementi:
           Il sibilo del turbine,
           Il rimbombar del tuono,
           Il fremer di rott' onde, e urlar di naufraghi:
           Di fragor mille un suono
           Va confuso le stelle ad assordar.
         Cari garzon', cui posero
           I Fati sul canoro
           Labro armonìa flessanime,
           L' inutile tesoro
           Piangono: chè a l' indomita
           Piena per regger frali,
           Sè stessi a la vittrice onda abbandonano,
           Intesi i non vocali
           Concenti pur col canto a simular.
[-272-]  Questi non son, Melpomene,
           Que' numeri severi,
           Onde a tua voglia tenere
           Lagrime al ciglio imperi;
           Nè questo è l' Anfioneo
           Suon, che le pietre mosse,
           E gli uman cor, qual fredda selce rigidi,
           Così primier percosse,
           Che la favilla di ragion destò!
         Ma che favello? il garrulo
           Labro ove oimè! trascorre?
           L' inno quest' è, Melìpselo,
           Che a te promisi sciorre?
           Come raccor le varie
           Fila al primier subbietto?
           Meglio tacer: perdona; opra difficile
           È vincere il difetto,
           Se in natura per lungo uso cangiò.
LXXXVIII. Mentre i cantanti richieggono agl' impresarj paghe oltre ogn' ordin economico, s' ostinano questi d' impor a sestessi dispendio di sfarzosi vestimenti: tenaci nell' opinione che sia volontà del popolo, non so con qual favella espressa, d' aver un cotal fasto esteriore, cui mal corrisponde il vacuo intrinseco, sorgente della noja e sazietà che investe tutt' i teatri. E non sarebbe convenevole frenar ad un tempo l' uno e l' altro dispendio? Tentiam la soluzione del quesito, e ne sia prezzo, con minori spese ottener più ricchi risultamenti.

LXXXIX. Per moderar le paghe onerose, unico mezzo si è l' educazione drammatica. A togliere il fastoso dispendio, col quale gli appaltatori sperano illudere la lor miseria, opportuni siano altri impresarj doviziosi veramente. Stabilisco per principio, che il vero dilettamento consiste nella perfetta esecuzione di ragionevoli componimenti, ancorchè mediocri alquanto gli uni e gli altri mezzi; e che sia da preferirsi una rappresentazione, scelta con buona mente, sotto dotta direzione, da giovani attori precisamente sostenuta, a certi grandi spettacoli, prima dall' orgoglio di rinomati virtuosi guastati, poi con sommo disordine affidati in parte ad esecutori d' ignorantissima incapacità: dalla quale disparità distonato rimane doppiamente l' assieme.

[-273-] Suppongo un paese dove esistano già stabilimenti per raccogliere gli orfanelli, ed altri figli d' indigenti, e nel quale si creda dovere spendere per questa generale beneficenza. Quello poi di educarli nello stesso tempo all' arti drammatiche non sarà che secondario fine di pubblica utilità nel tempo stesso.

Figurisi un vasto stabilimento, dove sia distintamente, abitazione pe' fanciulli dell' uno e dell' altro sesso, sale pelle scuole, con una maggiore pegli esercizj, ed il domestico teatro.

Non farò come quegli architetti a' quali nulla costa edificar di carta, quindi con vastissimo progetto spaventano il signore, che perciò appunto abbandona ogni concepito pensiero di fabbricare. Costoro se avessero almeno dimostrata l' idea dell' edificio separabile in più parti, che possano sussistere disgiunte, il padrone avrebbe accettato di imprender la fabbrica principale, ed avrebbe forse in appresso ad una ad una compite tutte l' altre. Per troppo volere nulla si ottenne. Il mio progetto può essere picciolo, grande, universale. Però a non istancare i Lettori dicendo due volte, basterà che si vegga dal discorso stesso, come potrebbesi dar opera separatamente alla minor parte, in cui poca sia la spesa a confronto del molto vantaggio; ed estender poi l' impresa eziandio a confini di principesca munificenza, nonchè temporarsi fra queste due estremità.

Le scuole siano: Primo: di calligrafia, e di buona pronunciazione della lingua propria: per que' giovani specialmente che si consacrino all' arti vocali; e innoltre far apprendere ad essi verseggiare nella lingua stessa, perchè male può sentir ed esprimere i versi chi non sa farne almeno materialmente. Potrebbesi aggiungere la lingua francese, necessaria a chi esercita una professione che porta con sè il caso di viaggiar anche ne' paesi stranieri.

Secondo: Scuola di declamazione. Due maestri, uno per sesso, insegnando coll' esempio ancora, recitino unitamente agli alunni, specialmente nelle parti senili o comiche, alle quali la gioventù non prende così presto l' attitudine.

Terzo: principj musicali. Quarto: Scuola del canto. Nell' unione de' spettacoli di prosa e di musica siano comuni anche gli attori, e ne verrà nuovo intrinseco vantaggio alle due arti, che ben esaminate, sono virtuosamente una sola [-274-] cosa. Conciossiachè ogni attor cantante dovrebbe prima recitare, e in questo esercizio andarsi mantenendo, per saper declamare quanto vuol cantare. Nongià che i più atti alla difficile melodrammatica rappresentazione abbiano a stancarsi, insistendo a recitar tuttavia colla compagnia semplicemente declamante; ma nella scuola non si toglierà mai affatto questa comunanza. I secondarj poi, e massime i coristi, servano sempre all' uno e all' teatro, e quest' ultimi guadagneranno la rara facoltà d' essere attori ancora.

Quinto: L' orchestra si potrebbe pagare straniera, con un regolare salario, da mettere fralle spese serali. Quando però lo stabilimento fosse ordinato coll' accennata vasta munificenza, gioverebbe averla, in gran parte almeno, composta di alunni formati ad un getto. Pe' quali altre quattro scuole circa classificherebbero le diverse sorta di analoghi strumenti.

Sesto: Chi fosse mosso da generoso amor dell' arte, potrebbe far istruire qualche giovine alunno di febea vocazione nel componimento musicografico, mercè un dotto maestro, che sarebb' egli stesso compositor principale di nuove opere, da unirsi a quelle classiche ch' egli sceglierebbe, dirigendone poi l' esecuzione.

Settimo: Il genere coredrammatico apparterrebbe dell' estremo lusso di questa fondazione, come quello che dilata le spese, le cure, senza essere necessario propriamente a' migliori dilettamenti che vengono più intensi dalle drammatiche, o musicali declamazioni. Pure chi amasse un tal fasto, potrebbe aggiungere un maestro, corepeo, ed istruttore di pantomima, il quale ordinasse balli suoi ed altrui.

Ottavo: Si aggiungerebbe la scuola di danza, insegnata da un maestro, e da una maestra. Potrebbe ancora star questa senza gli spettacoli pantomimici, per ornamento e intermedio delle vocali rappresentazioni.

A tutti codesti studj, ed agli esercizj della palestra e della scena dovrebbe sovrastare un preside, non altiero di nobile autorità, ma di letterario sapere nelle cose poetiche, particolarmente teatrali. Che se de' giovani alcuno avesse indole non volgare alle lettere, qual servizio all' arte non si presterebbe, facendogli studiar ad un tempo musica, e poesia, onde diventasse il doppio autor de' melodrammi, [-275-] ed un giorno il reggitore dello stabilimento, di cui fu prima egli stesso un allievo!

XC. Pelle serali recitazioni occorrerebbero magazzini proporzionati al repertorio, moderato questo, come quelli da volontaria parsimonia, che con autorevol esempio coreggesse il lusso teatrale. Le commedie scelte del buon genere imitativo richieggono gli abiti più comuni, regolati piuttosto da precisa verità. Bando agli spettacoli; e delle tragedie classiche gli eroici verstiarj son i manco costosi, Occorrebbe ne' men antichi temi altra foggia di vestimenti. Ma anche in questi vidi mai sempre più de' ricami brillar l' armonia de' colori. Dell' opere serie può dirsi altrettanto che delle tragedie, nè differenza sarebbe di guardarobba. Dall' opere buffe, in un teatro non venale, sia bandito nonsolo il fasto musicale, ma quello del vestir estraneo all' uso comune. Abbiam già veduto che la coregrafia non è a consigliarsi. Però chi ne osasse la spesa, godrebbe poi certo frutto: di conservar a repertorio buoni antichi balli, de' quali qualunque sia l' obblio, rimarrebbe sempre maggior succo che non danno le sciapite nuove produzioni. Nè si spenderebbe omai più pe' sempre nuovi sfarzosi allestimenti, che sovente dopo la maraviglia d' una sera, vanno alla fine delle recite disfatti, e quanto poco dell' intrinseco ne rimanga ognuno se 'l vede.

Delle scene per tutte le sorta di rappresentazioni sarebbe pure una la spesa, lungo il risparmio; conciossiachè durerebbero per molto tempo le stesse. Innoltre una savia scelta nel formar i repertorj, e che dasse luogo piucchè sì può al bel pregio di scena stabile ne' drammi, scemerebbe alquanto il numero delle tele ne' magazzini.

Gli allievi del conservatorio diano così quotidiano serale spettacolo di recitazione, di canto, alternati od accoppiati con opportuno intendimento, e ne venga formato a mano a mano il loro repertorio. S' unisca la pantomima e la danza, se così piace. Ma soprattutto gli oratorj, mescolati, come proposi, di eloquenza; nonchè gli spartiti cantati al cembalo, e qualche accademia per esercizio, ma di canto veramente lirico, gioveranno a render perenne il nobile seral divertimento musicale, in que' giorni ancora, ne' quali vogliansi chiusi i teatri.

Nonsolamente gli scuolari, per tutta l' età che dura [-276-] l' educazion loro, sian obbligati giovar di sestessi le rappresentanze, od in azioni secondarie, o se n' avessero felice attitudine, nelle primarie: ma dopo ancora lo stabilito tempo dello studio, il noviziato all' arte debbano spendere nello stesso luogo, negli stessi esercizj, per un modico numero d' anni determinato, retribuendo così le primizie di lor carriera in prezzo dell' inestimabile benefizio d' una gratuita istruzione. Nè per ingrata lusinga di trarre altrove profitti maggiori, debbano fuggirsene, altrimenti che coscritti, e figli di militari possano impunemente rifuggirsi in estero paese.

Bensì sarebbe ragionevole che uscissero dall' educandato forniti delle necessarie cose, con certa dote di denaro, la quale bastasse almeno fin a toccar guadagni maggiori. Mi piace ancora osservare, che particolarmente le donne, andrebbero fralle lusinghe delle scene alquanto adulte, spessevolte ancora unite già ad uno sposo, passando dal ritiro al talamo: giacchè a loro non mancherebbero mariti con sì belle speranze; nè correrebbero così que' pericoli ond' è purtroppo feconda, massimamente nell' età più inesperta, la loro carriera. E ciò confortami ne' dati consigli, e nel progetto mio: mentre non vorrei d' altronde, sebben amantissimo de' teatrali spettacoli, che alcuno si mettesse per mio consiglio in così pericolosa professione.

FINE